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Le parole

di Alberto Giovanni Biuso

L’umano è l’animale che comunica. Non è l’unico, naturalmente. La relazione con i conspecifici è una caratteristica di gran parte del mondo animale. Tra gli altri strumenti e modalità, l’umano utilizza le parole. Esse costituiscono gran parte del suo mondo. Anche il mondo che in questo momento mette in comunicazione l’autore di queste parole con il lettore. Le parole sono dunque fondamentali. La politica e la storia sono in gran parte una lotta tra parole per il dominio di alcune di esse sulle altre. In questo dominio infatti non soltanto si esprime ma anche si fonda il potere di un gruppo di umani – tribù, nazione, chiesa, città, classe – su altri gruppi. Nel dominio delle parole si esprime e si fonda l’egemonia politica.

A questo scopo le parole vengono portate in primo piano oppure taciute, vengono imposte oppure nascoste, vengono consacrate oppure proibite. La forma più completa e insieme più insidiosa di questa guerra è l’ovvio. Il dominio viene infatti raggiunto e realizzato quando alcune parole cominciano a non avere alternative, a non poter subire una valutazione critica, a diventare una forma etica della vita, a presentarsi come il Bene in forma fonetica.

Nel nostro presente alcune di queste parole sono inclusione, accoglienza, integrazione, resilienza, green, sostenibilità, universalismo, globalizzazione, progressismo. Chi mai potrebbe opporsi al loro inveramento negli eventi? E soprattutto perché ci si dovrebbe opporre?

Le ragioni sono numerose e serie. Vediamone alcune. Queste parole sono nate da una vittoria nella lotta di classe. La vittoria che la classe proprietaria delle agenzie finanziarie, delle banche, dell’economia cartacea ha ottenuto contro le classi che vivono del loro lavoro. È stato un processo lento ma inesorabile, ben studiato dal sociologo Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza 2012; Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi 2013), un processo che ha reciso i legami dell’arcipelago politico che si autodefinisce «sinistra» con la propria storia e base nel lavoro, trasformando la sinistra europea in uno strumento del liberismo economico e della cultura liberale statunitense. Parte e conseguenza di questa vittoria di classe è stata la fine delle lotte per i diritti sociali, che sono state sostituite da rivendicazioni dei diritti umani. Tra questi anche il diritto all’emigrazione, funzionale alla creazione in Europa, e in generale nei Paesi tradizionalmente capitalisti, di un «esercito industriale di riserva» (Marx) pronto a lavorare per qualsiasi salario e capace di dissolvere in questo modo la forza e i diritti delle classi lavoratrici. Da qui, pertanto, il proliferare di parole come inclusione, accoglienza, integrazione, resilienza e altre della medesima costellazione semantica.

Queste parole sono nate da una vittoria del blocco atlantico e quindi degli Stati Uniti d’America contro l’Unione Sovietica – che cessò di esistere nel 1991 – e dalla prosecuzione della guerra a volte fredda e a volte calda contro tutti gli altri Stati del mondo che non si riconoscono nella forma economica del mercato liberista e in quella culturale ed esistenziale di un individuo senza radici e senza identità.

Questa vittoria nella pluridecennale guerra fredda ha svuotato dall’interno i sistemi democratici dell’Europa, generando una situazione per la quale qualunque formazione vinca le elezioni negli Stati europei, la politica economica, la politica estera, la politica culturale non possono né debbono subire modifiche non dico sostanziali ma semplicemente percepibili. Una prova locale di tutto questo è la politica dello Stato italiano dopo l’affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle prima e di Fratelli d’Italia poi. Quest’ultima è una formazione che si presenta a volte come «sovranista» ma la cui presidente, diventata anche Presidente del Consiglio, ha sempre ribadito il legame personale, del proprio partito e dell’Italia nei confronti degli Stati Uniti d’America. Nel suo libro Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee (Rizzoli, Milano 2021) la presidente Meloni scrive infatti che «Europa e Stati Uniti sono accomunati da un legame indissolubile e insieme devono cercare di vincere le sfide del futuro».

La vittoria politica degli USA è andata di pari passo con il radicarsi ed estendersi dell’alleanza militare atlantica controllata da questa potenza. Daniele Genser, professore di storia all’Università di San Gallo in Svizzera, in Le guerre illegali della NATO (Fazi, Roma 2022) ha così riassunto le forme di tale potere: gli USA dominano la finanza mondiale grazie al primato del dollaro; dislocano e utilizzano più di 700 basi militari in ogni angolo del pianeta; dedicano alla spesa militare una percentuale del PIL che nessun altro Paese al mondo può permettersi; l’utilizzo delle armi così prodotte è affidato a una struttura oligarchica e non eletta da nessun cittadino, il National Security Council; non riconoscono la Corte penale internazionale; controllano interamente e senza condizioni la NATO che non è un’alleanza difensiva tra Stati su un piano paritario ma il braccio armato di un solo Stato e delle sue politiche aggressive e pan-interventiste.

La vittoria politica e militare degli Stati Uniti d’America ha generato, consolidato ed esteso il loro dominio culturale, quello che attualmente si esprime anche in un attivismo fintamente ecologico, rivolto soltanto alla vita e alle risorse del continente europeo e non degli altri luoghi del pianeta, volto dunque a impoverire risorse, autonomia energetica, condizioni quotidiane di vita dei cittadini europei. Da qui, pertanto, il proliferare di parole come green, sostenibilità e altre della medesima costellazione semantica.

Per quanto riguarda l’aspetto più delicato e più insidioso, anche perché dagli effetti meno immediati ma più pervasivi, esso si esprime nel Politically Correct, nei Gender Studies, nella militanza Woke. Si tratta di dispositivi concettuali e politici caratterizzati da rivendicazioni individualistico-narcistische a danno dell’interesse collettivo; di desideri presentati come diritti; di un paradossale (solo apparentemente) ritorno del concetto di razza per il quale un bianco maschio ed eterosessuale è destinato – forse anche biologicamente ma di sicuro eticamente – a essere e rimanere razzista, a meno di aggressive campagne di intimidazione e rieducazione.

Di tali campagne fa parte la militanza Woke, che cancella ogni profondità storica (e anche ogni semplice buon senso) ponendo delle minoranze vittimistiche a capo di tribunali storici e storiografici che condannano tutte le epoche passate in nome di ciò che per costoro è un valore morale assoluto e indiscutibile; condannano tutte le opere filosofiche, letterarie e scientifiche accusate di complicità con il sessismo e con l’omofobia, una condanna che diventa divieto di leggere, studiare e insegnare tali opere e le idee che esse esprimono; condannano la libera ricerca storiografica in nome di una storia ricondotta e ridotta ad ancilla dei dogmi etici contemporanei. Manifestazione bizzarra ma emblematica dell’atteggiamento Woke è quanto ha dichiarato Donna Zuckerberg (sorella di Mark), che studia la civiltà classica e ha definito la cultura greco-romana come la fonte dei fascismi. In realtà è questo atteggiamento genericamente ‘progressista’ a costituire «una forma di razzismo antropologico, tanto aggressivo quando assimilatore, che ammanta l’utilitaristica legge del più forte con una veste ideologica di parvenza morale (i diritti umani, i diritti civili) proiettando sull’altro da sé l’ipostasi del male assoluto» (Eduardo Zarelli, Diorama Letterario n. 372, p. 39). Da qui, pertanto, il proliferare di parole come globalizzazione, universalismo, progressismo e altre della medesima costellazione semantica.

L’analisi critica delle parole, come quella che qui ho tentato, è uno degli elementi fondamentali della filosofia e della libertà.

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