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controlacrisi

La disobbedienza ai trattati non è realistica. È necessario superare l’euro

di Domenico Moro

Uno dei maggiori limiti della sinistra sta nel confondere l’europeismo con l’internazionalismo e pensare che il superamento dell’euro sia deleterio o una proposta di destra. La creazione di un “demos europeo”, mediante una agenda europea dei conflitti e dei movimenti, o la proposta di realizzare un movimento europeo contro l’austerity e il neoliberismo, basato sulla disobbedienza ai trattati, non sono proposte realistiche. Esse non tengono conto del contesto: l’integrazione valutaria europea. L’euro è stato pensato con uno scopo preciso: bloccare ogni capacità di risposta e di resistenza dei salariati alla riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica. La finalità di tale riorganizzazione è semplice: compensare il calo del tasso di profitto tagliando i salari e il welfare e eliminando le imprese e le unità produttive in “eccesso”.

 

L’euro costringe al rispetto dei Trattati

I meccanismi principali dell’integrazione europea sono due. Il primo riguarda il trasferimento delle decisioni economiche dal livello statale a organismi sovrastatali, come la Commissione europea, il Consiglio europeo, che riunisce i primi ministri, e il Consiglio dell’Unione Europea, che coordina i ministri europei. L’obiettivo non è superare gli stati, ma realizzare la “governabilità”, cioè bypassare i parlamenti e le costituzioni statali, dove i meccanismi della democrazia parlamentare creerebbero, pur nei limiti della democrazia rappresentativa borghese, dei vincoli all’azione delle forze dal capitale.

Ma l’elemento centrale dell’integrazione europea è l’euro stesso, perché esso costituisce un meccanismo economico “oggettivo”, che si sottrae apparentemente alle decisioni politiche, anche se ne è il frutto. Senza l’euro i trattati, e quindi i vincoli del Fiscal compact al deficit e al debito pubblico, avrebbero una forza coercitiva molto inferiore. In particolare, il trasferimento alla Banca centrale europea realizza l’indipendenza della banca centrale, l’altro pilastro, insieme alla “governabilità”, della strategia neoliberista. L’alienazione del controllo della moneta rende praticamente impossibile fare politiche statali espansive e resistere alla compressione dei bilanci pubblici, e, di conseguenza ai tagli al welfare. Inoltre, l’introduzione dell’euro, comportando l’adozione di cambi fissi, ha sopravvalutato automaticamente i prezzi internazionali delle merci della maggior parte dei Paesi europei e sottovalutato quelli della Germania. Di conseguenza, mentre la Germania ha realizzato un enorme surplus commerciale, gli altri Paesi hanno subito deficit commerciali, fallimenti di molte imprese e contrazione dell’occupazione e del Pil. Ciò ha impedito a questi Paesi di contrastare prima e finanziare poi la crescita del debito pubblico. Per reagire alla perdita di competitività si sono ridotti i salari. A differenza di quanto alcuni ritengono, non si tratta di uscire dall’euro per poter attuare “svalutazioni competitive” che porterebbero alla riduzione dei salari. Si tratta di uscire dall’euro per correggere una sopravvalutazione che Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Francia, ecc. scontano sin dall’adesione all’euro e che da allora porta automaticamente alla riduzione salariale.

In sostanza l’euro ha trasformato le economie europee in mercati interni depressi e orientati a scaricare all’estero l’eccesso di capitali e di merci, alimentando così gli squilibri e la competizione aggressiva, anche militare, tra stati. Le nostre sono economie indotte già oggi, e non dopo l’uscita dall’euro, a esportare e a realizzare ampi surplus del commercio estero. Come è possibile in un quadro del genere disobbedire ai trattati? Chiunque provasse a farlo verrebbe strangolato in un attimo, come esemplarmente dimostra il caso greco, dove persino l’esito di un referendum è stato contraddetto da un governo di sinistra, quello di Syriza, finito nel tritacarne dei meccanismi automatici dell’euro.

 

Uscire dall’euro è internazionalista e di sinistra

La conseguenza principale dell’euro è stata l’allargamento dei divari economici tra i vari Paesi e all’interno dei singoli stati, fomentando i contrasti tra lavoratori di Paesi diversi e tra indigeni e immigrati. È stato l’euro ad aver riportato in Europa, a settanta anni dalla fine della guerra, il nazionalismo e la xenofobia a un livello di massa, allontanando i lavoratori dalla politica o spingendoli dalla sinistra verso i partiti di estrema destra. Per questa ragione non si sono sviluppati movimenti su scala europea. Senza una rottura con l’euro non è possibile sviluppare alcun movimento europeo né costruire alcun demos europeo, bensì è possibile solo una sorta di guerra civile fra i subalterni, tra proletariati di Paesi diversi, tra immigrati e indigeni. Al contrario, essere per l’uscita dall’euro vuol dire essere contro quanto produce nazionalismo e xenofobia, all’interno, e competizione tra stati all’esterno. Solo attorno al superamento dell’euro si può ricostruire un vero internazionalismo di classe europeo.

È un sillogismo assurdo, come tutti i sillogismi, dire che, siccome l’estrema destra è contro l’euro, allora essere contro l’euro è di destra. Si tratta di un obiettivo solo apparentemente identico. Le ragioni e le finalità sono radicalmente diverse. Mentre l’estrema destra si fa portatrice di illusorie istanze di settori capitalistici perdenti, la nostra uscita dall’euro è portatrice degli interessi dei salariati. Non per ritornare alla sovranità nazionale, bensì alla sovranità democratica e popolare. Qui, non si tratta di nazione, ma di società e di Stato. Dobbiamo chiederci se continuare ad accettare organismi sovrastatali e una unione monetaria, funzionali solo al capitale, oppure riaffermare le competenze dei parlamenti e delle costituzioni, ritornando cioè a una dimensione statuale dove è possibile opporsi ai processi capitalistici, proprio perché situata a un livello maggiormente influenzabile dai lavoratori. Solamente l’uscita dall’euro permette di ricreare condizioni di lotta in cui uno dei contendenti, il lavoro salariato, non sia perdente in partenza. Se un uomo armato di bastone ci aggredisce, la nostra prima preoccupazione non sarà quella di togliergli quell’arma in modo da ristabilire condizioni equilibrate di lotta?

 

Bisogna decidere in primo luogo che fare

Uscire dall’euro è rischioso? Non dovevamo entrare, ora uscire è impossibile? Si potrebbero citare autorevoli studi economici che riportano a dimensioni realistiche quella sorta di biblica invasione delle cavallette (inflazione al 30-40%, ecc.) che, secondo alcuni seguirebbe l’uscita dall’euro. Limitiamoci a renderci conto, come dimostrano gli ultimi dieci anni, che è folle continuare nella stessa situazione, rimanendo immobili. Fantasticare su movimenti europei senza un obiettivo programmatico vero, se non una illusoria disobbedienza, in pratica vuol dire stare immobili, continuando, però, a esaurire le energie nostre e dei lavoratori italiani e europei. Con le illusioni sul “demos europeo” finiamo oggettivamente, anche senza volerlo, per coprire a sinistra l’europeismo neoliberista del Partito democratico e del Partito socialista europeo, tra i maggiori fautori storici dell’integrazione economica e valutaria, nel mentre pretendiamo di essergli alternativi. Con il rischio di diventare la classica sentinella a guardia del bidone di benzina ormai vuoto. L’euro non durerà a lungo, come le precedenti unioni monetarie sovrastatali della storia, e come lasciano intendere le ultime dichiarazioni della Merkel, sostenute anche da Prodi, a sostegno del progetto di una Europa a più velocità presentato recentemente da alcuni Paesi satelliti della Germania. La domanda è se continueremo a cullarci nella illusione di poter fare una altra Europa all’interno dell’euro, lasciandoci spolpare finché non sarà il capitale ad abbandonare l’euro, avendo esaurito il suo scopo, oppure se decideremo di prendere posizione chiaramente, riprendendo nelle nostre mani quell’iniziativa che da oltre un decennio ci è stata sottratta.

Il nostro compito, oggi, non è tanto ideare soluzioni tecniche, certo importanti, ma in primo luogo definire un orientamento politico generale, che manca e senza il quale non sapremmo neanche in quale direzione muoverci. Se mi devo spostare, prima ancora di decidere se andarci in auto, treno o aereo, devo, prima di tutto, sapere dove devo andare. Anzi, solo il sapere dove devo andare mi consente di pensare, dopo, a come farlo. Anteporre la questione del come al che fare è solo un altro modo per rifiutare di prendere una decisione o per prenderne un’altra.                                                                    

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