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micromega

Superare il liberalismo identitario

di Carlo Formenti

In un articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times Mark Lilla, professore di scienze umane alla Columbia University, scopre l’acqua calda: i progetti politici fondati sull’assemblaggio di un mosaico di culture identitarie – che è esattamente la strategia messa in campo dalle élite liberal americane – sono destinati alla sconfitta. Evidentemente ci voleva la batosta della vittoria di Donald Trump perché lo capissero. In realtà non sembra l’abbiano davvero capito, tanto è vero che – non solo negli Stati Uniti ma anche qui da noi – giornalisti, politici di “sinistra” ed esperti si arrampicano sugli specchi per sminuire la portata della catastrofe (in fondo la Clinton ha avuto più voti popolari, gli americani e gli inglesi si renderanno presto conto degli errori commessi votando Brexit e Trump, ecc.) ed è forse per questo che Lilla ci va giù duro per dargli la sveglia. Riassumo qui di seguito alcuni dei suoi argomenti.

L’ossessione per le differenze identitarie – e la retorica “politicamente corretta” che l’accompagna – che pervade da decenni scuole, media e università americane ha prodotto una generazione di progressisti e liberali “narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati”. Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e “non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l’economia e i beni comuni”, anche perché, aggiunge, i curriculum scolastici proiettano anacronisticamente nel passato le identità politiche contemporanee, “offrendo una visione distorta dei fattori che hanno plasmato il nostro paese”. Questa deformazione ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a tutto ciò che non riguarda i temi identitari.

Ma il disastro peggiore, come ha dimostrato la resistibile ascesa di Trump, lo ha prodotto in campo politico, alimentando un disprezzo arrogante e aristocratico nei confronti degli strati sociali meno colti e la convinzione che la “vecchia” destra repubblicana sia destinata a estinguersi spontaneamente, sostituita dalle giovani minoranze etniche dei migrati (salvo scoprire, ironizza Lilla, che i giovani latinos non hanno affatto votato in massa per la Clinton). Né le élite liberal si sono rese conto che l’ossessione per le differenze identitarie ha legittimato l’autopercezione dei cittadini bianchi e religiosi delle zone rurali come gruppo svantaggiato la cui identità viene ignorata, se non minacciata di estinzione (non si dovrebbe dimenticare, ironizza ancora, che il primo movimento identitario in America è stato il Ku Klux Klan).

Ma come dovrebbe essere una cultura liberal post identitaria? Qui Lilla mi pare dica cose meno convincenti. D’accordo quando parafrasa un discorso di Sanders, il quale sembra abbia affermato che gli americani ne hanno piene le scatole di sentir parlare dei gusti sessuali dei liberal, ma poi mi pare che scambi il progetto politico di Sanders con lo sforzo di essere più inclusivi nella costruzione di una coalizione sociale progressista, di non dimenticare cioè la classe operaia bianca e le classi medie proletarizzate e precarizzate.

Ora, nella misura in cui si dichiara erede della tradizione socialista e ha più volte riproposto la necessità di rimettere al centro i temi dell’economia (prima i diritti sociali, poi quelli civili e individuali, pur senza indietreggiare di un passo sui secondi), a me pare che Sanders non pensi tanto e solo all’allargamento della coalizione, ma anche a tenere conto del diverso peso politico dei soggetti che ne fanno parte: appartenere agli strati sociali oppressi e sfruttati non è un problema di identità allo stesso titolo dell’appartenere a questo o quel gruppo religioso o a questo o quel gruppo fondato sulla condivisione di certi gusti sessuali. Altrimenti non avrebbe senso parlare di superamento del liberalismo identitario.

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