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manifesto

Il lavoro femminile e i corpi di tutti diventati il nuovo capitale fisso

di Paolo Favilli

Il plusvalore creato dal lavoro femminile fa parte del processo di creazione di nuovo valore nella fabbrica diffusa dove tempo di vita e tempo di lavoro si mischiano

L’articolo che Piero Bevilacqua ha pubblicato recentemente su questo giornale in occasione dell’8 marzo, è un testo esemplare dei metodi e dei contenuti che dovrebbero caratterizzare la sostanza analitica e politica del «nostro campo».

Bevilacqua mette al centro della propria riflessione un aspetto essenziale del modo in cui si estrae plusvalore dal «lavoro-vivo» femminile nei nostri tempi. Si tratta di un’importante indicazione di metodo per quanto riguarda l’insieme della questione «lavoro». Il fatto che il plusvalore creato dal «lavoro-vivo» femminile non provenga soltanto dai luoghi di produzione a ciò tradizionalmente deputati (fabbriche, uffici…), infatti, non è questione solo di genere. Il genere naturalmente mantiene nell’ambito di un processo complessivo le sue specificità, ma è appunto all’interno (nel profondo) del processo che è necessario esercitare l’indagine.

Numerosi studi basati su ampia e rigorosa ricerca empirica dimostrano come la valorizzazione del capitale (la crescita della ricchezza) avvenga in misura progressivamente più rilevante, in questi nostri tempi, attraverso una sorta di fabbrica diffusa, deterritorializzata, una fabbrica fuori della fabbrica, priva di strutture materiali, ma ricca di capitale umano.

«Quando si parla di capitale umano, per quanto tale espressione possa essere odiosa, si dice una cosa giusta: il corpo è diventato una forma di capitale fisso dotato di protesi quali l’iPhone, l’iPad, i computer» (C. Marazzi, Che cos’è il plusvalore?, 2016). La creazione di valore in maniera esterna ai luoghi classici di creazione della «merce» comporta la sempre più difficile distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. La vita stessa è messa al lavoro, persino nello stato di disoccupazione (temporanea o meno), e nella forma, oggi sempre più ampia, del lavoro gratuito.

Tale processo, diventato ormai macroscopico per la sua imponenza negli ultimi decenni, è però elemento costitutivo della valorizzazione del capitale. Scriveva Marx nella sua opera principale: «Il lavoratore, per tutto il tempo della sua vita (il corsivo è mio, nda) non è altro che forza-lavoro e, perciò, tutto il suo tempo disponibile è, di natura e di diritto, tempo di lavoro e dunque appartiene all’autovalorizzazione del capitale» (Il Capitale, vol. I).

Cambiano le forme di valorizzazione nel tempo e nei luoghi, ma non ne cambia la logica fondamentale.

«La produttività della macchina si misura con il grado in cui la macchina sostituisce la forza lavoro umana»Karl Marx

Inoltre le forme attuali convivono con le forme precedenti, con il fordismo ad esempio, e pure con il ritorno di forme di lavoro schiavile. Ed anche questo è un fenomeno costitutivo dell’accumulazione. A proposito di nuovo il Marx de Il Capitale: «La produttività della macchina si misura con il grado in cui la macchina sostituisce la forza lavoro umana».

Ma se ci sono condizioni, o si possono creare, in cui il lavoro umano costa pochissimo? «Gli yankees hanno inventato macchine spaccapietre. Gli inglesi non le utilizzano, perché al miserabile (“wretch”[miserabile, disgraziato] è termine tecnico dell’economia politica inglese per il lavoratore agricolo) che compie questo lavoro viene pagata una parte tanto piccola del suo lavoro che il macchinario rincarerebbe la produzione per il capitalista. In qualche occasione in Inghilterra vengono ancora impiegate donne invece di cavalli per rimorchiare ecc. le barche dei canali, perché il lavoro richiesto per la produzione di cavalli e macchine è un quantum matematico dato e invece quello del mantenimento delle donne della sovrappopolazione è al di sotto di ogni calcolo».

Pensare la categoria «lavoro» nello spazio e nel tempo, pensarla nella logica suddetta, non significa fuggire nei cieli tersi della teoria, là dove tutto torna.

Significa, invece, pensare il lavoro di oggi nella sua vera concretezza, nelle sue molteplici determinazioni, nella pienezza della sua dimensione non riducibile alla funzione di merce. Una funzione che permette di parlare di uomini in termini di esuberi.

Da qui scaturiscono proposte politiche sul «lavoro» necessariamente antitetiche rispetto al contesto che partorisce le molteplici concretizzazioni del Jobs Act.

Ecco, quello che ho chiamato il «nostro campo» non può non avere come denominatore comune se non tale esercizio di «sapere profondo» che comporta scelte politiche estranee alla vacuità «progressista». Scelte politiche non a sinistra del centro-sinistra, bensì diverse nei fondamenti. Ancora la diversità appunto, che non è questione etico-antropologica, ma politica.

Al di fuori della lotta politica, diceva Piero Gobetti, manca il criterio del rinnovamento etico. E lotta politica nel «nostro campo» significa rifiuto del mercato politico, inesorabile portatore delle pratiche di trasformismo dominanti nella «sinistra» generica. Significa inversione della direzione rispetto a chi ha distrutto le strade alternative in modo che non vi fosse più alternativa.

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