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eticaeconomia

Libertà in vendita

di Valentina Pazè

Valentina Pazè sostiene che in un’epoca in cui la libertà viene celebrata come il valore supremo torna in primo piano la questione della mercificazione del corpo. I fenomeni della prostituzione e della maternità surrogata, in particolare, pongono difficili interrogativi all’etica, al diritto, alla politica. È possibile stabilire un limite a ciò che i soldi possono comprare? Che dire quando sono le donne stesse a rivendicare il diritto di disporre del proprio corpo come se si trattasse di una merce? Quale rapporto esiste tra libertà e mercato?

Un silenzio assordante circonda le nuove forme di sfruttamento, mascherate e giustificate nel nome della libertà. Silenzio ma, forse, sarebbe meglio dire “cecità”. Ovvero autentica incapacità di “vedere”, riconoscere, nominare l’esistenza di rapporti di subordinazione, sfruttamento, o vero e proprio dominio, quando siano mediati dalla forma giuridica del contratto. Quando si fondino su un patto tra soggetti formalmente liberi e consenzienti. Da queste considerazioni è nato il mio libro Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato, recentemente pubblicato da Bollati Boringhieri, di cui qui ripropongo, con qualche adattamento, l’Introduzione.

La peculiarità delle forme capitalistiche di sfruttamento consiste nell’esercitarsi su persone giuridicamente libere, che non sono obbligate a lavorare alle dipendenze altrui. Ai tempi di Marx l’operaio era libero di vendere la propria forza-lavoro a un imprenditore, accettando o rifiutando le condizioni da lui poste. In modo simile, anche se in forme nuove, l’odierno ciclo-fattorino è “libero di accettare la proposta di consegna o meno, è libero di andare piano o forte in bicicletta, è libero di rispettare o meno i semafori rossi, strade contromano, inversioni di marcia, è libero di fare quello che vuole. Ma sono tutte libertà che hanno un costo” (M. Pagliassotti, Vita da rider: hamburger di Natale). Rispettare i semafori, attenersi alle norme di sicurezza, non ammazzarsi di lavoro significa infatti perdere la competizione con gli altri rider, venire declassati dall’algoritmo, rinunciare a una buona parte degli introiti. In modo simile la prostituta che lavora in una “casa” tedesca, perfettamente legale e formalmente rispettosa di severi standard di sicurezza, è libera di rifiutare rapporti senza preservativo e altre prestazioni pericolose e sgradite, così come di denunciare aggressioni e violenze. Ma se lo fa perde clienti e si brucia la possibilità di continuare a lavorare.

La modernità inaugura, secondo la nota formula di Henry Sumner Maine, il passaggio “dallo status al contratto”: dalla comunità alla società, dalle identità ascrittive a quelle elettive, dal lavoro coatto o semi-coatto tipici del mondo antico e medievale a quello libero, frutto dell’incontro sul mercato tra domanda e offerta. Un incontro paritario, sul piano formale, ma asimmetrico sul piano sostanziale, che vede da un lato soggetti “liberi” innanzitutto nell’accezione marxiana del termine, ossia “privi” di mezzi di produzione, e dall’altro non più solo i possessori del capitale necessario per acquistare la forza-lavoro altrui, ma i clienti dell’economia globalizzata. In questo contesto noi tutti siamo diventati consumatori e consumatrici di una quantità di nuovi servizi, tra cui quelli del bio-capitalismo, che mette in vendita non più solo i prodotti della fatica umana, ma gli stessi corpi, e le loro parti. In particolare i corpi delle donne, protagoniste dei nuovi mercati della fertilità, oltre che dei vecchi mercati della prostituzione e della pornografia. In ogni caso, la sostanza rimane. Ed è che in un mondo diseguale – sempre più drammaticamente e assurdamente diseguale – dietro la facciata presentabile di rapporti orizzontali, tra pari, si nasconde la prevaricazione dei forti sui deboli.

Perché, allora, facciamo fatica a chiamare le cose con il loro nome e tendiamo a non riconoscere relazioni di sfruttamento travestite da accordi tra soggetti liberi e consenzienti? Com’è che la prostituzione suscita indignazione solo se esercitata in condizioni di vera e propria schiavitù, dalle immigrate che siamo abituati a considerare vittime della tratta, e non quando ha per protagoniste donne costrette, banalmente, a vendersi per sbarcare il lunario? Com’è che la legalizzazione della maternità surrogata viene, in molti ambienti, considerata una battaglia di sinistra, nonostante l’esistenza di un’evidente asimmetria tra i soggetti coinvolti nei contratti di surrogazione: donne povere e poco istruite, da una parte, che offrono utero e/o gameti, mettendo a rischio la loro salute fisica e psichica, e uomini e donne benestanti e istruiti, dall’altra, che usufruiscono dei suoi servizi? Perché facciamo fatica a riconoscere le nuove forme di “schiavitù volontaria”?

Le cose non sono in realtà semplici come queste domande potrebbero indurre a pensare. Non mancano infatti voci di chi rivendica la scelta di prostituirsi, vendere o “donare” gameti, affittare o “prestare” l’utero come il frutto di una decisione libera e consapevole. E come un diritto, che spetterebbe allo Stato riconoscere e garantire. In effetti, come si fa, a priori, a stabilire che una persona è sfruttata, umiliata, disprezzata, se lei nega di esserlo (o se, apparentemente, desideraesserlo)? È possibile proteggere qualcuno “da se stesso”? Nel vietare atti di disposizione del proprio corpo lesivi della dignità o della sicurezza – come da sempre cerca (o cercava) di fare il diritto del lavoro, vietando di rinunciare alle ferie o di lavorare più di un certo numero di ore al giorno – non si rischia di imporre paternalisticamente un modello perfezionistico di “vita buona”, in modo non molto diverso da quanto fa la discussa legislazione francese sul velo? Più in generale, su quali basi è possibile limitare la libertà delle persone di decidere della propria vita, di disporre di sé e del proprio corpo, anche a titolo oneroso, quando ciò avvenga senza comportare una lesione dei diritti altrui?

Con queste domande, che non sono puramente teoriche, occorre misurarsi davvero. Perché i problemi legati all’idea dell’inalienabilità di un nucleo di diritti fondamentali, e alla connessa limitazione del diritto-potere di decidere su se stessi, sono complessi. E il rischio di assumere una postura giudicante e, in fondo, infantilizzante, nei confronti di chi potrebbe semplicemente avere scelto uno stile di vita anticonformista, di sostituirsi alle persone con la pretesa di conoscere i loro “veri interessi” meglio di quanto possano fare esse stesse, è in agguato.

Quando ci si interroga sui possibili limiti alla libertà, il discrimine è in genere individuato nel principio del consenso informato. Che si tratti di decidere di porre fine alla propria esistenza, divenuta insopportabile, o di compiere scelte meno drammatiche, ma pur sempre onerose, come intraprendere una professione potenzialmente pericolosa o usurante, ciò che conta – si dice – è che la scelta sia davvero “nostra”, non frutto di ignoranza, pressioni, lavaggio del cervello.

Io non credo che questo sia l’unico problema. Ma sicuramente il tema della genuinità del consenso esiste ed è centrale quando si tratta di legiferare, fissando dei vincoli a ciò che i soggetti possono lecitamente scegliere esercitando la loro autonomia contrattuale. Il problema è che non è affatto chiaro che cosa significhi compiere una scelta “libera” e volontaria.

Per questo motivo il libro, nato dall’interesse per alcune questioni molto specifiche riguardanti in particolare le donne – prostituzione, maternità surrogata, divieto del velo – si apre con un capitolo dedicato a rileggere alcuni degli episodi più significativi del secolare dibattito sul libero arbitrio, la cui genesi coincide con la nascita stessa della filosofia, nell’ambito della polis, e anche prima. Dal mondo omerico, in balia degli dei e del destino, alla Grecia classica, che continua a lungo a considerare involontario – e dunque non punibile – l’omicidio commesso in preda all’ira, fino alle pagine di alcuni dei più grandi pensatori della modernità (da Hobbes a Locke a Spinoza a Leibniz), la riflessione sul significato, i limiti, i presupposti della “libertà del volere”, e sulle sue implicazioni etiche e politiche, non cessa di sollevare difficili interrogativi. A seconda che, con Platone, ci auto-rappresentiamo come soggetti liberi e responsabili (non solo di singole azioni, ma delle nostre stesse inclinazioni caratteriali) oppure, con Spinoza, riteniamo che ciascuno sia in buona misura determinato ad agire dalle circostanze in cui si è trovato a nascere e a vivere, cambiano le nostre idee di colpa, merito, responsabilità. E cambia il modo in cui ci poniamo di fronte alla possibilità di distinguere tra prostituzione “per scelta” e “per necessità”, all’ipotesi di legalizzare la maternità surrogata, alla qualificazione del velo islamico come simbolo di sottomissione o di libertà.

Ma la questione della libertà, oggi, si pone anche in termini più generali, in relazione alle nuove forme di organizzazione del lavoro ispirate al modello dell’impresa a rete e alle teorie del new management, in cui le relazioni di dominio vengono dissimulate da forme di controllo tecnologico o tra pari, valutazione individualizzata delle prestazioni, standardizzazione delle procedure, manipolazione del bisogno di autonomia, creatività, “libertà” del lavoratore attraverso tecniche specifiche che “spingono gli individui a fare in modo apparentemente volontario ciò che ci si aspetta da loro” (L. Boltanski e È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014, p. 512).

Si tratta allora di interrogarsi sugli effetti di cinquant’anni di politiche neoliberali, in cui la libertà è stata portata in trionfo e celebrata come il supremo, se non l’unico, valore, a partire dall’economia ridefinitasi come “scienza della libertà individuale”. E sono state dimenticate, e tradite, anche da chi si presentava come il custode della gloriosa tradizione della sinistra, le sue due sorelle rivoluzionarie: égalité e fraternité. Senza le quali una reale emancipazione è impossibile.

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