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sinistra aniticap

Non è un paese per giovani. Ma nemmeno per vecchi

di Diego Giachetti

Generazioni e diseguaglianze sociali. Si allunga il tempo necessario ai giovani per costruirsi una vita autonoma. E c’è chi è pronto a farla pagare ai pensionati

Giungono nuove brutte notizie per le giovani generazioni nel nostro paese. Dopo che ministri dell’economia e del lavoro li avevano chiamati bamboccioni e choosy (schizzinosi), perché pretendevano un lavoro dignitoso, ora la ricerca della Fondazione Bruno Visentini su Divario generazionale tra conflitti e solidarietà, avanza una purtroppo possibile e nefasta profezia statistica. Sorvolando sui perché, la ricerca afferma che siamo passati dai 10 anni necessari ad un giovane ventenne nel 2004 per costruirsi una vita autonoma, ai 18 anni per raggiungere lo stesso risultato nel 2020 (arrivando quindi a 38 anni di età), e addirittura 28 anni nel 2030. In pratica, le ultime generazioni entreranno nell’età “adulta”, secondo i parametri classici dell’autonomia, solo al giro di boa dei cinquant’anni.

E’ emergenza generazionale hanno tuonato i mass media. E la causa? Invece di indagare sulle ragioni del prolungamento precario della giovinezza, il dato, senza alcuna ragione statistica o sociale, è stato correlato alla “generazione d’argento”, i silver boomers, ai quali appartengono i nati negli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale, definiti come quelli che oggi godono di una confortevole vecchiaia. Questa confortevole differenza va ridotta, è ingiusta, hanno scritto e detto autorevoli penne e opinion maker. Occorre un patto fiscale, ha sentenziato Mattia Feltri su «La Stampa» del 23 marzo 2017. I genitori e i nonni, che godono e (forse) godranno di pensioni più generose dei loro figli e nipoti, rinuncino a qualcosa per finanziare agevolazioni a chi assume i ragazzi e contribuiscano anche alle loro future pensioni. Come se già una buona parte delle famiglie non operasse per coprire le spese dei figli, bloccati nella crescita sociale, affettiva e lavorativa dalla crisi, sostenendoli non solo moralmente. Ma cosa intendono i moderni soloni riformatori, capaci di trovare subito la ricetta giusta per tutte le situazioni? Istituzionalizzare il prelievo fiscale sulla maturità, una tassa che dovrebbe essere il contributo da parte dei pensionati, proporzionale alla fascia pensionistica, da destinare sia alle imprese per favorire l’occupazione giovanile e per pagare loro una parte dei contributi. Insomma un welfare al contrario: non più costruito sui contributi versati alle casse pensionistiche da parte dei datori di lavoro, ma prodotto in parte dai pensionati stessi. Risultato netto: pensioni più basse per tutti, per chi le ha oggi e per chi le avrà (?) domani. E’ il principio dell’eguaglianza a scendere verso il basso, di moda in questi ultimi decenni. Un esercito di eguali impoveriti e precari versus uno “stato maggiore” di eguali nella media-grande ricchezza.

 

Prima osservazione

Si legge di una generazione che oggi godrebbe di una confortevole vecchia, grazie alle generose pensioni derivanti dai privilegi di casta, che non dovrebbero più esistere, perché avrebbero contribuito a costituire una generazione di parassitari (Mattia Feltri, «La Stampa», 23 marzo 2017). Vediamole queste generose pensioni. Secondo i dati forniti dall’Istat nel 2013, quando il numero totale dei pensionati ammontava a 16.393.369, il 63,3% percepiva una pensione inferiore ai 1.500 euro (di cui il 13,3% meno di 500 e il 28% al di sotto dei mille euro), il 26,2% percepiva una pensione compresa tra i 1500 e i 2500, ma il 17% di loro non superava i 2.000 euro, il 10% si collocava nella fascia oltre i 2.500, la metà dei quali superava i 3.000 euro al mese e l’1,4% sfondava quota 5.000. Gli ultimi dati forniti recentemente dall’Inps, relativi al 2016, misurano uno scivolamento verso il basso: con un incremento del numero di pensionati che ricevono un assegno mensile al di sotto dei 750 euro. Se si introduce la variabile genere emerge una situazione di svantaggio delle donne. Le pensionate ricevono prestazioni di valore medio inferiore a quello degli uomini. Nel 2013 la differenza tra i pensionati e le pensionate era in media di circa 6.000 euro annui. Le ragioni dello svantaggio femminile sono molteplici, ma tutte, direttamente o indirettamente, rimandano ai diversi percorsi lavorativi che hanno caratterizzano le carriere di uomini e donne, determinanti per il loro futuro pensionistico.

Oggi le differenze di genere sul mercato del lavoro si sono ridotte, dicono con i numeri alla mano, ma si è trattato di una un livellamento al ribasso, dovuto al fatto che gli uomini hanno visto peggiorare la loro situazione occupazionale e retributiva. Nelle nuove generazioni la condizione delle donne è ancor più critica: difficoltà a entrare nel mercato del lavoro combinata con la facilità di perderlo, una più accentuata precarietà con la conseguenza di più basse retribuzioni e instabilità economica. Il part time è cresciuto non per scelta delle lavoratrici, ma perché utile alle imprese, come strumento di flessibilità.

Sono numeri che misurano e raccontano le diseguaglianze sociali che operano dietro le quinte e provocano le differenziazioni percentuali dei dati, a partire dalle pensioni. Non tutti i componenti la generazione d’argento hanno lo stesso “argento” in tasca. Diseguali quando erano giovani, adulti e lavoratori, lo sono ora che sono anziani. E’ lo spettro della classe sociale, termine oggi rimosso dalla propaganda dominante, che fa le differenze fin dall’inizio dell’avventura della vita.

 

Seconda osservazione

L’ulteriore peggioramento e prolungamento della condizione giovanile è strettamente correlato alla troppa libertà assegnata al mercato del lavoro che, in una condizione di crisi prolungata, ha prodotto e sta producendo almeno due generazioni di precari, di lavoratori intermittenti, mal pagati, pagati in nero, con scarsi o nulli contributi ai fini pensionistici. Non si tratta quindi di fagocitare un presunto conflitto tra generazioni, perché ciò che misurano e raccontano i numeri sono diseguaglianze sociali, che in Italia si sono ulteriormente accentuate. Scrive limpidamente in proposito Linda Laura Sabbadini: «la diseguaglianza intergenerazionale non è cresciuta perché le generazioni delle età anziane hanno particolarmente migliorato la loro situazione, ma perché è peggiorata la condizione dei bambini e dei giovani. In particolare la crisi occupazionale ha colpito soprattutto i giovani e le famiglie giovani con bambini» («La Stampa», 23 marzo 2017). Gli anziani non si sono affatto arricchiti, sono le altre classi generazionali che si sono impoverite. E ancora, quando si parla di classi generazionali occorre sempre tener presente che esse sono certo anagraficamente omogenee, ma socialmente ed economicamente sono differenziate, perché opera la diseguaglianza sociale alla cui base, se gratti un po’ la superficie, trovi la weberiana comunità di destino, cioè le classi sociali. Scrive la già citata Sabbadini: «ognuno di noi nasce e cresce in una famiglia che appartiene a una determinata classe sociale. Ognuno di noi ha una propria traiettoria di vita, sperimenta eventi che determinano il passaggio a status differenti che, nel tempo, modificano condizioni e stili di vita. Ebbene, il passaggio dalla posizione di origine alla nuova destinazione non è affatto neutro come dovrebbe essere se ci fossero pari chance. Le traiettorie di vita e le opportunità di ascesa nella classe sociale sono fortemente diseguali in ragione delle posizioni di partenza ereditate dalle famiglie». Affermazione vera in generale che assume toni drammatici in periodi di crisi prolungata del sistema capitalistico, di disoccupazione permanente, di lavori precari e mal retribuiti. Ogni famiglia cerca di “proteggere” la propria prole, ma è evidente che le probabilità di riuscire a mantenere questo proposito variano a secondo della disponibilità economica. Le famiglie appartenenti alle classi più ricche hanno più possibilità di difendere la posizione sociale dei figli, di mantenerla e eventualmente accrescerla. Tuttavia, anche in questo settore, la crisi ha incrinato alcune certezze. Oggi, più di una volta, le classi medio-alte incontrano difficoltà a garantire ai propri figli la permanenza nello status acquisito, alcuni di loro saranno costretti a declassare rispetto alle condizioni dei propri genitori.

 

Uguaglianza sociale contro diseguaglianza

Nei trenta anni gloriosi del capitalismo occidentale, la sociologia studiava la mobilità in ascesa, cioè la possibilità di migliorale la propria posizione sociale rispetto a quella di provenienza. Poi gli studi hanno cominciato a riscontare un certo attrito all’ascesa di posizione: una mobilità non più mobile, statica e bloccata. Oggi la mobilità è ripresa ma si caratterizza per un processo di decadimento, di discesa, di peggioramento della propria posizione sociale. La maggior parte delle nuove generazioni ha vissuto e sta vivendo questo processo di declassamento rispetto alla posizione acquisita dai loro genitori. Disoccupazione, lavori alla jobs act, precari, con una continuità temporale spezzata in frammenti di esperienze diverse, sono le cause che li costringono a rinviare la costruzione della propria autonomia; e questi fattori hanno e avranno ripercussioni in tutto l’arco della vita, pensione compresa. Le diseguaglianze intergenerazionali quindi, come quelle di genere, si combattono attaccando e riducendo le diseguaglianze sociali, reintroducendo il concetto di eguaglianza sociale, vecchio e caro all’Ottocento e al Novecento.

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