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La sovranità del dollaro

di Christian Marazzi

Nei prossimi mesi, in occasione delle scadenze elettorali in Francia, Germania e Olanda, il tema della sovranità monetaria sarà sicuramente al centro dei dibattiti tra le diverse forze in campo, in particolare dei partiti nazional-populisti che della critica alla globalizzazione e i suoi effetti economici e sociali hanno fatto il loro cavallo di battaglia. L’obiettivo è quello di restituire alle nazioni la propria sovranità in materia di politica monetaria, così da permettere ai singoli Stati di riappropriarsi del proprio destino attraverso il controllo delle variabili più importanti, in particolare il tasso di cambio della propria moneta. Ci fu un tempo in cui, per sostenere l’economia interna, si ricorreva alla svalutazione per stimolare le esportazioni e, con esse, l’occupazione interna. Salvo poi accorgersi che gli effetti di queste manovre valutarie erano asimmetrici, dato che i salari venivano sistematicamente penalizzati a causa dell’aumento dei prezzi dei beni importati. Ma tant’è, il passato è passato.

Oggi, la rivendicazione del ritorno alla sovranità nazionale, e di quella monetaria in particolare, ha indubbiamente un suo fascino, e questo perché negli ultimi trent’anni la globalizzazione ha contribuito non poco a acuire le disuguaglianze e la povertà all’interno dei paesi ricchi. Il programma del neoeletto presidente americano, Donald Trump, tutto volto a rafforzare l’economia interna isolando gli Stati Uniti dal resto del mondo, rafforza non poco gli argomenti sovranisti della destra populista europea. La qual cosa è in un certo senso paradossale se solo si pensa alla contraddizione tra l’auspicata sovranità economica nazionale e il dollaro, un moneta che è sì nazionale ma che funge contemporaneamente da moneta di riserva internazionale, una moneta cioè che è utilizzata per pagare le importazioni negli Stati Uniti, per finanziare gli investimenti diretti e indiretti all’estero, per erogare prestiti a imprese e paesi emergenti. Una moneta, poi, che dopo aver violato la sovranità nazionale nel resto del mondo, ritorna negli Stati Uniti sotto forma di acquisti dei Buoni del Tesoro, cioè di una parte consistente del debito pubblico americano.

Questo paradosso di una moneta nazionale che viene (e verrà ancora per parecchio tempo) utilizzata come moneta di riserva internazionale, nel prossimo futuro potrebbe avere un effetto boomerang proprio per gli Stati Uniti. Infatti, uno degli effetti del programma “America al primo posto” e degli enormi investimenti infrastrutturali ventilati dall’amministrazione Trump, è quello di provocare una rivalutazione del dollaro. Nessuno sa bene di quanto si rivaluterà la moneta americana, ma se il debito pubblico statunitense crescerà di molto (oggi siamo al 104% del Pil US) e se la Federal Reserve aumenterà decisamente, come sembra, i tassi di interesse, allora il dollaro si rivaluterà di parecchio. A farne le spese saranno le esportazioni americane, mentre aumenteranno le importazioni negli Stati Uniti. Esattamente il contrario di quanto vuole Trump.

La storia insegna che un paese detiene una moneta nazionale in virtù della propria forza militare. È bene non dimenticarlo quanto si parla delle virtù della sovranità monetaria.

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