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contropiano2

Una banca fallita al giorno toglie il sistema di torno?

di Claudio Conti

Il presidente della banca centrale Usa – Jerome Powell, alla guida della Federal Reserve – aveva pensato bene di iniziare la conferenza stampa con cui spiegava le ragioni di un nuovo aumento dei tassi di interesse con una rassicurazione ai “mercati”: «Il sistema bancario è solido e resiliente».

Doveva farlo, visto che poche ore prima aveva diretto dietro le quinte l’operazione di salvataggio di First Republic Bank, “consegnandola” a JPMorgan tramite la Fdic (ente pubblico di garanzia dei depositi).

Neanche il tempo di pronunciare quella rassicurazione ed ecco un’altra banca sprofondare, per il momento in borsa.

Pacific West Bank, con sede a Beverly Hills, sta prendendo in considerazione uno spezzatino o un aumento di capitale, scrive Bloomberg. Ma non esclude neanche di poter finire in mano a qualche compratore.

Tanto è bastato per farle perdere – mercoledì – il 50% del valore azionario, dopo aver già perso il 28% il giorno prima.

È un’altra banca “regionale” che entra in crisi, ma il termine non deve ingannare: la California è di fatto la settima potenza economica del pianeta, quindi si tratta di una “regione” piuttosto notevole… Se poi teniamo conto che erano californiane anche Silvergate, Signature e Silicon Valley Bank si ha la sensazione che il sistema bancario di questa parte del mondo sia tutt’altro che “solido e resiliente”.

Come sempre, all’esplodere di una crisi finanziaria, i difensori del sistema partono alla caccia dei “colpevoli”, visto che nella teoria liberale “il mercato è in equilibrio” fin quando “qualcuno” non commette errori fatali.

E come sempre arrivano gli ideologi che parlano di “azzardo morale” – un presunto “eccesso” di bramosia per il profitto – per salvare capra a cavoli.

In questo caso, però, sembra decisamente fuori luogo anche questa “spiegazione”.

È abbastanza evidente, anche nei fallimenti che hanno preceduto la crisi di Pac West, che uno dei meccanismi scatenanti va rintracciato nel veloce e pesante aumento dei tassi di interesse deciso dalla stessa Fed. Ossia nel funzionamento tipico del capitalismo neoliberista per cui, ad un aumento dell’inflazione, qualsiasi sia la ragione dell’aumento dei prezzi, si risponde con l’incremento dei tassi di interesse per “raffreddare” la domanda (e indurre così un calo dei prezzi).

Solo che questa politica monetaria “da manuale” ha sempre effetti collaterali imprevisti. Uno dei quali deriva proprio dalla politica monetaria precedente (ed opposta: quantitative easing e tassi di interesse a zero) seguita dalla Fed (e dalla Bce) per impedire il crollo dei mercati finanziari a seguito della crisi del 2008 (subprime e Lehmann Brothers).

Quella politica monetaria aveva, tra le altre cose, favorito l’acquisto preferenziale di titoli di stato e obbligazioni in genere, portando su le quotazioni di questi titoli. Le banche Usa ne avevano e ne hanno grandi quantitativi in portafoglio, proprio perché considerati sicuri e poco rischiosi (chi mai scommetterebbe sul fallimento finanziario degli Stati Uniti?).

Ma dopo un anno di drastici aumenti dei tassi quei titoli si sono fortemente svalutati, il che comporta perdite teoriche. Questo non è un problema, in genere, perché se si tiene il titolo fino alla scadenza contrattuale ci si vede restituito il prezzo intero (100 dollari o euro, a seconda dell’emittente).

Ma se per qualche motivo si è costretti a vendere velocemente forti quantitativi di queste obbligazioni – per ripagare debiti o restituire i depositi ai clienti – allora le perdite teoriche di valore dei titoli diventano perdite effettive, da contabilizzare come tali. Ed è quello che sta succedendo a tutte le banche Usa.

La stima di queste perdite, per l’intero sistema bancario, è arrivata secondo Bloomberg all’astronomica cifra di 1,84 trilioni di dollari. Ossia 1,84 miliardi di miliardi…

E naturalmente una forte crisi bancaria porta con sé, immediatamente, problemi giganteschi nel mercato immobiliare, che vive di prestiti per investimenti e mutui per l’acquisto.

Altrettanto ovviamente sono le banche piccole e medie a soffrire di più, perché hanno meno margine per superare i momenti di difficoltà. Mentre I giganti, come JPMorgan o Goldman Sachs possono procedere ad acquisire “I piccoli” a prezzi scontati. Almeno fino a quando non solo a loro volta costretti in un angolo (come avvenne per Lehmann Brothers, che pure era la quarta banca d’affari del mondo).

E giustamente gli specialisti del settore, come Tim Waterer, chief market analyst di KCM Trade, dicono: «Nonostante i migliori sforzi di Jerome Powell per calmare il mercato, non c’è nulla che suggerisca che la crisi che attraversa il settore bancario sia finita».

E se lo dicono loro…

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