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Il bullismo degli inetti

di Andrea Zhok

Oggi Primo Maggio, vorrei spendere due parole non sul “Lavoro” in qualche accezione astratta (ne ho parlato anche troppo) ma del “lavoro” in una di quelle istanze prosaiche, ricche di dettagli noiosi che però incidono sulle vite delle persone - e che di solito passano sotto silenzio.

Recentemente sono venuto a conoscenza di una vicenda che coinvolge alcune centinaia di docenti precari dell’AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica), vicenda emblematica e non dissimile da molte altre vicende in altri comparti dell’istruzione pubblica.

In breve: per circa vent’anni era stato in funzione un sistema di reclutamento cui si era arrivati per inerzia più che per pianificazione. Per poter ambire ad essere assunti in un Conservatorio bisognava riuscire a totalizzare tre anni di servizio presso un’Istituzione di alta formazione musicale, dopo di che, occasionalmente, ciò consentiva di entrare in un listone nazionale da cui si poteva venir stabilizzati, se una sede ne faceva richiesta. Per riuscire a raggiungere i tre anni di servizio i docenti dovevano concorrere a reiterate graduatorie in tutta Italia, saltabeccando ovunque, lavorando spesso in sedi remote, con gran parte dello stipendio che se ne andava in viaggi e alloggi fuori sede.

Per chi riuscisse a superare questo percorso ad ostacoli, dimostrando resistenza umana oltre alla capacità di piazzarsi bene in più graduatorie, si apriva la, ancorché non scontata, possibilità della stabilizzazione.

Va notato che, come in molti settori d’insegnamento, anche nei Conservatori italiani l’apporto dei lavoratori precari è decisivo. Ad oggi parliamo del 25% del corpo docente con contratti precari.

La mancanza di un’efficiente struttura concorsuale era risentita da molti, ma l’inerzia aveva generato quantomeno regole e aspettative chiare. La politica si era distinta per decenni per la sua latitanza.

D’un tratto nell’ultimo decreto Mille Proroghe, usuale vascello di contrabbando per far passare tutto ciò su cui non si vuole cada l’attenzione, è stato introdotto un nuovo regolamento che aboliva d’un tratto il pregresso e, nel santo nome della meritocrazia, introduceva un nuovo iter concorsuale.

Di primo acchito, a scatola chiusa, alcuni hanno applaudito: finalmente una procedura apposita e dedicata, finalmente concorsi ordinari. Già. Solo che non bisogna mai sottovalutare la perniciosa inettitudine dei burocrati ministeriali – gente spesso entrata in quel ruolo prestigioso non esattamente per le proprie preclare virtù ma che poi spende il resto della carriera producendosi in riformismi dilettantistici (di cui scuola e università portano innumerevoli cicatrici).

Lo scenario tracciato dall’intervento legislativo era semplice.

Da un lato si diceva sostanzialmente a tutti i precari, che avevano fatto salti mortali affidandosi ai regolamenti in vigore, che, pardon, abbiamo scherzato, era il gioco dell’oca e ora tornate al punto di partenza.

Dall’altro lato, viene introdotto un sistema concorsuale che sembra scritto da Totò di ritorno dalla vendita della Fontana di Trevi: su 100 punti totali assegnati al concorso, 70 sono conferiti dalla commissione nella prova finale, e al massimo 12 rappresentano il pregresso degli anni di precariato. Per chi non avesse pratica di concorsi può essere utile sapere che quando in un concorso assegni 70 punti su 100 al giudizio contestuale della commissione stai dichiarando che la decisione potrà essere del tutto arbitraria. (Come se in un concorso universitario si scegliesse un posto di professore assegnando 70 punti su cento alla prova didattica.) In sostanza nel nome della “meritocrazia” si costruisce un meccanismo destinato a favorire esclusivamente chi ha un padrino in commissione.

Sorvolo ora, su altri dettagli tecnici della legge, che dimostra la perfetta inconsapevolezza di cosa vada testato in un futuro insegnante, di come lo si possa fare, ecc. Questa storia è semplicemente come tante altre che abbiamo visto in passato: una piccola storia di abuso, in cui la gente viene presa in giro, si fa un falò delle loro aspettative e del loro impegno, e riempiendosi la bocca di “merito”, ”eccellenza” e di altra fuffa retorica si dà un contributo al degrado della cosa pubblica.

Il carattere esemplare di questa storia è legato a tre fattori, fattori ricorrenti, visti mille volte, che hanno portato il sistema dell’istruzione nazionale nelle condizioni in cui versa oggi.

In primo luogo, il sistema costruisce meccanismi di promozione e selezione che, grondando arbitrarietà, finiscono per disgustare il lavoratore (qui il corpo docente). Regole cambiate in corsa, rottura delle aspettative legittimate in passato, imposizione di meccanismi di scelta nepotistici o accidentali creano disaffezione e cinismo.

In secondo luogo, gli interventi sono particolarmente arroganti e sbrigativi quando ci si occupa di gruppi di non grande numerosità e con scarso potere contrattuale. Far passare una riforma del reclutamento nel Mille Proroghe è qui esemplare dell’arroganza. Rare sono le categorie che hanno ancora un reale potere contrattuale tale da opporsi all’arbitrio fatto cadere dall’alto. Il comparto dell’istruzione ad ogni livello è poi il ventre molle del pubblico impiego, quello dove puoi maramaldeggiare impunemente perché tanto al massimo che succede? Che si astengono dall’insegnare? E figurati il problema, anzi è una gradita spinta a spostarsi nel privato (o a smettere di studiare proprio).

In terzo luogo, le regole vengono confezionate con colpi di mano unilaterali da una genia di burocrati ministeriali cui i parlamentari si affidano. Questi burocrati rimangono al cambiare delle legislature e sono i depositari ultimi di tecnicalità di cui si fanno forza per porsi come indispensabili. Questa genia inamovibile che si trova là per ragioni opache e spesso inconfessabili, non risponde mai a nessuno, e con l’arroganza di chi non rischia mai nulla continua anno dopo anno a produrre normative nate per non funzionare. Questa inettitudine (ammesso non sia dolo) è una delle principali ragioni dell’inefficienza della cosa pubblica in Italia. Per rimettere in piedi questo paese è innanzitutto facendo pulizia in questo ceto che si dovrebbe cominciare.

Disaffezione dei lavoratori pubblici, bullismo delle istituzioni e riformismo inetto sono le radici principali delle disfunzionalità della macchina pubblica. Qualcosa mi dice che non ne sentiremo parlare dai palchi del Primo Maggio.

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