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Mes e nuove regole: l’Europa e il parto del topolino

di Carlo Clericetti

La riforma delle regole è una delusione assoluta. Non è vero che siano più semplici e meno arbitrarie, ricalcano la stessa logica del passato, non danno spazio agli investimenti che la Ue dice di voler fare. L’Europa resta prigioniera di idee sbagliate

Chi avrebbe mai creduto che si sarebbe dovuta apprezzare una posizione del governo più di destra della storia della Repubblica? Eppure è così, tanto che vale la pena di parlarne prima di dare un’occhiata alla riforma delle regole europee. La resistenza del governo alle pressioni interne ed europee a ratificare la pessima riforma del Mes è una delle rare buone notizie di questo periodo che non avremmo voluto vivere.

Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha spiegato in un’intervista al Sole24ore (del 29 aprile) che non è la nostra mancata ratifica della riforma del Mes a bloccare i progressi dell’unione bancaria: “L’unione bancaria si è fermata perché alcuni non vogliono che i bond governativi italiani abbiano lo stesso trattamento delle emissioni degli altri paesi nella valutazione degli asset degli istituti di credito”.

È esattamente quello che si diceva nell’appello che un gruppo di economisti e giuristi ha pubblicato su MicroMega nel dicembre scorso. E bloccare la riforma del Mes è la nostra sola carta da giocare per ottenere qualche modifica alle disastrose decisioni europee. (A parte il fatto che quell’istituto andrebbe abolito, perché lo sfortunato paese che dovesse ricorrervi resterebbe in sua completa balia).

Un inciso da dedicare a coloro che continuano a chiedere che l’Italia acceda al prestito “sanitario” del Mes, quello proposto durante la pandemia. Il più insistente è Matteo Renzi, che voleva addirittura organizzare allo scopo un referendum, miseramente fallito al primo tentativo di raccolta delle firme, ma poi c’è Carlo Calenda, ultimamente il segretario della Cisl Luigi Sbarra e altri che è inutile citare. Ebbene, costoro dovrebbero innanzitutto spiegare perché, mentre emergono le difficoltà di riuscire a spendere i fondi ottenuti con il Next Generation Eu (Ngeu), dovremmo accedere ad un altro debito. Sono scarsi i mezzi per il sistema sanitario (che intanto continua ad essere definanziato)? Ci si mettano i soldi Ngeu, al posto di altre opere forse un po’ meno importanti come erano gli stadi di Firenze e Venezia. Tra l’altro, forse qualcuno ricorda che, in uno dei dibattiti sui residui fiscali di qualche anno fa, la domanda ad effetto lanciata da chi vuole ridurre le risorse destinate alle Regioni del sud era: “Chi paga per lo stadio di Bari”? Una domanda che evidentemente nessuno si è posto quando gli stadi di Firenze e Venezia sono stati inseriti nei progetti Ngeu, chissà come mai.

Ma c’è un altro fatto da considerare. Poche cose trovano l’accordo degli economisti di tutti gli orientamenti, ma una di queste è il fatto che non si finanzia una spesa permanente con un’entrata una tantum. Ebbene, ammettiamo che si prendano i soldi del Mes e si costruiscano tanti begli ospedali, case della salute, residenze per anziani: poi che si fa? Li lasciamo vuoti? Perché se invece ci si mettono medici e infermieri poi bisogna pagarli, e quella è una spesa permanente, che – appunto – non può essere coperta con un prestito. Ci hanno pensato i fan del Mes? Se no, sono degli sprovveduti; se sì, sono in malafede. E dunque, le risorse per gli investimenti necessari al sistema sanitario possono sicuramente essere trovate nei 191 miliardi di fondi europei al posto di altri progetti che – come gli stadi – sono di certo meno importanti, ma il vero problema è il personale che manca e la spesa corrente necessaria a remunerarlo, problemi che il Mes non risolverebbe.

E veniamo alla famosa riforma delle regole europee. Vari economisti, anche molto critici di quelle che erano in vigore, considerano il progetto presentato dalla Commissione un importante miglioramento rispetto al passato. Ma si potrebbe dire che se le regole precedenti potevano essere paragonate a un’auto senza ruote e con il motore grippato, con queste si sono aggiunte le ruote: è certo un miglioramento, ma il guasto fondamentale resta. È singolare che giudizi durissimi vengano invece da economisti non certo noti per il loro estremismo. Per esempio Pier Luigi Ciocca, già vice direttore generale di Bankitalia, secondo cui “non v’è riforma. La proposta ribadisce le vecchie regole. Ha reso solo meno stringente il criterio del contenimento del debito”. E criticando aspramente la mancata distinzione tra spesa corrente e spesa per investimenti, arriva addirittura ad invitare l’Italia a porre il veto alla riforma (su Il Manifesto, 30 aprile).

Commenta su Twitter il giurista Marco Dani: “Perfetto oggi Ciocca sulla proposta di nuove regole fiscali. Il veto si potrebbe porre sulla parte del cosiddetto “braccio correttivo”, mentre sul “braccio preventivo” ci sarebbero anche due alternative: 1) minoranza di blocco nel Consiglio europeo; 2) veto del Parlamento europeo (o emendamento che introduca la golden rule)”. Per la minoranza di blocco in Consiglio sono necessari almeno quattro membri che rappresentino più del 35% della popolazione europea.

Altrettanto duro Mario Baldassarri, economista e già vice ministro dell’economia nel governo Berlusconi del 2005, che, intervistato da Il sussidiario.net, afferma: “Stiamo chiamando riforma del Patto di stabilità un’ipocrisia totale. Se si tratta di confermare i vecchi parametri di Maastricht e dare solo un po’ più di flessibilità nell’aggiustamento dei bilanci dei singoli Stati, vuol dire che non si è capito nulla”. Di fronte a giganti come Usa e Cina, osserva Baldassarri, l’Europa dovrebbe avere un bilancio federale adeguato (oggi è appena l’1,5% del Pil) per gestire cinque “beni comuni”: difesa e sicurezza, immigrazione, politica estera, politica energetica, politica industriale.

Neanche l’ex capo economista del Fondo monetario Olivier Blanchard sembra apprezzare la riforma e scrive su Twitter: “Se la lotta al riscaldamento globale richiede un finanziamento a debito, che fare? Insistere sulla riduzione del debito e fallire, oppure permettere un aumento del debito, a patto che rimanga sostenibile, e avere successo? Una bella vignetta raffigura un vecchio che parla a un ragazzo e gli dice: guarda, la cattiva notizia è che la Terra non è più abitabile, ma la buona notizia è che il debito è sotto il 60%”.

Insomma, la logica non è cambiata e non poteva cambiare, visto che i politici e i tecnocrati a cui tanto piacevano le vecchie regole hanno mostrato di non aver cambiato idea. Quello che cambia è che si dà più potere alla Commissione, con la quale ogni Stato dovrà concordare il suo percorso di rientro dal debito pubblico, che è ancora considerato il pericolo più grande per la stabilità. Il vicepresidente responsabile per l’economia (il “capo” del Commissario Gentiloni, per intenderci) è sempre il lettone Valdis Dombrovskis, che è lì dal 2014. È stato uno dei carnefici della Grecia e anima dannata dell’ex ministro tedesco Wolfgang Schäuble. E tra gli artefici tecnici della riforma c’è l’economista Marco Buti, capo della segreteria tecnica di Gentiloni, anche lui nella Commissione da un secolo. Uno che ha avuto il coraggio di scrivere in difesa del Pil potenziale e fanta-tecniche relative mentre quel metodo veniva ridicolizzato da economisti di mezzo mondo.

Pretendono di dire che adesso le regole sono più semplici, perché si guarda solo alla spesa: semplicemente non è vero. Un aspetto cruciale, per esempio, è l’analisi della sostenibilità del debito, che se desse risultati negativi comporterebbe l’obbligo di aggiustamenti (ovvero ancora “austerità”, naturalmente). Una critica pesante viene da una fonte insospettabile, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, che in un suo documento scrive: “Non è uno strumento appropriato specialmente per la forte sensibilità ai cambiamenti delle assunzioni sottostanti e la sua complessità”. Lindner, naturalmente, si preoccupa che la Commissione sia troppo “morbida”, ma ciò che conta è che mette in evidenza due caratteristiche essenziali: la complessità, appunto, e la dipendenza dei risultati dalle variabili che si decide di inserirvi, che comportano un certo grado di arbitrarietà e che soprattutto sono aleatorie, come tutte le proiezioni economiche, specie a lungo termine.

La procedura di valutazione della sostenibilità del debito viene definita cruciale anche da Philipp Heimberger (del Vienna Institute for International Economic Studies), incaricato dal Parlamento europeo di analizzare la proposta della Commissione (Debt sustainability analysis as an anchor in EU fiscal rules),

perché sarà la base della trattativa tra la Commissione e gli Stati sull’elaborazione del programma pluriennale. Anche Heimberger sottolinea che i risultati dipendono dalle variabili che si decide di utilizzare e che la procedura implica anche giudizi politici, e sottolinea il rischio di un deficit democratico e – come Ciocca – il fatto che con queste regole non ci sarà spazio fiscale sufficiente per gli investimenti necessari alle transizioni energetica ed ecologica.

Insomma, come nella favola di Fedro, la montagna ha partorito un topolino, e per giunta un topolino con tare genetiche fatali. L’Europa potrà forse sopravvivere, ma non certo prosperare.

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