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volerelaluna

Austerità, neoliberismo, autoritarismo

di Michele Sferlinga

Il recente volume di Clara E. Mattei Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo (Einaudi, 2022) ha il pregio di mettere in luce lo stringente, e per certi versi vitale, rapporto tra politiche economiche liberali e sistemi politici autoritari.

A partire dalle vicende politiche temporalmente a noi più vicine, sempre più studiose e studiosi hanno cominciato a interrogarsi su questa complessa relazione. Il modello leaderistico Bolsonaro rappresenta, in questo senso, un esempio emblematico di perfetto connubio tra un esercizio autoritario del potere che assume le sembianze della necropolitica, e un neoliberismo sfrenato «che produce strutturalmente diseguaglianza» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/01/16/democrazia-autoritarismo-neoliberismo-bolsonaro-e-non-solo/). In questa forma magmatica di fascioliberismo, contraddistinta da una progressiva verticalizzazione del potere, il demos «esiste come massa astratta da guidare, priva di conformazioni di classe, conflitti, divisioni, e contraddizioni, la cui partecipazione si limita ad esternazioni plebiscitarie».

Collocandosi all’interno di questi studi, il volume di Mattei – pubblicato contemporaneamente in italiano e in inglese – prende avvio da una ricerca di lunga durata condotta dall’autrice tra Italia e Gran Bretagna, con l’obiettivo di ricostruire in chiave storica ed economica il fenomeno dell’austerità, mettendolo in relazione alla nascita dei regimi autoritari.

Il punto di partenza di Mattei appare fin da subito stimolante. Secondo l’autrice, l’austerità non rappresenta un fenomeno relativamente recente, «un prodotto della cosiddetta “era neoliberista”», bensì incarna nella sua essenza «una costante del capitalismo moderno in ricorrente crisi» in grado di garantirgli la sopravvivenza durante le fasi di messa in discussione del paradigma dominante. Detto in altri termini, è possibile identificare nell’austerità «un baluardo vitale per la difesa del sistema capitalistico» (ivi, p. 5). Storicamente, questo meccanismo si presenterebbe in maniera evidente in seguito allo scoppio del primo conflitto mondiale. Per far fronte alle ingenti richieste economiche e militari necessarie per continuare ad alimentare la guerra, gli Stati europei decisero di intervenire in maniera massiccia nelle rispettive economie nazionali, talvolta attraverso la gestione diretta di imprese, talaltra mediante la confisca coatta dei mezzi di produzione privati, soprattutto per quanto concerneva le industrie del settore bellico. In parallelo, anche il mercato del lavoro fu soggetto a un controllo diretto da parte dello Stato, grazie a forme di «militarizzazione della forza lavoro», a cui sommare una riduzione drastica dei salari e un incremento sostanziale del numero di lavoratori, che andò di pari passo con un progressivo grado di sfruttamento ed estrazione di plusvalore. Per la prima volta nella storia, durante il conflitto mondiale vennero minacciati e messi in discussione i due pilastri fondamentali di ogni economia capitalista: la proprietà privata dei mezzi di produzione e i rapporti salariali con cui viene accumulata ricchezza (ivi, p. 25). Tutte queste misure ebbero come effetto primario non solo quello di mettere in luce le storture e le inefficienze del sistema di produzione capitalista, ma soprattutto furono in grado di sottolineare lo strettissimo e imprescindibile legame tra la dimensione economica e quella politica. Un rapporto in cui le due sfere si influenzano reciprocamente, rifiutando ogni forma di determinismo e naturalizzazione del potere economico.

Una volta finita la guerra, gli effetti più devastanti in termini economici e sociali ricaddero sulle classi popolari, le stesse che da sempre manifestarono assoluto dissenso per la scesa in campo dello Stato italiano nel conflitto mondiale. Non sorprende allora che nel primo dopoguerra «furono soprattutto le classi lavoratrici a sfidare le colonne portanti del capitalismo» (ivi, p. 50). Dietro la spinta rivoluzionaria di un gruppo di intellettuali e militanti attivi intorno al settimanale Ordine Nuovo, nel biennio 1919-1920 i movimenti operai agirono attivamente per il rovesciamento del sistema capitalista. Sulla scia della Rivoluzione Russa di qualche anno prima, l’esperienza dei Consigli di fabbrica fu fondamentale per provare a immaginare e organizzare un modello di società alternativo, che si opponesse in maniera radicale alla «naturalizzazione dell’ordine capitalistico» e alla divisione arbitraria tra sfera economica e politica. Al contrario, la grande stagione dell’occupazione delle fabbriche del 1920, che vide in Torino uno dei luoghi simbolo del potere operaio, pose al centro del cambiamento la figura del lavoratore, promuovendo un modello di produzione basato sull’autogestione delle fabbriche.

Secondo Mattei – e questo rappresenta una delle tesi centrali del volume – la minaccia rivoluzionaria «alimentò le più oscure paure del mondo politico e cementò il blocco antisocialista tra liberali, nazionalisti e conservatori», parte dei quali confluirono pochi anni dopo «nella controffensiva armata del fascismo» (ivi, p. 124). Tale movimento implementò fin da subito un solido «programma di austerità» sul piano industriale, fiscale e monetario, grazie al contributo teorico apportato da un gruppo di celebri economisti, esponenti del paradigma dell’economia pura. Tra questi – chiarisce Mattei – figurano Alberto de’ Stefani e Maffeo Pantaleoni, esponenti di primo piano del fascismo, ma anche Umberto Ricci e Luigi Einaudi, due economisti di formazione liberale, mossi dall’obiettivo comune di «impiegare l’austerità per proteggere l’economia di mercato da un collasso imminente» (ivi, p. 208).

Sotto lo slogan «lavorare di più, consumare di meno», le politiche economiche di austerità adottate dal fascismo agirono su un doppio livello. In primo luogo, occorreva lavorare attivamente sul piano del «consenso» popolare, presentando le scelte economiche adottate dal regime come conseguenze inevitabili del funzionamento del sistema produttivo. La scienza economica fu nuovamente posta al di sopra delle altre discipline, definita un sapere oggettivo, naturale e soprattutto neutrale, slegato da ogni possibile legame con la prospettiva storico-politica entro cui inquadrare le nozioni chiave di proprietà privata e rapporti di classe. Da questo punto di vista, la figura del tecnocrate, dell’esperto in economia che agisce in maniera disinteressata per il benessere collettivo, fu centrale al fine di garantire il consenso delle classi popolari. In secondo luogo, la controffensiva fascista fu segnata da un sostanziale ricorso alla «coercizione» come strumento per assicurare la sopravvivenza del capitalismo. Di fronte a una situazione economica profondamente instabile e alla minaccia rivoluzionaria socialista, gli economisti liberali e fascisti auspicavano l’adozione di un governo tecnocratico e autoritario, in grado di combinare l’austerità sul piano economico a una forte politica di repressione violenta delle classi popolari. In questo senso, sottolinea Mattei, «appare evidente come gli economisti dell’austerità non fossero infatuati della figura carismatica di Mussolini in sé, ma che lo vedessero piuttosto come l’uomo giusto al momento giusto per poter mettere in atto i principi dell’economia pura» (ivi, p. 220). In altri termini, la risposta dei tecnici liberali e fascisti di fronte alla crisi economica, politica e sociale che attraversava l’Italia fu essenzialmente quella di promuovere un vero e proprio progetto di rieducazione della cittadinanza (strategia del consenso), da combinare con l’istituzione di un regime politico autocratico (strategia della coercizione).

Senza mettere in secondo piano il contesto storico entro cui prende forma la riflessione di Clara E. Mattei, quali considerazioni possiamo trarre sul nostro presente? Esiste oggi un legame concreto, tangibile e misurabile tra neoliberismo e autoritarismo? Come puntualmente sottolineato dall’autrice, lo strumento dell’austerità non sembra avere come effetto primario il consolidamento del primato della crescita economica. Semmai, le politiche economiche liberali fondate sull’equilibrio di bilancio, il taglio della spesa pubblica e la privatizzazione dei servizi sociali agiscono per rafforzare il principio dell’accumulazione capitalistica e delle relazioni salariali a danno dei lavoratori. Presentando la scienza economica come una sfera dell’agire sociale profondamente slegata da ogni valore politico, l’austerità prospera insieme alle tecnocrazie. A partire dagli Ottanta, il paradigma neoliberale ha posto le basi per il lungo processo di depoliticizzazione in corso, in cui il discorso pubblico e decisionale appare svuotato di ogni carattere valoriale e conflittuale. Così facendo, di fronte a una situazione economica instabile, i sistemi politici democratici appaiono inefficienti, così che diviene necessario per la salvaguardia dell’intero sistema socio-economico trasferire il potere decisionale in capo a organi istituzionali indipendenti. In altre parole, laddove il neoliberismo viene presentato come «la legge naturale dell’economia e della società», fino ad arrivare al punto in cui non vi è spazio per visioni del mondo alternative, «la democrazia e la politica sono inutili; basta selezionare i “migliori” e far amministrare loro il sistema così com’è» (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/12/19/vietato-parlare-di-neoliberismo/). Rifacendoci alla lezione di Mark Fisher, combattere il realismo capitalista significa anzitutto riappropriarsi della categoria del «nuovo», sforzandosi di immaginare modelli di socialità differenti, attraverso la de-costruzione critica di un presente accecante «che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione» (Mark Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 50).

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