Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Memento sulla Costituzione

di Umberto Vincenti

Credo sia un fatto – sebbene non dimostrabile, almeno allo stato – che la nostra Costituzione non sia percepita nel Paese quale oggettivamente è, per quanto la si evochi costantemente nel discorso politico e giuridico.

Nel discorso politico troppo spesso ci si appella ad essa per troncare una discussione: se quel che vado sostenendo è conforme alla Costituzione, è come se avessi calato sul tavolo l’asso di briscola. Un atteggiamento religioso sembra contraddistinguere il comune approccio al testo licenziato dalla Costituente alla fine del 1947: una sorta di Vangelo della Repubblica, indiscusso e indiscutibile al punto che pochi (anche tra i politici) l’hanno letta o letta per intero e ancor meno l’hanno compresa. Piace perché talune disposizioni sembrano dirci quel che molti desiderano: “sorridente e ottimista” l’aveva definita Arturo Carlo Jemolo. Ma questo basta per darne una valutazione più che positiva e, il più delle volte, di eccellenza? La funzione di una costituzione è forse consolatoria?

Nel discorso giuridico la Costituzione è analogamente usata quale premessa o argomento per fondare una conclusione. Raramente viene esaminata criticamente, specie dai costituzionalisti. Nelle aule universitarie più che altro la si descrive: un documento da conoscere, della cui esistenza si deve prendere atto senza pretendere di ricercarne la ragione, le ragioni, l’idoneità.

Allora convengo con Giovanni Maria Flick quando avverte che la nostra Costituzione dovrebbe essere più letta di quel che è, specie da quei politici che ne esigono la riforma più o meno ampia. Ed egli è nel giusto anche quando afferma che dovrebbe essere attuata integralmente perché è vero che alcune sue disposizioni sono state dimenticate. Ma, penso, che dovremmo anche – e, forse, prima di tutto – vedere se la Costituzione del ‘48 sia stata ben redatta; o, se si preferisca, se la sua redazione sia stata imperfetta, almeno parzialmente.

Qui si apre una linea di ricerca piuttosto ampia e impegnativa, da una pluralità di punti di vista. Anche storicamente. Occorrerebbe verificare se le forze politiche rappresentate nell’Assemblea costituente abbiano egualmente profuso le loro energie, se tutte abbiano egualmente avvertito la rilevanza di quel che si stava facendo: perché, si intuisce, se alcune fossero state più attive o particolarmente attive, la conseguenza è che il testo sarebbe risultato inevitabilmente orientato più dagli uni che dagli altri (e non sembra corretto chiudere affermando che poi anche questi altri avrebbero approvato il testo definitivo). Fosse vero, si capirebbe perché, in linea di massima, le riforme siano state proposte – ivi comprese quelle di cui si discuterà presto – soprattutto da una parte e osteggiate dall’altra.

Ricerca inutile, qualcuno dirà. Ma non è così: capire meglio non è un male e, soprattutto, avremmo la conferma che qualsiasi riforma significativa deve esprimere l’accordo di un’ampia maggioranza. Un viatico che chi ora propone di riformare dovrebbe saggiamente percorrere proprio traendo lezione da quel che è accaduto nel passato.

Rimanendo nella prospettiva storica – è da questa che accorerebbe sempre prendere le mosse quando si costruisce o si ricostruisce o si restaura un assetto politico-costituzionale – vi è un’altra questione da affrontare: annosa, divisiva, sensibile. Da dove nasce la nostra Costituzione? Qual è il suo fondamento?

Abbiamo sentito anche in queste settimane che la Costituzione è espressione della Resistenza. Ma è proprio così? O meglio, è solo così? La storia ci conferma che la Resistenza ha contribuito a liberare il Paese dagli invasori e dal fascismo. Ma il fatto costituente – un fatto di tutta la collettività degli Italiani – è stato il referendum istituzionale del 2 giugno 1946: se avesse vinto la monarchia, non avremmo avuto né la Costituzione né la Repubblica. Questo fatto, ripeto, non inficia minimamente la vicenda resistenziale, da onorare e custodire. Ma al referendum fu chiamato tutto il popolo – anche le donne, per la prima volta – e il popolo, con la sua volontà politica, ha creato la Repubblica e, nella stessa occasione, ha eletto i membri dell’Assemblea costituente che avrebbe dovuto consegnare – come fece – agli Italiani una costituzione repubblicana.

Sequenza perfettamente congrua, ammirevole, e fondante. E confermata proprio dall’art. 1 della Costituzione: la diade repubblica-popolo è in testa ai “Principi fondamentali”. E l’art. 5 ci avverte che la Repubblica è “una e indivisibile”. Non solo: nell’ultimo articolo (il 139) è alla Repubblica che si pensa, è la Repubblica che si impone come intangibile, la Repubblica optata il 2 giugno 1946. Il fatto costituente, oggettivamente idoneo ad includere tutti, si è consumato quel giorno e non si può abrogare o riformare il passato, salvo che si instauri un altro fatto costituente, pacificamente o meno: ergo, “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

Ora se il fatto costituente fu il referendum del 2 giugno, l’opzione repubblicana non è neutra; è, a sua volta, un fatto istituzionale che ha una sua precisa identità, postulante l’attivismo dei cittadini non solo, come taluno potrebbe anche pensare, nelle associazioni di volontariato, ma principalmente, comunque primariamente, nelle attività di formazione della politica nazionale. Ancora l’art. 1: “la sovranità appartiene al popolo”, espressione pregnante, dietro la quale sta un modello di stato e di governo che esige, se davvero si voglia una repubblica, certe presenze.

Se poi il seguito di quella disposizione avverte che il popolo sovrano non può far tutto quel che voglia, che la sovranità popolare deve essere esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, si deve riconoscere (e lo dovrebbero fare anche coloro che invocano riforme per restituire il potere al popolo) che il contenimento derivantene non contraddice, né nega la sovranità popolare. Tuttavia il modello repubblicano non è inverato solo chiamando il popolo a votare i propri rappresentanti in Parlamento a certe scadenze: da noi ogni quinquennio (un arco temporale forse da ridurre a un quadriennio). Occorre di più, almeno qualcosa di più: Rousseau non aveva torto quando avvertiva che, se l’attivismo popolare si fosse limitato al voto dei rappresentanti, questi avrebbero preso il sopravvento e avrebbero curato i loro interessi di gruppo.

Ecco la discussione, anzi la disputa, sul presidenzialismo o il semipresidenzialismo o (ultima alternativa) il premierato. C’è da domandarsi se l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio dei Ministri sarebbero improprie nel nostro sistema politico-costituzionale. No, perché siamo una repubblica e chi governa deve farlo avendo il consensus populi. Però non è tassativo che questo consenso sia emanazione diretta del popolo: esattamente come prevede la Costituzione.

Attenzione però: c’è un limite ai limiti. E la Costituzione del ‘48 ne ha posto ulteriori. Per esempio, in tema di referendum popolare: l’art. 75 consente solo il referendum abrogativo e (ulteriore limite) lo esclude per le leggi più importanti. Altro esempio: dei quindici giudici costituzionali, cinque sono espressione delle “supreme magistrature ordinaria e amministrativa” (art. 135). Analoga disposizione si trova a proposito della composizione del Consiglio superiore della magistratura (art. 104).

Artt. 135 e 104: istituzioni di vertice nella Repubblica. Ma una parte dei loro componenti (un terzo) sono del tutto sganciati dalla volontà popolare. Si racconterà che queste sono istituzioni di garanzia o tecniche. Può essere. Ma l’escluso è ancora il popolo.

Potrei portare qualche altro esempio (come le liste bloccate …); ma mi fermo qui. Allora ci si deve domandare se, per caso, i limiti di cui all’art. 1 non siano poi eccessivi, essendo certamente l’Italia una repubblica. E ci si deve pure domandare se, da questa normazione costituzionale di freno della sovranità popolare, siano derivate delle conseguenze a livello istituzionale: per esempio, se ciò abbia favorito il crearsi di oligarchie, oggi sganciate, per giunta, dalla disciplina dei partiti (e di partito), i quali non sono più quelli di un tempo (prima, cioè, di “Mani Pulite”).

Qualcuno potrebbe rispondere che va bene così: il popolo è ontologicamente pericoloso perché passionale. Meglio allora consegnarsi alla saggezza, alla moderazione, alla cultura di deputati e senatori. Ma siamo proprio sicuri che costoro sia tali? Che costoro siano più affidabili di noi cittadini?

Martedì 9 maggio il Presidente del Consiglio incontrerà alla Camera dei deputati i rappresentanti delle forze politiche. Argomento: le riforme della Costituzione. L’esigenza di cambiare è oggettiva. Ma ho qualche dubbio che i rappresentanti siano consapevoli di quel che occorrerebbe fare. La previsione più probabile è che, alla fine, non si farà assolutamente nulla. Se così sarà, prendiamo noi atto che siamo una repubblica imperfetta. E che, alla fine, a queste forze politiche va bene così.

Se fossimo una repubblica perfetta, vi sarebbe un’alternanza effettiva degli uomini e delle donne al potere. Ma la Costituzione del ‘48 si è astenuta dall’introdurre qualunque antidoto al desiderio, da noi fortissimo, di non lasciare mai il potere ai vari livelli. Nemmeno per il Presidente della Repubblica: settennati rinnovabili senza limite; ed effettivamente rinnovati agli ultimi due presidenti. In certo senso, la Repubblica è stata tradita dalla stessa Carta costituzionale. Siamone consapevoli, per favore.

Add comment

Submit