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lafionda

Le riforme previdenziali come lotta di classe alla rovescia

di Federico Giusti

Dal 2019 l’età per la pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni per tutte le categorie. Una età destinata ad aumentare con l’incremento della speranza di vita che invece in questi anni è rimasta al palo e senza incremento l’età di uscita dal lavoro è rimasta al palo. 

Se l’aspettativa di vita decresce l’uscita dal lavoro non subisce a sua volta alcuna modifica, questo è il meccanismo dettato dalla Fornero.

Nei prossimi anni presumibilmente la speranza di vita riprenderà a crescere e da qui a pochi anni la pensione di vecchiaia raggiungerà 68 anni di età.

Stando alle statistiche Istat di fine 2022, sono 22,7 milioni le prestazioni del sistema pensionistico italiano al 31 dicembre 2021, il numero dei beneficiari si aggira attorno 16 milioni e la spesa è di 313 miliardi di euro. Sempre gli stessi dati ci dicono che il 90% della spesa complessiva (283 miliardi) è destinata alle prestazioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS). , il 13,9% alle pensioni ai superstiti (43 miliardi), il 4% a quelle di invalidità (13 miliardi).

L’età media della popolazione italiana è di 41,6 anni, per gli italiani 45,5 anni mentre per gli stranieri si abbassa a 35,2 anni sempre secondo le rilevazioni Istat del dicembre 2022. Eppure molti stranieri che versano contributi allo stato non arriveranno a percepire una pensione trasferendosi dopo pochi anni in altri paesi.

Nel 2021 i decessi sono cresciuti dell’8,6% causa contagi covid e mala sanità (aggiungiamo noi), in 10 anni l’età media degli italiani è cresciuta di 3 anni, la popolazione è in calo e sempre più vecchia.

Da questi dati si evincono due fatti incontrovertibili ossia che l’invecchiamento della popolazione è un dato comune ad altri paesi a capitalismo avanzato e a bassa immigrazione, la seconda riflessione riguarda invece gli scenari futuri di un paese combattuto tra chiusure aprioristiche agli stranieri e flussi guidati dalle richieste di Confindustria.

Nel frattempo il Governo Meloni sta riscrivendo parte del welfare nel silenzio assenso dei sindacati italiani che al contrario di quelli europei non scioperano, non confliggono (tranne quelli di base) e avanzano rivendicazioni contrattuali del 5\6 per cento in linea per altro con le offerte datoriali italiane ed Europee.

Gli scioperi in Germania e Gb sono supportati da rivendicazioni assai diverse, si chiedono aumenti che vanno dal 10 per cento in su, in Italia i sindacati rappresentativi esultano davanti a rinnovi contrattuali del 5% magari con una contrattazione di secondo livello che accorderà flessibilità orarie, deroghe peggiorative ai contratti nazionali e defiscalizzazioni dei premi per la felicità dei padroni desiderosi di pagare sempre meno tasse.

In Italia il sindacato va annoverato nelle fila neoliberiste invocando minore tassazione dei salari, noi pensiamo che sul fisco si giochi una partita rilevante, forse decisiva, per i futuri equilibri sociali del nostro paese. Se non lotti per una patrimoniale, se ti limiti ad uno sciopericchio contro la flat tax senza mai incidere sui rapporti di forza, se non rivendichi un sistema progressivo delle tasse con aliquote crescenti in base al reddito, se cedi al ricatto del recupero del potere di acquisto a discapito della fiscalità generale e del welfare, difficilmente potrai portare a casa dei risultati apprezzabili.

Siamo davanti a una sorta di subalternità ideologica dei sindacati rispetto agli interessi padronali, questa subalternità non si manifesta solo con l’assenza del conflitto ma attraverso richieste che alla fine non incrementano potere di acquisto e di contrattazione.

La spiegazione di questa debacle culturale e politica sta proprio nel dogma del pareggio di bilancio, nella logica che la inflazione vada tenuta sotto controllo sempre e comunque e alla fine si sceglie di impoverire il welfare state sottraendogli fondi attraverso i tagli alla spesa sociale, sanitaria ed educativa e facendo mancare, sempre allo stato sociale, i mancati versamenti delle tasse da parte datoriale.

Il sindacato rappresentativo non è solo arrendevole e concertativo, non rinuncia a confliggere solo perché ha un conflitto di interessi sancito dalla previdenza e sanità integrativa, se accetti di buon grado di ridurre le tasse ai datori difficilmente potrai assumere decisione improntate a equità sociale. Se ritieni giusto recuperare qualche soldo al potere di acquisto riducendo le tasse finisci con l’accettare che molti servizi siano presto destinati alla privatizzazione perché una gestione diretta degli stessi sarebbe economicamente insostenibile. E se non hai tratto insegnamenti dalle privatizzazioni difficilmente potrai rivendicare dignità salariale negli appalti e men che mai processi atti a reinternalizzare i servizi.

La autentica contraddizione è data quindi dalla subalternità dei sindacati ai dettami tecnocratici europei, la debacle culturale imperante da anni ha portato a subire spending review e non ultima la revisione delle regole per la non autosufficienza che mirano sostanzialmente a ridurre i contributi versati alle famiglie.

A quanti si chiedono la ragione della arrendevolezza sindacale italiana bisognerebbe ricordare che alcune conquiste degli anni sessanta e settanta sono state liquidate negli anni neo liberisti in nome della lotta agli egoismi quando invece erano frutto di lotte sindacali e il risultato di una visione di classe dei rapporti sociali.

L’aumento dell’età pensionabile in Italia ha rappresentato un autentico laboratorio delle controriforme se pensiamo che molti paesi si sono mossi sull’impianto della Legge Fornero.

Sempre nel nostro paese i meccanismi con i quali sono valutati gli incrementi stipendiali non tengono conto della perdita reale del potere di acquisto ma mirano solo a contenere la dinamica salariale.

E per finire sempre nel nostro paese la spesa per la sanità, la pubblica amministrazione è ai minimi termini in linea per altro con la caduta del potere di acquisto registrato negli ultimi 30 anni.

Ci pare evidente che la mancata conflittualità della forza lavoro italiana sia anche il prodotto di regole capestro in materia di diritto di sciopero e rappresentanza sindacale tanto che i Governi di alcuni paesi europei, oggi paralizzati da scioperi e manifestazioni, stanno guardando alle normative italiote in materia di servizi minimi essenziali da garantire anche in caso di sciopero.

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