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L’Italexit non è un pranzo di gala

di Sergio Cararo

La prospettiva dell’Italexit, cioè di una fuoriuscita unilaterale del nostro paese dagli apparati del vincolo esterno come Unione Europea, Eurozona e Nato, necessita ormai di essere declinata con indicazioni sempre meno allusive e sempre più credibili.

Di fattibilità dell’uscita dell’Italia dall’Euro si è occupato recentemente anche un rapporto di Mediobanca, lo ha ventilato Mario Draghi, lo sussurrano ambienti su entrambe le sponde dell’Atlantico. Una buona decostruzione critica e ricca di dati di tutto questo l’abbiamo letta in un recente e ampio servizio de Il Fatto Quotidiano (l’unico che gli ha prestato la dovuta attenzione).

Altri invece ricorrono agli esorcismi, come per allontanare uno spettro che si affaccia con forza nella nuova realtà delle relazioni internazionali. Ma, dopo la Brexit, il fallito golpe in Turchia e l’elezione di Trump, è diventato ormai evidente come “i cigni neri” non siano più una rarità.

Meno attenzione e ancora meno passione sembrano suscitare invece gli aspetti “politici” della rottura con gli apparati del vincolo esterno come Unione Europea e Nato. Due organizzazioni che solo i miopi o i finti tonti possono continuano a scambiare con l’Europa o l’occidente. Eppure anche un osservatore strabico comprende che non si può uscire da un’area monetaria senza rompere anche con la gabbia politica che l’ha costruita.

Nell’assemblea nazionale di Eurostop del 28 gennaio, abbiamo provato a schematizzare un ragionamento sul percorso dell’Italexit che riproponiamo ai nostri lettori che non hanno potuto seguire di persona o in diretta streaming i lavori e la discussione dell’assemblea.

1)      Quali settori sociali hanno interesse all’Italexit? Abbiamo verificato che i settori popolari e operai non sono più imprigionati nell’incantesimo dei benefici dell’integrazione europea. Sulla loro pelle, in questi 25 anni trascorsi dal maledetto 1992, hanno pagati tutti i costi sociali imposti dal vincolo esterno e dunque dall’Unione Europea/Eurozona. Non hanno più alcun beneficio di prova a disposizione sulla positività dell’euro. Né bastano qualche centinaio di giovani in Erasmus (molto pochi nelle famiglie proletarie) per continuare a giustificare l’importanza dell’Unione Europea per il futuro delle nuove generazioni. Anzi, grazie alla sistematica destrutturazione delle università a seguito del documento europeo di Bologna (1999) assistiamo ad un sistematico furto di cervelli proprio in direzione dei paesi più forti della Ue. Non a caso settori popolari e giovani sono stati decisivi nel No sociale che ha sconfitto Renzi nel referedum costituzionale.

Ma non c’è solo la “classe lavoratrice” (sia quella attiva che quella generazionalmente potenziale) ad avere interesse a rompere con l’euro e l’Unione Europea. C’è anche un pezzo non più irrilevante di piccola e media borghesia, commerciale, industriale e professionale, che è stata bruscamente proiettata verso il basso dal processo di concentrazione finanziaria e industriale europeo e dalle politiche di rigore sui bilanci pubblici. I cambi fissi imposti dall’adozione dell’euro hanno sbaraccato migliaia di aziende che non avevano la possibilità o la logica per internazionalizzarsi. I tagli alla spesa pubblica hanno ripulito il campo da tutti coloro che campavano negli interstizi del sistema. L’aumento delle disuguaglianze e lo stop all’ascensore sociale, ha reso vane tutte le aspettative alla “progressione” per milioni di laureati, tecnici, giovani professionisti, precipitandoli in un’area grigia di precarietà, salari intermittenti legati alle commesse, sotto salari. Psicologicamente si rifiutano di riconoscersi simili agli altri proletari (operai, lavoratori, disoccupati etc.), vivono del risentimento di chi – caduto da più in alto – si è fatto più male di chi stava già in basso. E’ sostanzialmente il settore sociale che si è dato rappresentanza politica attraverso il M5S. Questo settore sociale sta maturando la convinzione che l’euro e l’Unione Europea sono ormai entrati a far parte delle aspettative tradite. Un movimento politico, popolare, progressista, legato alla classe lavoratrice, può essere egemone o sarà subalterno a questi settori nel percorso che porta alla fuoriuscita dagli apparati del vincolo esterno? A nostro avviso potrebbe giocarsi la sfida dell’egemonia con ottime probabilità di successo sottraendo spazio e consensi all’interpretazione in chiave reazionaria di questi interessi sociali.

2)      Chi esce dall’Unione Europea, dall’euro e dalla Nato? Evidentemente non può che essere un paese, uno Stato, una nazione. Una entità territoriale e politica definita da confini, da una Costituzione, da una storia comune e dagli abitanti che vi vivono. Una rottura simultanea di più paesi, magari a cominciare dai Pigs, sarebbe auspicabile ma non è fattibile, ragione per cui è bene lasciarsi alle spalle ogni velleità in tal senso. L’accumulazione delle forze sociali da proiettare verso la rottura, non può che avvenire su base nazionale e tra la classe lavoratrice del paese in cui si agisce. Sarà la visione internazionalista, antimilitarista e solidale a dare la necessaria cornice strategica ad un fronte di lotta che obiettivamente è perimetrato a livello nazionale. Si agisce affinchè sia il nostro paese a rompere ed uscire dall’Unione Europea, dall’Eurozona e dalla Nato e ci si adopererà affinchè gli altri paesi ingabbiati dai trattati e da queste organizzazioni vedano crescere dei movimenti sociali orientati a fare altrettanto. Ma da qualche parte qualcuno deve iniziare il processo reale. E il processo non può che iniziare dagli anelli deboli della catena imperialista.

3)      Come uscire dalla Ue, dall’euro e dalla Nato? Attraverso il conflitto sociale, la mobilitazione, uno o più referendum o un governo che abbia la maggioranza necessaria ad indirli e la voglia di farli (anche forzando sui limiti imposti dalla Costituzione ai referendum sui trattati internazionali). E’ naturalmente un processo che riafferma la piena sovranità popolare sulle scelte del paese , dunque di un territorio definito, entrambi determinati dalle loro leggi fondamentali, una fra tutte la Costituzione difesa nel referendum del 4 dicembre.

4)      Con quale strumento si affronta il percorso dell’Italexit? Un movimento politico, con sufficienti basi sociali che persegua con determinazione questo obiettivo. Eurostop ha dichiarato di volersi conformare a tale scopo.

5)      Con quale programma? E’ evidente che per produrre un cambiamento è necessario produrre una rottura del quadro esistente e dei vincoli imposti. Dunque un programma che evoca sin da subito la nazionalizzazione delle banche e delle aziende strategiche (telecomunicazioni, energia, trasporti, industrie indispensabili al sistema produttivo); il ripudio del debito pubblico accumulato e ormai praticamente in possesso solo di banche, assicurazioni e fondi di investimento privati, italiani ed esteri; una nuova moneta sganciata dall’euro e dal regime dei cambi fissi; lo smantellamento delle basi militari straniere, la fuoriuscita dai patti militari (la Nato ma anche la Difesa Europea) e la neutralità attiva in politica estera.

6)      Con quale visione strategica? Una visione internazionalista come abbiamo detto. A partire dalla consapevolezza che gli scenari internazionali ci stanno portando verso una situazione simile a quella in cui si trovò il movimento operaio alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. La demonizzazione di Trump, di Putin, della Cina, dell’islam politico, incentiva il tentativo delle classi dominanti europei di cooptare anche le forze progressiste e le classi lavoratrici a sostegno del progetto strategico dell’Unione Europea. In sostanza ci vorranno costringere a votare i crediti di guerra per difendere il “nostro” imperialismo contro gli altri imperialismi dentro la sempre più violenta competizione globale in corso, magari in nome dei valori liberali e democratici europei contro il dispotismo euroasiatico  e la minaccia di Trump. E’ una trappola politica ed ideologica alla quale dobbiamo sottrarci sin da ora, assumendoci la responsabilità di combattere apertamente il “nostro” imperialismo – quello europeo – senza alcuna paura di volerlo indebolire, rilanciando apertamente la prospettiva del socialismo nel XXI Secolo come alternativa ad un sistema a dominio capitalista che sta facendo regredire il mondo e la nostra stessa società.

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