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Elogio dei socialismi imperfetti

di Carlo Formenti

Fra qualche giorno sarà in libreria il Secondo Volume di "Guerra e rivoluzione" (del Primo Volume, intitolato "Le macerie dell'Impero", ho dato alcune anticipazioni su questa pagina un paio di mesi fa, poco prima che uscisse). Il tema di fondo di questa seconda parte del lavoro è il socialismo: in che misura i Paesi che oggi si definiscono socialisti meritano di essere definiti tali, qual è il contributo che le loro esperienze possono dare alla rinascita del marxismo occidentale e alla ripresa di un progetto di trasformazione socialista nei nostri Paesi? Qui di seguito anticipo alcuni stralci dalla Nota conclusiva alla Prima Parte, dedicata alla Rivoluzione cinese e alle rivoluzioni latinoamericane.

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Conclusioni alla Prima Parte del Secondo Volume

I tre capitoli di questa Parte contengono quella che considero la tesi più importante del libro: contro i “puristi” che sostengono che oggi nel mondo non esiste alcun Paese socialista, ma solo differenti forme di capitalismo in competizione reciproca, io sostengo che nel mondo i socialismi esistono, anche se “imperfetti”.

Imperfetti non perché non corrispondono al modello ideale elaborato da Marx ed Engels e rimasto sostanzialmente immutato in tutta la storia novecentesca. Chi ha letto il primo Volume, sa che considero quel modello del tutto obsoleto, sia perché frutto di elaborazioni condotte in un contesto economico, politico e sociale radicalmente diverso dall’attuale, sia perché ibridato con paradigmi – evoluzionismo, positivismo, progressismo e modernismo borghesi, ecc. – estranei alle stesse fondamenta della ontologia sociale marxiana (1). Né a rendere imperfetti questi socialismi è il fatto che si tratta di formazioni sociali in cui permangono il mercato e la proprietà privata (2), bensì il fatto che, pur avendo incredibilmente migliorato le condizioni della stragrande maggioranza delle persone che in esse vivono e lavorano, convivono con una serie di contraddizioni che ne rendono imprevedibile l’ulteriore evoluzione. Si tratta cioè di società in transizione che potranno approdare a esiti differenti in base all’evoluzione delle contraddizioni di cui sopra, e ancor più in base ai rapporti di forza che riusciranno a instaurare con i Paesi capitalisti del blocco occidentale (...).

Tutto questo ci porta alla guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato non solo contro questi Paesi ma anche contro tutti quelli che, pur non essendo socialisti, tentano di sottrarsi al loro dominio. Molti marxisti occidentali vedono, in questa alleanza “spuria” fra Paesi in via di sviluppo con regimi fra loro ideologicamente assai diversi, l’ulteriore conferma del fatto che Paesi come Cina, Bolivia, Venezuela, Cuba non sono “veramente” socialisti. Analogamente non viene digerito il fatto che queste nazioni mantengono un ferreo controllo politico sulle dinamiche di mercato presenti al proprio interno, il che induce a definirli totalitari e antidemocratici (laddove si intende che l’unica “vera” forma di democrazia è, per definizione, la democrazia rappresentativa occidentale). Tali accuse non vengono rivolte solo alla Cina, dove vige un regime di partito unico, ma anche a Bolivia e Venezuela, benché in questi Paesi le forze rivoluzionarie siano andate al potere per vie legali e abbiano continuato a governare rispettando le procedure della democrazia formale (...).

Nel discutere di questi e altri problemi ho richiamato l'attenzione sulle molte e significative differenze fra il sistema cinese e i socialismi latinoamericani. Ritorno sul tema evidenziando alcuni aspetti emersi nel corso dell’analisi. Il più importante mi pare il seguente: il PCC ha costruito letteralmente ex novo lo Stato cinese, già demolito dalla colonizzazione occidentale e poi definitivamente dissolto da decenni di guerra civile e di lotta contro l’invasione giapponese, il che vuol dire che dispone di un poderoso strumento progettato “su misura” per le esigenze del processo rivoluzionario. Tutti i processi rivoluzionari latinoamericani hanno invece ereditato Stati plasmati da secoli di dominio borghese e coloniale, con caste burocratiche, giuridiche, militari e accademiche abituate a servire gli interessi delle élite dominanti e in larga misura provenienti da quelle stesse élite. Ciò ha creato gravissimi problemi nell’implementazione dei progetti di trasformazione sociale dei governi post-neoliberisti. Problemi altrettanto gravi ha creato la necessità di far convivere le nuove istituzioni di democrazia diretta e partecipativa inserite nelle Costituzioni approvate dopo le rivoluzioni con la democrazia rappresentativa.

Una seconda differenza strategica si riferisce al ruolo delle classi medie. Anche in questo caso la Cina è in vantaggio: un partito e uno Stato espressione di una rivoluzione eminentemente contadina hanno in qualche modo potuto “dosare” la crescita delle classi medie, educandole ad accettare e condividere i valori del progetto socialista. Viceversa in America Latina sussistevano, e sussistono, ampi settori di classi medie tradizionali profondamente reazionarie, mentre è mancato il tempo di educare le nuove classi medie, cresciute in fretta e disorientate dalla crisi globale.

La mia tesi è che, paradossalmente, sono questi fattori di maggior debolezza delle esperienze rivoluzionarie latinoamericane a rendercele più “vicine” di quella cinese. Sia perché in Europa è difficile immaginare situazioni rivoluzionarie che contemplino la possibilità di costruire ex novo lo Stato, per cui anche qui si porrebbero problemi analoghi, se non più gravi, a quelli incontrati da Bolivia e Venezuela; sia perché i nostri legami culturali con l’America Latina sono tradizionalmente più stretti di quelli con la Cina. Tutto ciò comporta la difficoltà, non dico di progettare/praticare ma anche di immaginare, percorsi rivoluzionari che non restino impastoiati in logiche di tipo elettoralistico.

Un’altra affinità riguarda l’orizzontalismo: analizzando le tesi dell'ex vicepresidente boliviano Linera (3) ho evidenziato come costui, pur polemizzando con l’antistatalismo di certe opposizioni “di sinistra”, conservi una visione che associa il socialismo realizzato a un processo progressivo di dissoluzione dello Stato, che verrebbe sostituito da istituzioni popolari di autogestione dal basso. Come è noto, questa ideologia è largamente prevalente nei movimenti della sinistra radicale europea e nordamericana, ed è stata uno degli ostacoli che più hanno impedito di ricostruire una forza politica anticapitalista dopo il crollo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio (...).

Questa maggiore affinità fra marxismi occidentali e marxismi latino-americani rispetto a quello cinese ci riporta alla divaricazione fra marxismo orientale e marxismo occidentale (4) cui ho più volte fatto riferimento in questo lavoro, con il marxismo latinoamericano che si colloca in una posizione intermedia: più vicina a quella cinese sul piano dell’agire concreto, più vicina a quella europea sul piano del progetto utopistico (5).

Tirando le somme: sbarazzato il campo dalle ubbie puriste e preso atto dei meriti (e dei limiti) dei socialismi imperfetti di cui abbiamo ragionato; posto che il salto di paradigma compiuto da Arrighi, che ha messo in luce la necessità di superare l’equazione fra capitalismo e mercato (6), è un’acquisizione irrinunciabile per chiunque non voglia attardarsi in nostalgiche celebrazioni delle utopie ottocentesche; posto infine che la guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato contro i socialismi imperfetti e i loro alleati disegna due campi contrapposti dai quali i marxisti rivoluzionari non possono dirsi equidistanti; posto tutto ciò, resta il compito di discutere a quali condizioni possa essere fatto rinascere un marxismo occidentale che torni a porsi l’obiettivo della presa del potere e della costruzione del socialismo.


Note
(1) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012.
(2) Sulla possibilità che nella prima fase di transizione al socialismo possano convivere socialismo e mercato, e sul modo in cui questa convivenza si è realizzata nella concreta esperienza di costruzione del socialismo in Cina, cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.
(3) Cfr. A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
(4) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari 2017.
(5) A dire il vero, nemmeno i comunisti cinesi rinnegano l’utopia marxista classica, ma la proiettano in futuro talmente vago e lontano da disattivarne l’impatto sulla prassi politica quotidiana.
(6) Vedi nota (2).

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