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Arabia Saudita: transizione ecologica o fuga dall’Occidente?

di Daniele Pagini

La recente decisione dell’OPEC allargato di diminuire la produzione di barili di greggio era indispensabile all’Arabia Saudita, in vista di un mutamento radicale della sua struttura sociale ed economica, un mutamento imposto dalla “transizione ecologica” che primeggia fra le priorità dell’agenda internazionale.

Nel mondo è in atto una profonda trasformazione politica, economica e sociale, ad opera di grandi gruppi e compagnie, fiore all’occhiello del sistema neo-liberista, in grado di muovere capitali più grandi del PIL di uno Stato. Volenti o nolenti, tutti gli Stati devono adeguarsi a questo diktat, con buona pace dei loro sistemi pseudo-democratici.

In uno scenario in cui le fonti tradizionali di energia come metano, petrolio e carbone sono destinati a scomparire, anche la prima compagnia mondiale per fatturato e valore, Aramco, di cui lo stato saudita è il principale azionista, deve cedere il passo e trasformarsi.

Sono stati fatti diversi passi per raggiungere questo obbiettivo. Già nell’ottobre del 2022, Riyadh ha lanciato un Fondo nazionale per le infrastrutture, per sostenere progetti del valore di circa 53 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni; un progetto a cui BlackRock aderisce aprendo un ufficio a Riyadh dal 2019.

Di nuovo a Dubai, il 14 novembre 2022, il fondo sovrano dell’Arabia Saudita e BlackRock (BLK.N) hanno firmato un accordo per esplorare congiuntamente progetti infrastrutturali in Medio Oriente, incentrati sull’Arabia Saudita1. Il Public Investment Fund (PIF), che gestisce oltre 600 miliardi di dollari di asset, ha affermato che il loro memorandum d’intesa non vincolante servirà da punto di riferimento per la strategia infrastrutturale in Medio Oriente, il più grande gestore di fondi del mondo prevede di creare un team dedicato agli investimenti in infrastrutture a Riyadh che si dedicherà a settori strategici quali: energia, servizi pubblici, trasporti e telecomunicazioni.

 

Progetti avveniristici

Sullo sfondo, un progetto di trasformazione ambizioso, quasi fantascientifico: il grandioso Vision 2030: un progetto che mira a ridurre la dipendenza dall’industria petrolifera, creare nuovi settori e stimolare la creazione di posti di lavoro. Per sostenere questa iniziativa, Blackrock collocherà un gruppo indipendente dedicato agli investimenti in infrastrutture nella capitale saudita.

Il tutto grazie al sostegno del principe ereditario Mohammed bin Salman, fondamentale per un progetto che mira ad aumentare il patrimonio gestito del fondo sovrano, dagli oltre 600 miliardi di dollari attuali, a oltre 1 trilione entro il 2025.

Ma queste non sono le uniche mosse che legano il gruppo Blackrock a Riyadh: nel 2019 Blackrock ha acquisito una partecipazione nelle attività del gasdotto di ADNOC Energy, che ha sede ad Abu Dhabi; nel 2022 ha guidato una coalizione che ha anche acquistato una partecipazione del valore di $15,5 miliardi in Saudi Aramco.

Il Fondo di investimento pubblico dimostra che i legami finanziari fra i due protagonisti sono forti, e si prevede che la partnership BlackRock-Arabia non si fermerà qui.

All’orizzonte c’è anche una delle iniziative più ambiziose e visionarie di Riyadh: una città sostenibile e futuristica chiamata The Line, basata sull’intelligenza artificiale, che ospiterà i giochi invernali asiatici del 2029.

Secondo i suoi ideatori, «a differenza delle città tradizionali, darà priorità alla salute e al benessere delle persone rispetto ai trasporti e alle infrastrutture», funzionerà al 100% con energia rinnovabile e avrà il 95% del suo spazio riservato alla natura.

«The Line fa parte di un più ampio progetto – spiega il rapporto Openoil – chiamato Neom, una visione futuristica di un nuovo modello di vita, lavoro e sostenibilità. All’interno di questa ambiziosa idea troviamo (…) strutture, che saranno costruite nel prossimo futuro».

 

Debiti e Petrolio

Tutto bello, un progetto appetibile, ai limiti del possibile e in quanto tale costoso, e questo pesa sui bilanci e le politiche economiche dei Sauditi, come vediamo dai grafici qui accanto.

In pratica il governo si sta indebitando e, per poter sostenere gli interessi sul debito pubblico, ha bisogno che il prezzo al barile del petrolio non si abbassi ulteriormente, cosa invece invocata dagli USA con la loro richiesta di un aumento della produzione in un contesto di crisi economica globale, secondo il citato rapporto Openoil:

«Lo scenario di base dell’ultimo rapporto del FMI prevede che l’Arabia Saudita continuerà a registrare deficit fiscali per un totale di oltre 300 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Ma, se i prezzi del petrolio al barile fossero più bassi, il divario fiscale potrebbe ampliarsi ulteriormente. Il governo ha dichiarato un dividendo di 75 miliardi di dollari per il primo anno di Aramco come società parzialmente privatizzata. Sostenere un dividendo prorata di questo tipo, per la partecipazione privata dell’1,5%, costerebbe in totale un miliardo di dollari all’anno. Ma non sarebbe probabilmente sostenibile, su qualsiasi scala più ampia, se i prezzi del petrolio rimanessero bassi nei prossimi anni!»

Questo ha obbligato Riyadh, che ha un ruolo chiave nell’OPEC allargato a sostenere, assieme alla Russia e agli altri membri, una politica di riduzione della produzione petrolifera, che, contrariamente a quanto voluto dagli Stati Uniti e dal blocco occidentale, porterà a un aumento dei prezzi e ad inevitabili frizioni con lo storico alleato.

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Ma, come accennato nel precedente articolo, non è tutto: mentre in occidente l’offerta di petrolio diminuirà, l’Arabia Saudita, nel tentativo di reperire i fondi necessari ai suoi faraonici progetti, sta stringendo forti legami commerciali con la Cina alla quale, anche per contrastare la forte concorrenza della Russia, si impegna non solo a non diminuire, ma addirittura ad aumentare le forniture future di petrolio:

«Saudi Aramco ha accettato di acquisire il 10% di una raffineria di petrolio cinese per 3,6 miliardi di dollari, in un paio di accordi destinati a rafforzare il rapporto tra la compagnia petrolifera statale mediorientale e il suo più grande mercato. In base all’accordo con Rongsheng Petrochemical Co, quotata a Shenzhen, Saudi Aramco fornirà 480.000 barili al giorno di greggio saudita al più grande impianto integrato di raffinazione e prodotti chimici della Cina, nella provincia di Zhejiang. L’investimento arriva il giorno dopo che Saudi Aramco ha annunciato una joint venture con altre due società cinesi per costruire una nuova raffineria da 300.000 barili al giorno e un complesso petrolchimico nel nord-est della Cina. Gli accordi combinati promettono di aumentare i contratti di fornitura di Saudi Aramco con la Cina fino a 690.000 b/g, proprio mentre la quota dell’Arabia Saudita del più grande mercato mondiale di importazione di petrolio sta subendo pressioni a causa di un aumento delle spedizioni di greggio scontato dalla Russia»2

Russia, osserviamo, che, nell’ultimo anno, ha superato i sauditi nell’esportazione di petrolio verso la Cina.

 

Occidente, oppure…

Cosa significa tutto questo? Nel tentativo di attuare la famigerata transizione ecologica, Riyadh ha investito cifre ingenti e si appresta a trovare partner internazionali e a vendere quote di Aramco in borsa: Blackrock ha risposto, ma sono necessari, da parte della nazione, molti capitali, che porteranno i sauditi a un forte indebitamento, che potrà essere sostenuto solo se il prezzo del petrolio si attesterà sopra gli 81 dollari al barile.

Questo spiega la mossa dell’Arabia Saudita all’Opec ed il progressivo disallineamento dalle posizioni USA. Allo stesso tempo, la transizione ecologica non si ferma: se osserviamo la figura che accompagna questo articolo, vediamo che, al centro del mercato dell’energia, c’è l’OGCI, un’organizzazione di cui fa parte anche Aramco, rappresentata dal suo stesso Ceo Amin Nasser, con questi obbiettivi prioritari:

«Tutte le 12 aziende associate all’OGCI stanno perseguendo strategie che mirano a raggiungere entro la metà del secolo, l’azzeramento delle emissioni nette di gas serra (c.d. carbon neutrality) nelle operazioni sotto il loro controllo e l’azzeramento delle emissioni di metano dagli asset di petrolio e gas gestiti entro il 2030».

Questa data coincide, stranamente, con l’ambizioso “Progetto Vision 2030”, calata in un funzionale scenario di guerra, che dovrebbe traghettare la nazione araba nel nuovo millennio liberista, ma, non sempre volere è potere, e il grafico 2 ci dà un’idea di quello che realmente potrebbe accadere ai paesi OPEC.

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Questo scenario era stato previsto nel 2019, e non è compatibile con i progetti di Riyadh. E se la mossa di Blackrock fosse solo un bluff? Un modo per orientare e influenzare la politica saudita dei prossimi anni, piegandola agli interessi dell’occidente, distraendola con l’illusione di una salvezza che non arriverà mai?

Se i sauditi hanno capito questo, ci sarà un inevitabile allontanamento e un progressivo disallineamento dalla politica americana e dai progetti futuristi fantascientifici: in tal caso, l’Arabia Saudita potrebbe spostare i suoi investimenti e la sua offerta energetica in oriente, rendendo permanente il suo avvicinamento a quel blocco; oppure l’Occidente sarà costretto a rallentare i suoi progetti a favore dei paesi del Golfo Persico.

Attualmente, il colosso saudita Aramco, che ripetiamo, è la compagnia più quotata al mondo, con il piede in due staffe, è aperto a tutte le opzioni: una sua crisi farebbe crollare come un castello di carte tutto il fragile sistema economico attuale.

Quindi, il futuro di Aramco è in bilico, e con la compagnia è in bilico anche l’intero futuro dell’Occidente: cosa che gli USA e il delicato intreccio di multinazionali del sistema neoliberista, forse, nel loro delirio di onnipotenza, non hanno ben chiaro.

Pechino, paziente attende.


Note
  1. fonte: “Saudi wealth fund, BlackRock to jointly explore Mideast infrastructure projects,” Reuters, 14 novembre 2022.
  2. fonte: “Saudi Aramco boosts China investment with two refinery deals”, Financial Times, 27 marzo 2023.

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