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I salari fermi dal '95 bloccano l'economia

di Leonello Tronti

Fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5 e ad oggi non è cambiata. Frutto dell'accordo del '93, necessario per l'emergenza, ma che protratto nel tempo ha inceppato la crescita, innescando un circolo vizioso di bassi consumi che scoraggiano gli investimenti

Anche in periodi di deflazione come quello in cui viviamo i salari reali non crescono. I dati Istat confermano che la retribuzione lorda media di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015, era pari nel terzo trimestre del 2016 a 2.464 euro mensili (poco più di 1.800 euro netti). Dieci anni prima, nel terzo trimestre del 2006, era identica: 2.463 euro mensili.

Si dirà che il problema è la crisi che, colpendo le imprese due volte tra il 2008 e il 2013, ha proibito qualunque crescita del potere d’acquisto dei salari. Ma se andiamo più indietro e guardiamo cos’è successo prima, quando la crisi non c’era, l’Eurostat ci dice che fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se nel frattempo l’indice del reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque le retribuzioni italiane sono - da almeno 22 anni - rigide verso l’alto, insensibili alla congiuntura. Il dipendente italiano a tempo pieno (quello fortunatamente non toccato dall’enorme crescita del lavoro flessibile) guadagna oggi in termini reali più o meno quello che guadagnava nel 1995.

Perché in Italia i salari non crescono? La risposta è semplice: perché non è previsto che crescano. Il modello contrattuale italiano stabilisce infatti che i contratti nazionali traguardino l'inflazione - ovvero che i salari reali non crescano; e demanda l’ipotetica crescita dei salari reali ai contratti aziendali o territoriali i quali, però, toccano a stento (e per cifre assai modeste) il 30% dei dipendenti delle imprese private. Ne consegue che per il 70% o più dei dipendenti privati il potere d'acquisto dei salari è ancorato ad eterno al valore del 1993, anno di varo del nostro bel modello contrattuale. Mentre per quelli che hanno la fortuna di avere un contratto aziendale la crescita è mediamente modesta, molto modesta.

Le organizzazioni datoriali (con qualche lodevole eccezione) sostengono a gran voce che in questa situazione di crisi i salari non possono aumentare perché non si può distribuire la ricchezza se non la si è creata. Ebbene, è vero proprio il contrario. La ricchezza non si crea perché i salari sono bloccati, e i salari bloccati bloccano i consumi, e i consumi bloccati fanno fallire le imprese e bloccano gli investimenti (ben pochi investono in un paese che non cresce). Infine, gli investimenti bloccati rendono le imprese meno competitive e più fragili, pronte a cadere come un castello di carte al primo soffio di un vento di crisi. Sono dunque i salari bloccati a rendere le imprese fragili e non la fragilità delle imprese ad obbligare il blocco dei salari. Finché non si spezza questo circolo vizioso la ripresa resterà asfittica, così com’è stato dal 1995 ad oggi: le imprese continueranno a fallire, i disoccupati continueranno ad aumentare, la situazione sociale (e politica) diverrà sempre più insostenibile.

La politica salariale dovrebbe attenersi rigorosamente alla sua "regola d'oro", che richiede di far crescere le retribuzioni reali nella stessa misura della produttività del lavoro, possibilmente secondo precisi obiettivi di sviluppo, ovvero con una visione di anticipo e non ex post (si veda il contratto incentivante FCA-EMEA). La regola è d'oro perché assicura la massima crescita dei salari (e dei consumi, che da essi dipendono) senza esercitare spinte inflazionistiche sui profitti (spinte che, peraltro, oggi sarebbero utili alla ripresa). Qualunque deviazione da questa norma (e l'Italia è in deviazione dal 1993) può essere giustificata solo in una logica esplicita di "scambio politico" (per usare un concetto caro a Ezio Tarantelli): in funzione di ben definiti obiettivi di investimento, occupazione, riqualificazione del lavoro o altro. Così come chiedeva la seconda parte, mai applicata, del Protocollo del 1993. E comunque dovrebbe essere sempre rigorosamente temporanea, per evitare gli effetti strutturalmente negativi sulla crescita che l’economia italiana patisce da allora.

Non dubito dell'immediato valore che il Protocollo ebbe nel 1993 e dintorni. L’economia doveva fronteggiare la più grave crisi occupazionale del dopoguerra (1992-95), connessa con l’adesione al “grande mercato unico europeo”, e doveva al tempo stesso accomodare senza scosse l’ondata di inflazione importata che aveva origine nell’ultima grande svalutazione della lira (settembre 1992), operata per assicurare al Paese l’entrata nel “Club dell’euro” al primo turno. Ma il modello contrattuale andava riformato già nel 1998, sulla base dei risultati della Commissione Giugni, che tra l'altro perorava la diffusione della contrattazione territoriale a livello regionale, provinciale e di distretto, proprio per diffondere la crescita dei salari reali e accrescere la sensibilità macroeconomica delle parti sociali anche a livello locale.

Non averlo fatto per quasi vent'anni ed essersi portati appresso da allora salari reali e consumi bloccati, senza ottenere in cambio pressoché nulla in favore dello sviluppo, né dalle imprese né dai governi di varia coloritura che si sono succeduti, è stato un errore dalle conseguenze tragiche, oggi sotto gli occhi di tutti: un vero peccato mortale della politica economica, a cui va posto rimedio subito. Perché l’economia cresca il mercato deve liberare due, non una sola mano invisibile: quella sul mercato del prodotto, che spinge e tutela la concorrenza, e quella sul mercato del lavoro, che impugna la “wage whip”, la frusta salariale che spinge la singola impresa alla continua riorganizzazione e al tempo stesso, moltiplicata per tutte le imprese che riesce a raggiungere, sostiene attraverso i salari la crescita dei consumi e del mercato interno. Senza l’azione di entrambe l'economia non solo non cresce e non si rinnova, ma anzi si blocca e si indebolisce giorno dopo giorno. Com’è successo all’economia italiana.

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