Print Friendly, PDF & Email

losguardo

La rivoluzione in esilio

Recensione di Andrea Prizia

A. Cerutti, G. Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, Quodlibet 2021

La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, a cura di Giulia Dettori e Andrea Cerutti, è un volume collettaneo edito da Quodlibet che raccoglie contributi di studiose e studiosi, spesso giovani, che riflettono sul lascito del pensiero di Mario Tronti. Non è senza motivo che si sottolinea la giovane età di molti autori e autrici, come è anche importante notare l’ambito in cui si muovono, a volte fuori dell’accademia: negli interventi - così come nel pensiero di Tronti — le riflessioni politiche e teoriche sono affrontate e percepite come problemi attuali, rivolte alle questioni del tempo presente, affidate anche ad una forma stilistica lontana dallo stile scientifico - come nel caso di alcuni agenti scismatici del partito immaginario o l’intervento di Andrea Cerutti.

La parola rivoluzione che appare nel titolo è da considerare come il nome del pensiero più radicale cui Tronti ha dedicato i propri scritti e che oggi è del tutto lontano e forse inaccessibile. Uno degli scopi di questo volume è proprio quello di mostrare come oggi tale pensiero radicale che si intendeva rivoluzionario sia costretto a ripensarsi, nel doppio senso di ripensare agli elementi che lo strutturavano e a ripensarsi da capo, a rinnovarsi.

Questa operazione, che è solo una delle molte possibili a partire dal volume, si muove essenzialmente in tre movimenti: la postura politica del soggetto militante; gli strumenti teorici mobilitati da Tronti e i suoi interpreti; la tradizione di pensiero e gli autori di riferimento da recuperare.

Per quanto riguarda il soggetto politico, il militante, ossia chi agisce il pensiero della rivoluzione, cosa si intende per «postura»? A tutti gli effetti, la posizione che esso assume rispetto all’ordinamento nemico, capitalista. Delle suggestioni trontiane riguardanti il «dentro e contro», il «punto di vista», due interventi nel volume spiegano con chiarezza la centralità della questione. Daria Saburova dedica un paragrafo del suo contributo al «principio di parzialità del punto di vista operaio» (pag. 58) che costituisce la «soggettività antagonista» come fulcro della «soggettività operaia»: in effetti, l’antagonismo, il lato negativo del soggetto operaio militante, riguarda non solo il sistema capitalista, ma la stessa classe operaia, come colei che deve paradossalmente rifiutare se stessa in quanto parte dello stesso sistema. A questa vocazione di parte della classe operaia, Andrea Cerutti associa la capacità «di dare corpo allo spirito distruttivo della filosofia nietzscheana» (pag. 17), individuando in Nietzsche un’ispirazione fondamentale del pensiero di Tronti: «pensare la rivoluzione» significa assumere un atteggiamento «anarchico e istituzionale, negatore e organizzato» (pag. 23), entro il quale Tronti è dunque, «come Nietzsche, un pensatore del conflitto» (pag. 28). Tale conflitto, con Soburava, prende forma nella pratica dell’organizzazione e ha una determinazione del tutto politica, tale per cui il soggetto rivoluzionario, nietzscheano e antagonista, si muove non attraverso un percorso economicista di sviluppo del capitale, ma nello spazio autonomo, di lotta e imprevedibile del politico.

Il tema dell’organizzazione, in quanto momento segnatamente politico dell’antagonismo, ci conduce al secondo aspetto che emerge chiaramente nel volume, ossia il dibattito attorno alle nozioni trontiane più pregnanti e, principalmente, il concetto di autonomia del politico, verso il quale convergono in definitiva gli altri (punto di vista, lotta di classe, la teologia politica). L’elaborazione nel 1972 della teoria dell’autonomia del politico è tradizionalmente considerata una svolta - o almeno l’inizio di una nuova fase - del pensiero di Tronti, ma almeno due interventi raccolti nel libro tentano di smentire o mitigare questa interpretazione. Il «tradimento» che Tronti avrebbe compiuto con l’intervento del ’72, è definito «presunto» da Andrew Anastasi e Matteo Mandarini (pag. 117), che considerano l’idea di autonomia del politico «né frattura epistemologica né conseguenza di premesse già viziate» (pag. 134), bensì un’intuizione trontiana presente già nella riflessione su Lenin, esemplarmente nell’interpretazione della NEP come tentativo «di anticipare il movimento del capitale verso il terreno politico» (pag. 129): già dagli scritti precedenti al ’72 - e, da notare, parallelamente ad Althusser - Tronti avrebbe quindi sempre avuto l’intenzione teorica di uno «sviluppo del potere immediatamente politico della classe» (pag. 122). Passando per il più cauto intervento di Michele Filippini, che descrive un percorso più lineare della genesi del concetto (pag. 103), si arriva al saggio del gruppo Epimeteo, in cui si propone una lettura «tendenziosa» (pag. 89) di Operai e capitale a partire dalla questione del politico, rileggendo le varie nozioni trontiane come fossero già in nuce nell’opera più celebre (politico, linea di condotta, kairòs, punto di vista) e passando in rassegna i vari autori di riferimento e di ispirazione per Tronti.

Il saggio di Epimeteo suggerisce così la terza tendenza degli interventi raccolti, ossia il bilancio, in parte ancora da sviluppare, della tradizione di pensiero che Tronti utilizza e mobilita. Oltre ai riferimenti classici della tradizione marxista (Lenin, Gramsci, ovviamente Marx), sono ricorrenti i nomi di Carl Schmitt, Walter Benjamin, Jacob Taubes, Max Weber, Thomas Hobbes. Certo questi nomi non ricorrono solo per un’anagrafe delle fonti, ma in un dialogo che tenta di rimettere in questione le interpretazioni che di esso Tronti ha suggerito negli anni, per confermarle o muovere critiche. In particolare, Marten Bjork e Giulia Dettori puntano l’attenzione su una delle questioni più recenti aperte da Mario Tronti, ossia ala rinnovata attenzione alla teologia politica e alla tradizione conservatrice. L’«indivisibile costellazione» (Dettori, pag. 249) composta da Benjamin, Taubes e Schmitt, consente a Tronti di pensare, ancora una volta, «dentro e contro», anzi fuori, la pesante immanenza della politica contemporanea, in una politica ormai «al tramonto». Nella rivalutazione del ruolo del teologico nel politico si cerca la via di fuga da un sistema che sembra inscalfibile e che ha sconfitto, forse definitivamente, l’idea di rivoluzione. La «tensione apocalittica» di questi autori serve a pensare di «realizzare, qui e ora, le condizioni di una possibile rivoluzione» (pag. 269). Il politico va dunque «riteologizzato» (Bjork, pag. 231) nella misura in cui «l’anima della politica sarà in grado di fronteggiare il corpo della storia» (pag. 247): in altre parole, di fronte a ciò che la storia oggi rappresenta, ovvero nient’altro che il fallimento di un eschaton ormai dissoltosi nella «catastrofe della nostra epoca iperindustrializzata» (Ibidem), è di nuovo lo spazio organizzato a autonomo del politico a individuare una trascendenza, un atteggiamento teologico che «sottometta il ritmo della macchina» (pag. 232) e crei una contraddizione tra politica e storia del capitale. Infine, su un’ulteriore relazione - anch’essa in parte contradditoria - tra politica e vita, scrive Elettra Stimilli in un intervento che vuole far dialogare Max Weber e Tronti in vista del comune tentativo di «definire l’autonomia dei mezzi politici rispetto al processo» di neutralizzazione della politica (pag. 175). A questa intenzione fa da pendant l’idea di una politica come ‘vocazione’ e anzi come vocazione di parte, antagonista. La strategia trontiana di operare la rivoluzione con uso politico della macchina statale si è dimostrata «strategicamente fallimentare», ma la questione centrale rimane invariata: lo strumento politico trova, in Tronti, senso ed efficacia fintanto che è organizzato e direzionato da una postura militante e di parte. Come lo stesso Tronti sostiene nel saggio-intervista che chiude il volume, «il punto di vista è la verità del rapporto sociale» (pag. 331) e, in questa prospettiva, «la lotta per la rivoluzione è il Beruf, la vocazione-professione» (pag. 344.), cui non può esimersi chi entra nello spazio autonomo del politico.

In conclusione, si può sottolineare ancora come il tentativo di pensare la rivoluzione comporti necessariamente tornare a interrogarsi tanto sull’idea di soggettività politica che sui mezzi del politico. Il suggerimento di Tronti verso la necessità di una «rivendicazione della differenza come nuova frontiera per la rivolta del soggetto» (Stimilli, pag. 186) diventa l’indicazione per un punto di rottura di un sistema che non è altro che un «capitalismo che ha integrato tutto il politico» marchiato dal «segno totalitario delle democrazie liberali». (Tronti, pag. 331). La rivoluzione in esilio alla fine del mondo non è forse un pensiero

Pin It

Add comment

Submit