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micromega

L'abolizione dei voucher e la paura del voto popolare

di Carlo Formenti

Ascoltando i giudizi sull’esito del referendum del 4 dicembre,  mi è capitato più volte di sentire alcuni amici – fra i quali Giorgio Cremaschi – sottolineare un fenomeno paradossale: mentre il nostro Paese vive una fase in cui tanto le lotte sindacali quanto quelle sociali e politiche appaiono a dir poco scarse, i cittadini italiani non mancano di manifestare la propria radicale insofferenza nei confronti delle élite che li governano non appena una qualsiasi scadenza elettorale ne offra loro l’occasione. Sospendendo l’analisi sulle cause di tale comportamento apparentemente schizofrenico, vorrei invece sottolineare come la classe politica abbia assunto piena consapevolezza del problema e stia facendo il possibile per correre ai ripari.

L’esempio più recente di tale consapevolezza è la decisione del governo Gentiloni di cancellare con decreto legge i voucher. <<L’Italia non aveva bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale come questa>>, ha detto il Presidente del Consiglio, riferendosi all’imminenza dei due referendum abrogativi promossi dalla Cgil. Questa franca ammissione – che andrebbe “tradotta” mettendo il Pd al posto dell’Italia – rispecchia il terrore che ogni scadenza democratica – soprattutto se di tipo referendario – suscita nelle fila di un blocco di potere liberal-liberista che appare sempre più incapace di controllare l’opinione pubblica, malgrado i media non lesino energie per appoggiarlo. La Cgil ha tentato di intestarsi il risultato parlando di “grande successo”, tuttavia, in assenza di grandi mobilitazioni di massa, direi che a vincere è stata piuttosto la paura di un remake del 4 dicembre scorso. Una paura che nemmeno il problematico raggiungimento del quorum nel caso il referendum si fosse effettuato è bastata a dissipare: se infatti, pur in assenza di quorum, la percentuale dei voti a favore dell’abolizione dei voucher si fosse rivelata schiacciante (esito assai probabile), gli effetti per il partito di governo sarebbero stati ugualmente perniciosi.

Significative anche le reazioni stizzite delle imprese e delle altre confederazioni sindacali, che avrebbero preferito una soluzione di compromesso che limitasse il ricorso ai voucher senza abolirli del tutto, in assenza della quale, secondo le imprese, sarebbe stato perfino meglio andare al referendum. Motivazioni? Abolendo i voucher si rischia il ritorno al lavoro nero. Come dire: legalizziamo le forme più ignobili di sfruttamento perché nessuno le vuole realmente eliminare…

Dunque il Pd, nel tentativo di recuperare il consenso delle classi subordinate che gli voltano le spalle e prestano orecchio alle sirene populiste, ha deciso di recuperare un minimo di autonomia rispetto agli interessi dei poteri forti? Niente di tutto ciò. L’operazione è smaccatamente elettorale, di facciata, perché da ambienti governativi filtra l’intenzione di trovare una soluzione alternativa al problema di <<offrire lavoro occasionale a giovani e precari>>, e potrebbe essere una soluzione non meno controversa dei voucher, visto che si evoca a mezza bocca (vedi l’articolo di Lorenzo Salvia a pagina 15 del “Corriere” di sabato 18 Marzo) il modello dei mini jobs tedeschi. Naturalmente non li chiameranno così – visto che sono al centro di dure polemiche anche in Germania – ma la sostanza è simile. In pratica, pare si stia ragionando su una evoluzione del cosiddetto “lavoro a chiamata” (formula utilizzabile per non più di 400 giorni di lavoro nell’arco di tre anni). Con l’aggravante che, mentre ora la formula può essere adottata solo per gli under 25 e gli over 55, in futuro diverrebbe applicabile per qualsiasi lavoratore precario.

Insomma: se non è zuppa è pan bagnato: che si chiamino “contratti a zero ore”, come in Inghilterra, mini jobs, come in Germania, o quel che sarà nell’Italia post voucher, il punto è che per sopravvivere il modo di produzione finanziarizzato e globalizzato del capitalismo neoliberista non può fare a meno di sfruttare un lavoro precario, sottopagato e privato di tutti i diritti che aveva conquistato nel trentennio postbellico. Quindi non basteranno i sistematici tentativi di impedire le consultazioni democratiche e/o di ignorarne gli esiti (vedi il caso greco), né tantomeno basteranno le manipolazioni linguistiche per frenare la progressiva perdita di consenso nei confronti di questo sistema in crisi.

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