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Sul declino dell’italiano a scuola: che cosa fare

di Mauro Piras

L’appello “Contro il declino dell’italiano a scuola” lanciato dal Gruppo di Firenze, e sottoscritto da seicento docenti universitari, ha aperto una importante discussione, a volte segnata da toni polemici. Questo perché solleva un problema reale. Le competenze di scrittura in lingua italiana (e anche di lettura e comprensione) degli studenti di scuole e università sono insoddisfacenti, su questo la percezione diffusa è concorde. Il dibattito, però, si è polarizzato in maniera eccessiva. È nota la posizione del Gruppo di Firenze, che si dichiara “per la scuola del merito e delle responsabilità”, insistendo da tempo su un ritorno a metodi didattici tradizionali e a una maggiore selettività dei percorsi scolastici. Alcuni toni dell’appello risentono di questa impostazione, perché additano nelle più recenti scelte ministeriali (in particolare nelle Indicazioni nazionali per il Primo ciclo) la responsabilità di questa situazione. Ciò ha provocato delle reazioni che si sono concentrate sulla impostazione nostalgica di questo appello, e altre che hanno individuato le cause del problema in fenomeni opposti, cioè nella mancata apertura della scuola e dell’università italiane all’innovazione didattica.

È forse possibile, però, trarre alcune prime conclusioni, cercando di mettere a fuoco una soluzione condivisa. Le guerre più o meno ideologiche tra passatisti e innovatori servono a poco.

La prima cosa da acquisire è che il problema esiste, e certamente scuola e docenti devono farsene carico. È quindi giusto prestare attenzione al lavoro compiuto nel Primo ciclo di istruzione sulle competenze di base. Tuttavia, un primo correttivo da introdurre alla Lettera dei seicento è che non bisogna concentrarsi solo su di esso. Se è vero che le competenze linguistiche di base vengono apprese nella scuola primaria, è anche vero che esse possono mantenersi solo se si sviluppano; e soprattutto le competenze necessarie per scrivere testi argomentativi a livello universitario si formano in un processo lungo che passa dalla scuola secondaria per arrivare appunto fino all’università. Se questo processo fallisce i problemi vanno cercati lungo tutto il suo corso.

Quanto alla primaria, in realtà, è probabilmente la meno responsabile, perché sulla base delle rilevazioni Invalsi, il livello di comprensione e scrittura in italiano all’uscita dalla quinta elementare è migliore di quello all’uscita dalla terza media. Del resto è ingiusta l’accusa rivolta alle Indicazioni nazionali del Primo ciclo, dal momento che queste danno già molto spazio alla comprensione e alla scrittura in italiano, suggerendo di usare proprio le metodologie proposte dal gruppo di Firenze (dettato, riassunto, scrittura in corsivo ecc.). Su questo terreno si tratta di rafforzare pratiche già acquisite.

La situazione è diversa nella scuola secondaria. Intanto, ricordiamo che la secondaria di primo grado (la scuola media) fa parte del Primo ciclo. Tuttavia, la scuola media ha strutture e pratiche didattiche molto diverse dalla primaria: più docenti per classe, più discipline, più attenzione ai contenuti delle singole discipline. Ora, come detto, i risultati in italiano alla fine della terza media sono peggiori di quelli della quinta elementare. Questo perché alla fine della primaria il processo di apprendimento dei fondamentali è ancora in corso e ha bisogno di consolidarsi e arricchirsi, ma questo processo viene rallentato e in parte ostacolato dalla multidisciplinarietà, che richiede l’assimilazione di molti contenuti diversi e uno studio più frammentato. L’italiano diventa una disciplina tra le altre, invece di essere oggetto di un’attenzione speciale e di uno studio approfondito. Si perde l’idea che si debba dare la formazione sui fondamentali. Le Indicazioni nazionali, che riguardano l’intero Primo ciclo, cercano di correggere questa impostazione, ma la struttura stessa della didattica alle medie impedisce che possano essere applicate a fondo.

La situazione nella Secondaria di secondo grado (cioè le scuole superiori) è ancora più grave. Secondo le rilevazioni Invalsi, i risultati sono superiori a quelli della terza media solo per alcuni indirizzi (licei classico, scientifico e linguistico), mentre per tutti gli altri sono uguali o inferiori, soprattutto per i professionali. La tendenza delle singole discipline a rendersi autonome le une dalle altre è ancora più forte, e questo porta a trascurare il consolidamento costante delle competenze in italiano. In fondo, alle superiori gli studenti scrivono raramente testi di una certa completezza, meditati, argomentati, costruiti. Lo fanno solo in italiano, e molto meno in tutte le altre materie. Nella frammentazione delle discipline, questo porta la maggior parte degli studenti delle superiori a diplomarsi con competenze linguistiche approssimative.

Ricordiamo che l’appello dei 600 parte dalla situazione degli studenti che si iscrivono all’università: per molti di loro probabilmente è tutto questo percorso che è andato male, non solo quello della primaria o del Primo ciclo. Le competenze acquisite, anche fondamentali, si compromettono se non vengono coltivate adeguatamente.

Inoltre, va ricordato anche che gli iscritti all’università di adesso sono molto diversi da quelli di, diciamo, trent’anni fa. Se una volta la stragrande maggioranza degli studenti universitari veniva dai licei, oggi quasi il 30 % dei laureati triennali proviene dagli istituti, prevalentemente tecnici, ma anche professionali, e si può supporre che questo dato sia superiore al momento dell’immatricolazione. Qui si sconta il carattere rigidamente gerarchico delle nostre scuole superiori: lo studio dell’italiano e delle “materie umanistiche” viene coltivato con più attenzione nei licei, e meno negli istituti, dove si pensa di formare prevalentemente delle competenze tecniche e professionali. Quando però i diplomati di queste scuole si iscrivono all’università pagano care le carenze della loro formazione generale.

Insomma, la causa generale del nostro problema è la scolarizzazione di massa: oggi il tasso di giovani tra i 14 e i 18 anni che frequentano le superiori è del 93%, mentre nel 1991 era del 68%; è evidente quindi che l’insegnamento tanto secondario quanto universitario si trova di fronte a difficoltà maggiori. La scuola italiana ha risposto solo parzialmente a questa sfida, e il suo impianto, nella secondaria di secondo grado (e in parte di primo) fondato su numerose discipline, troppo frammentato, non aiuta. Ma anche l’università è molto al di sotto di queste esigenze. Non basta denunciare le carenze dei percorsi precedenti. Anche l’università è diventata di massa, e deve farsene carico. Invece, nell’università italiana la didattica continua a essere messa in secondo piano, anche nella valutazione dei docenti; gli studenti universitari prima della laurea scrivono poco o nulla, e ovviamente quando arrivano a scrivere la tesi, a diversi anni dal diploma, per di più con carenze già preesistenti, non sanno da dove iniziare.

In sintesi, su che terreni bisognerebbe intervenire?

Rafforzare un percorso già efficace nella scuola primaria; dare molta più importanza all’insegnamento dell’italiano, e alla scrittura in lingua italiana, nella secondaria, di primo e secondo grado (e in prospettiva ridiscutere un impianto didattico inadeguato); investire sulla didattica nell’università, anche pensando ad assumere docenti espressamente con questo scopo.

Infine, altri due punti importanti, sulle cause del problema e i terreni di intervento.

Primo, la formazione dei docenti. I documenti ministeriali servono a poco, se non se ne sa applicare lo spirito. Purtroppo, il personale della scuola italiana è stato reclutato in modi molto eterogenei, che non sempre hanno garantito un’adeguata selezione delle competenze, soprattutto quando si sono fatte delle vere e proprie sanatorie. Questa qualità diseguale del corpo docente influisce molto sui percorsi scolastici degli studenti. Bisogna quindi provvedere alla formazione in servizio dei docenti. Ma, allo stesso tempo, bisogna pensare a un sistema di formazione iniziale e di reclutamento qualificante e selettivo.

Secondo, la valutazione dei docenti e gli incentivi al merito. La valutazione in ambito scolastico fa fatica ad affermarsi in Italia, ma inizia a muovere i primi passi. Va sostenuta, e collegata a una carriera per i docenti. Il lavoro di insegnamento della scuola deve diventare una scelta vocazionale con buone prospettive professionali, se si vogliono attirare i bravi laureati, e avere quindi un personale qualificato. Il modo migliore per riconoscere il lavoro dei docenti è quello di dare loro una prospettiva di carriera, più che l’uso di incentivi sporadici legati a obbiettivi parziali.

Firenze, 19 febbraio 2017


 Una prima versione di questo articolo è uscita sul sito della rivista «Il Mulino»

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