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ilpungolorosso

La mitologia della settimana corta

di Federico Giusti*

Periodicamente su stampa e tv appaiono annunci sensazionali del genere: “la settimana corta degli inglesi: più ricavi e dipendenti felici” (la Repubblica, 21 febbraio). E poi di seguito: “quattro giorni e stessa paga: l’esperimento in 61 aziende e 2.900 dipendenti nel 2022. I risultati sono eclatanti e approvati anche dai dirigenti. E Londra ora pensa ad una legge”.

Se poi leggete dentro, scoprite che gli inglesi divenuti “felici” (!!!) si riducono a 2.900 su alcune decine di milioni di occupati; che solo il 15% di loro (435 persone, cioè) non vuole assolutamente tornare al precedente sistema di orario; che la diminuzione delle ore di lavoro “è stata compensata da un maggior ritmo di lavoro”; che le imprese hanno introdotto “ore di lavoro battezzate ‘a testa bassa’, in cui i dipendenti non possono essere interrotti”; che “c’è meno tempo per socializzare sul posto di lavoro”; che “ai lavoratori è stato chiesto di mandare meno mail, più brevi e, ove necessario, di svolgere anche le mansioni degli altri colleghi” – un quadretto di felicità senza limiti, insomma.

Ecco perché risulta centrata questa messa in guardia di Federico Giusti (della CUB di Pisa) sulla mitologia, proprio così, della settimana corta.

In realtà da molti, molti anni, la tendenza generale è, specie nei paesi occidentali, quella opposta: da un lato all’allungamento degli orari di lavoro – come si è visto da ultimo in Francia dove la “riforma” delle pensioni di Macron ha accollato qualcosa come 3.000 ore di lavoro in più ad ogni salariato o salariata nell’arco della sua vita; dall’altro lato all’aumento della disoccupazione e dell’estrema precarietà. Sì, “la questione va trattata bene, e in termini diametralmente opposti alle logiche padronali“. (Red.)

* * * *

L’aumento della produzione e del plusvalore può avvenire anche con la riduzione dell’orario di lavoro o della settimana lavorativa o con processi di innovazione tecnologica, il miglioramento delle condizioni di vita non determina automaticamente la riduzione dello sfruttamento della forza lavoro.

Questa premessa si rende indispensabile per parlare della ultima moda riguardante la settimana lavorativa “corta” che avviene nei paesi Ue con varie modalità, a parità di salario e riduzione del monte ore totale, oppure lasciando invariato il monte ore spalmandolo su meno giorni lavorati. Poi ci sono anche altre opzioni come la riduzione oraria accompagnata da tagli salariali.

La riduzione della settimana lavorativa è stata sovente presentata, nel recente passato, come miglioramento della condizione di vita o strumento per accrescere l’occupazione anche se nella stragrande maggioranza dei casi è servita per accrescere la produttività.

La Cgil ha inserito la riduzione della settimana lavorativa nella propria piattaforma contrattuale dimenticando di affrontare il nodo saliente relativo all’aumento della produttività e del plusvalore; ma se fosse un vantaggio per la forza lavoro, non troverebbe tanto ascolto nel Governo e nella parte datoriale. Dove sta allora l’inghippo?

Molte aziende hanno da tempo compreso che ridurre la settimana lavorativa contraendo l’orario di lavoro può rappresentare un vantaggio per la produttività dei singoli e dell’azienda; per questo si mostrano aperti e disponibili a prendere in considerazione questa ipotesi, se poi riducono l’orario in cambio di minore salario, il vantaggio è evidente a chiunque.

In alcuni paesi l’orario giornaliero è passato a 9 ore e mezza di lavoro al giorno e i sindacati locali non hanno voluto sottoscrivere alcuna intesa con il Governo e le parti datoriali. Ove invece, ad esempio nel settore bancario, la riduzione della settimana lavorativa è stata adottata, si registrano aumenti delle mansioni esigibili e un evidente vantaggio economico per la parte datoriale, oltre ad un sensibile aumento dello stress derivante dalla crescita dei carichi di lavoro.

E in altri casi la diminuzione delle ore/giorni di lavoro è stata accompagnata da un incentivo pubblico per mantenere gli stessi salari senza gravare sulle imprese che nel frattempo hanno accresciuto i loro ricavi. Altri regali alle imprese da parte dello Stato senza ricadute positive sul potere di acquisto e senza migliorare le condizioni di vita della forza lavoro

Alcune ricerche hanno appurato che la riduzione delle ore lavorate è stata utile alle imprese per avviare dei processi riorganizzativi o per aumentare i contingenti della forza lavoro incrementando i contratti part time che alla fine determinano salari inferiori.

In ogni caso la riduzione dell’orario porta all’aumento della produttività per ora lavorata e all’aumento dei ricavi aziendali, ed i vantaggi per la forza lavoro sono assai ridotti rispetto agli utili aziendali. In certi casi la produttività è invece diminuita laddove gli orari lavorativi giornalieri sono accresciuti, a dimostrazione del fatto che l’obiettivo padronale è quello di far credere che ci siano vantaggi per i singoli lavoratori dietro a provvedimenti che mirano solo ad obiettivi aziendali.

La settimana di quattro giorni potrebbe rivelarsi un boomerang per la forza lavoro specie se ogni considerazione diventa astratta senza considerare il punto di vista, e i vantaggi, per la parte datoriale, specie se arriveranno incentivi statali.

La questione va allora trattata bene e in termini diametralmente opposti alle logiche padronali.


* CUB Pisa

Comments

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renato
Sunday, 09 April 2023 09:24
Fino ad ora siete i migliori nelle analisi e proposte. Peccato che ci siano ancora i creduloni e i fancazzisti filo amministrativi della triplice. Una delle 4 5 palle al piede della povera italietta provinciale (e del mondo salariato si intende) con mire atlantiste e goffe illusioni progressiste. Grazie.
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