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manifesto

Bisogna fermare il rilancio dei liberisti

Gabriele Pastrello

L’«austerità espansiva» elaborata da Alesina e sposata dalle istituzioni europee è fallita. Ma ora, senza autocritica, gli stessi economisti che ci hanno portato al disastro preparano un’altrettanto tragica «fase due»

È dal fatale feb­braio 2010, quando Ale­sina pre­sentò all’Ecofin la teo­ria dell’«austerità espan­siva» che la sini­stra, poli­tica e intel­let­tuale, euro­pea com­batte con­tro l’austerità. Con poco suc­cesso, peral­tro. Ma, oggi, corre un altro rischio: che sia la stessa destra a revo­care quella linea disa­strosa, peral­tro, man­te­nen­done l’obbiettivo poli­tico di fondo. Per­ché con­tra­ria­mente a quanto soste­nuto da Gia­vazzi e Ale­sina sul Cor­riere della Sera il 29 scorso, il libe­ri­smo non è di sini­stra; soprat­tutto il loro.

Una decina di giorni fa, Gia­vazzi e Tabel­lini, sodali di Ale­sina nel soste­gno alla linea dell’«austerità espan­siva», hanno pub­bli­cato su Vox, la rivi­sta on line di un impor­tante cen­tro di ricer­che eco­no­mi­che inglesi, un pezzo in cui si legge che «la prin­ci­pale sfida che l’Eurozona oggi ha di fronte è la carenza di domanda aggre­gata».

Per due eco­no­mi­sti, che ave­vano in modo inos­si­da­bile difeso le misure di auste­rità, è un cam­bia­mento non da poco. La novità è l’accento su pro­blemi di domanda. Anche se espli­ci­ta­mente non lo ammet­tono, è ovvio che il punto di par­tenza è il rico­no­sci­mento del fal­li­mento del pre­sunto ruolo espan­sivo delle misure di auste­rità, con­tra­ria­mente a come era stato orgo­glio­sa­mente annunciato.

Ma se ampliamo l’orizzonte ci accor­giamo che il rico­no­sci­mento della carenza di domanda, osti­na­ta­mente negato fino a oggi, per quanto impli­cito, è gene­ra­liz­zato. Dra­ghi nella sua rela­zione a Jack­son Hole dice: «Dob­biamo agire dai due lati dell’economia: poli­ti­che di domanda aggre­gata (sic, ndr) devono essere accom­pa­gnate da poli­ti­che nazio­nali strut­tu­rali». La carenza di domanda è il punto di con­tatto con le idee di Gia­vazzi e Tabel­lini e per­fino di Weid­mann, il pre­si­dente della Bun­de­sbank, l’acerrimo anta­go­ni­sta di Dra­ghi. E que­sta è la novità; comune. Cioè, pur man­te­nendo una reto­rica che si rifà all’austerità, le diri­genze poli­ti­che euro­pee rico­no­scono di fatto che le poli­ti­che di auste­rità sono fallite.

È su come uscirne che tor­nano a divi­dersi. Pos­siamo dise­gnare una mappa delle posi­zioni. A un estremo stanno Gia­vazzi e Tabel­lini con una pro­po­sta libe­ri­sta radi­cale di sgravi fiscali e di defi­cit. Al cen­tro Dra­ghi, che rifiuta i defi­cit e pro­pone come misura prin­ci­pale lo sti­molo mone­ta­rio. E all’altro estremo Schäu­ble con Weid­man; con­trari sia ai defi­cit che alle misure monetarie.

Vediamo le ricette. Gia­vazzi e Ale­sina ave­vano comin­ciato tempo fa sul Cor­riere della Sera pro­po­nendo un taglio del cuneo fiscale di qua­ranta miliardi (Renzi ne ha tagliati otto). Su Vox, Gia­vazzi e Tabel­lini sono arri­vati a ottanta miliardi di sgravi fiscali (6% del Pil), da recu­pe­rare con tagli di spese in tre-quattro anni, sfo­rando quindi il para­me­tro del defi­cit in misura con­si­stente. Una rivo­lu­zione (altro che i quat­tro miliardi di nuove risorse pre­vi­ste dallo Sblocca-Italia: lo 0,25% del Pil). Sul Cor­riere pochi giorni fa non hanno fatto cifre; ma que­sta è la loro proposta.

Le con­se­guenze sono ovvie. L’aspetto para­dos­sale della situa­zione è che la misura che ha mag­giori pro­ba­bi­lità di inne­scare quan­to­meno spunti di ripresa, rispetto alle altre, è quella di Gia­vazzi e Tabel­lini, che è anche quella con il più duro segno di classe. Poli­tica che ini­zia con sgravi per met­ter potere d’acquisto soprat­tutto nelle mani di ceti abbienti e con­ti­nue­rebbe, nei tre-quattro anni suc­ces­sivi, o più, per recu­pe­rare tutto lo sgra­vio a spese dei ceti medio-bassi: i tagli di spesa per l’appunto, con l’esito di un’esplosione della disuguaglianza.

La ricetta è com­ple­tata dalle «riforme strut­tu­rali» del mer­cato del lavoro, che dovreb­bero evi­den­te­mente garan­tire che l’aumento di domanda, gestito dai red­diti medio-alti, che even­tual­mente seguisse non intac­casse la Grande Mode­ra­zione sala­riale attra­verso una ridu­zione della pre­ca­rietà del lavoro; che va invece garan­tita, anzi approfondita.

Su que­sto punto non c’è dif­fe­renza con Dra­ghi, che nel discorso di Jack­son Hole riba­di­sce la sua nota insi­stenza sulle «riforme di strut­tura», cioè l’aumento della fles­si­bi­lità del lavoro, in tutti i sensi, come chiave della ripresa. Ripor­tando l’esempio di Gre­cia e Spa­gna, come i paesi che, gra­zie a que­ste «riforme», si sareb­bero lasciati die­tro la reces­sione, il che com’è noto è sem­pli­ce­mente un’interpretazione pre­te­stuosa dei fatti.

Peral­tro, è fin dal gen­naio 2012 nell’intervista al Wall Street Jour­nal che Dra­ghi si è fatto pala­dino di una linea di com­pres­sione sociale, nei due lati di ridu­zione della coper­tura del wel­fare e delle difese con­trat­tuali dei lavo­ra­tori. Quest’ultimo motivo, costante e ripe­tuto, sem­bra assu­mere oggi un nuovo signi­fi­cato: cioè la ridu­zione dra­stica delle difese con­trat­tuali pare essere diven­tata la con­di­zione ‘poli­tica’ dell’abbandono delle poli­ti­che di austerità.

A Jack­son Hole Dra­ghi ha aperto uno spi­ra­glio agli sgravi fiscali, per quanto molto più mode­rato di Gia­vazzi e Tabel­lini, ma che comun­que gli ha gua­da­gnato i rab­buffi della Mer­kel. Gli sgravi fiscali, pure utili, devono essere com­pen­sati da tagli di spese. Niente sfo­ra­mento del defi­cit. Per Dra­ghi, invece, lo sti­molo espan­sivo deve venire dall’annunciata poli­tica mone­ta­ria. Di cui ha già messo in opera una prima tran­che, ma con scarsi risul­tati. E con il rischio che una fase molto più decisa possa inne­scare una bolla edi­li­zia molto più che una ripresa industriale.

Anche Schäu­ble e Weid­man ovvia­mente par­tono da una carenza di domanda. Ma si pre­oc­cu­pano che ven­gano rispet­tati alcuni tabù. Che non si resti­tui­scano spazi di auto­no­mia alle poli­ti­che fiscali dei paesi in defi­cit, allen­tando la pres­sione sui loro bilanci. Che le misure di rilan­cio non siano mone­ta­rie; cioè che la plan­cia di comando non sia a Fran­co­forte, ma a Ber­lino. Da cui l’idea che l’unico sti­molo all’economia euro­pea debba venire dalla cre­scita della domanda interna tede­sca, via aumento dei salari dei lavo­ra­tori tede­schi. Natu­ral­mente per gli altri paesi vale sem­pre la linea della «sva­lu­ta­zione interna», via «riforme strut­tu­rali». Riba­dendo la linea della subor­di­na­zione gerar­chica degli altri paesi al neo-mercantilismo tede­sco; linea di «impe­ria­li­smo intra-europeo», mai seria­mente con­tra­stata dall’Spd.

Non è da esclu­dere che, fal­lendo altre misure, passi alla fine quella di Gia­vazzi e Tabel­lini. Ma una cosa, dal fatale 2010, rimane immu­tata: che l’uscita da que­sta crisi debba avve­nire in dire­zione oppo­sta a quella presa dall’uscita roo­se­vel­tiana dalla crisi del 1929: mag­giore difesa dei lavo­ra­tori (i sin­da­cati si svi­lup­pa­rono impe­tuo­sa­mente dopo il Wag­ner Act del 1935) e soste­gno alla domanda sia con pro­grammi mirati che, in gene­rale, con l’aumento della spesa pub­blica e del defi­cit come stru­mento redi­stri­bu­tivo verso i red­diti medio-bassi. Ma che, invece, gio­cando sull’indebolimento sia dei gruppi sociali che delle loro orga­niz­za­zioni dovuto alla crisi, giunga alla mas­sima revoca pos­si­bile delle con­ces­sioni, strap­pate in quella con­giun­tura, com­pa­ti­bile con il man­te­ni­mento di un qua­dro demo­cra­tico (ma non vale per tutti; vedi Mar­chionne, o JpMorgan).

La morale è che i libe­ri­sti sono temi­bili quando sosten­gono l’austerità, ma lo sono ancora di più quando pro­pon­gono il rilancio.

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