Print
Hits: 1077
Print Friendly, PDF & Email

paroleecose

La più amata dagli italiani

Teresa Ciabatti e l’eutanasia della critica

di Gilda Policastro

Una volta Arbasino disse che giudicare i libri a seconda del gradimento popolare sarebbe stato come valutare McDonald’s il miglior ristorante al mondo, perché il più frequentato. Oggi il paragone non reggerebbe non solo perché i ristoranti sono pieni e le librerie disertate, ma anche perché i programmi di cucina sono più seri delle pagine culturali dei quotidiani, dove i consigli di lettura (o di acquisto, che non c’è distinzione) si affidano a stellette e pallini tipo guida Michelin, ma quasi mai attribuendoli all’oggetto in sé e più spesso alla “migliore persona dello schermo”, come avrebbe detto il poeta: alla funzione, al ruolo, all’idea di personaggio connessa al libro-prodotto, difficilmente inquadrato in un contesto diverso da quello del “successo”, che ormai non si nega veramente a nessuno e si misura in follower e visualizzazioni un tot al giorno, a seconda degli orari. Caduto ogni pudore o reticenza, il sodale magnifica il collega, l’amico il compagno di merende, accade finanche che lo scrittore candidi se stesso a un premio (il prototipo, Scurati allo Strega del 2009). In generale è prassi affrettarsi ad acclamare il proprio simile, aspettandosi che il favore venga prima o dopo ricambiato (qualcuno lo definì “69 critico”): a leggere i giornali saremmo circondati da Flaubert e Proust e non avremmo di che lagnarci, esce un capolavoro di stile al giorno, non fosse che a decretarlo non c’è più nessuna comunità scelta, non l’accademia che fa fatica a registrare ciò che è accaduto dopo Svevo e Pirandello, non la cosiddetta società letteraria di cui non rimane traccia nemmeno nei salotti, che si sono peraltro, con tutta la ritualità e l’accolitismo dei Verdurin, trasferiti nella bacheche Facebook, dove argute signore della bella mondanità dispensano boutade ciniche o fintamente autodenigratorie (“sono una persona cattiva”, “non ho mai accompagnato mia figlia a scuola”) e ne ricevono commenti mai meno entusiastici di “genio!”, “senza parole!”, “solo tu!”

Qualche tempo fa Giuseppe Genna ha postato un video di Chiara Ferragni, giovane donna dal fatturato fuori misura, che un qualche sondaggio celebrava come il personaggio più influente del 2016 su twitter o Instagram (so’ soddisfazioni). Genna denunciava con gli abituali toni apocalittici l’inaridimento dei pensieri e del linguaggio di colei che per la verità nel video incriminato si comportava esattamente come una che di mestiere fa la “fashion blogger” (qualunque cosa significhi): «Scelgo di pubblicizzare i prodotti i cui brand rappresentino la mia identità» e via così. L’apoteosi della società delle merci, l’identità con-fusa con l’apparenza, i capelli Pantene invece della cura di sé foucaultiana. Solo qualche giorno dopo, Genna sarebbe accorso a magnificare “lo stile” dell’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, La più amata (Mondadori), a leggere il post un’Orestea reloaded, con spolveratina dell’inevitabile Proust: «Spezzoni di universalità, che fanno scattare il racconto verso vette vertiginose, […] vicende di un “io” che parla, occupando i corpi fisici e immaginati e ricordati dei componenti di una rinnovata famiglia di Atridi, sono momenti di rivelazione e choc, che sono tali perché hanno a che fare con la verità e non con il genere narrativo». Poi apri e leggi: «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà». Ricapitolando: alle starlette di stagione si chiede di citare dei filosofi (o almeno fare finta, come la pornodiva Nappi), la narrativa può tirarsi via senza stile, perché pare non abbia più nessuna importanza come un libro è scritto, ma solo cosa racconta (contenutismo che a ben pensarci vanificherebbe una serie di capolavori, a partire proprio dalle morbosità proustiane, non fossero morbosità scritte). Il libro, anzi, i libri di Teresa Ciabatti hanno un grosso problema, un problema insormontabile di cui nessuno pare accorgersi, magari perché la massiccia promozione li sottrae in partenza a un discorso realmente letterario (difatti a recensire quest’ultimo sono accorsi le Concite e i D’Orrico, mica i critici): sono libri-chiacchiera, birignao, lallazione, e non hanno una scrittura degna della forma romanzo, che viene invece evocata dai follower dell’autrice-personaggio social come un a priori incontestabile. Leggiamo ancora, dunque, da La più amata: «Un bambino di un anno abbandonato sulla spiaggia, se non fosse per l’ombra che si allunga su di lui. Un adulto, mio nonno. Aldo Ciabatti. Potrebbe essere stato tutto, mio padre, prima di mia madre. Quello che ho conosciuto non era proprio lui, o lo era in parte, o forse non lo era affatto: pensavo fosse tirchio (la luce quando uscite dalle stanze, perdio!), invece regalava pellicce e gioielli». O ancora: «Non hai niente da darmi? Indugia lei sotto la pensione, un palazzetto in mattoni a Brooklyn. Lui tace, lei insiste: niente, niente?, abbassando lo sguardo alla valigetta». Di più? «Adesso lei mi abbraccia – nonostante io cerchi di divincolarmi, odio il contatto fisico – e mi tiene stretta. Che sia in realtà lei ad aggrapparsi a me? Che sia lei a chiedermi aiuto? Sussurrandomi che tutto si sistema, ogni cosa si sistema, piccola mia». Si procede così, in un continuo di lei tace, lui annuisce, lei replica, lui si limita a (sorridere, protestare etc.), lei ammonisce, lui controbatte: sintassi elementare e lessico vieto (i sintagmi obbligati dalla serena notte estiva al frinire assordante delle cicale ci sono proprio tutti) non per scelta formale, ma per mancanza di alternative. Sissignore, chiunque può scrivere così, cioè chiunque non sappia scrivere, e per sapere scrivere qui non intendiamo, alla maniera neoavanguardista, sapere bene come scrivere male, ma proprio conoscere le regole della lingua, più che tentarne un sabotaggio o una violazione (mimetica o antimimetica che si voglia), familiarizzare col Garzanti prima che col genere: l’autofiction alla Walter Siti, senza lo stile di Siti, non fa romanzo e Troppi paradisi lo è in quanto scritto da Siti, non perché ci sono i fatti suoi spiattellati. Ove il poderoso battage quasi senza precedenti per una non-scrittrice riuscisse nell’intento e La più amata vincesse davvero lo Strega, sarebbe il primo caso di libro-non scritto a ottenere un risultato simile. E perché non Faletti, ai tempi, o Fabio Volo, se è un problema di consensi attorno al personaggio e non di qualità della scrittura? Già un decennio fa un saggio capitale come La lettera che muore di Gabriele Frasca si interrogava sulla ragione per cui ai videogiochi, ad esempio, o alle serie televisive, si chiedano strutture e linguaggi ben più complessi di quelli che pare possano soddisfare le aspettative dei lettori: “Perché quest’ansia di semplificazione”, si domandava Frasca, “riguarda solo la narrativa letteraria?”. Nel frattempo il livello della cultura media si è vertiginosamente abbassato, ma l’impressione è che ciò non riguardi tanto o solo i fruitori, quanto i produttori stessi dei cosiddetti contenuti, con l’aggravante che questi ultimi ricevono opportunità in numero inversamente proporzionale alle loro qualità e ai loro titoli. Conduttori di programmi culturali che ignorano autori, cronologia, senso e pertinenza storica delle opere di cui sono chiamati a parlare, definiscono “frase” un verso, non sanno assolutamente nulla del presente letterario. Niente di grave, è divulgazione. Ma perché divulgare ciò che ai più non interessa sapere? Soprattutto, perché perpetuare l’equivoco che la comunicazione sia abbassamento dei codici, azzeramento delle gerarchie, livellamento delle competenze? Dilaga quell’aberrazione che Alain Deneault ha identificato con la mediocrazia, egemone a ogni livello, la politica, l’istruzione, la cultura: più ne sai, più devi far finta di no, andare di massime a pronta cassa, di slogan, di frasi brevi e comprensibili. Ascoltare Pasolini che parla in televisione o Sanguineti intervistato da Rossana Campo in oltre cinque ore di Abecedario è al contempo consolante e avvilente: perché dimenticare, oggi, che si scrive e si parla anche per chi vuole sapere, non solo per chi pretende la scorciatoia e la critica tweet form? Perché preferire per le terze pagine l’intrattenitrice sbarazzina dei social e per lo spazio dedicato ai libri in tivù una scrittrice pop e idiosincratica, del tutto digiuna di parametri estetici («questo romanzo ha una brutta copertina»), lasciando al contempo che i migliori critici delle ultime generazioni vengano relegati in spazi marginali e solo estemporaneamente riconvertiti in buffoni o ciarlatani a beneficio dell’audience?

Anni fa, dopo una tavola rotonda su Gomorra, una studentessa mi chiese come si diventa critico letterario. Non c’è in effetti un corso specifico, mentre ce ne sono per la moda – nelle facoltà di Lettere, non all’Accademia di belle arti- , per i media nuovi e vecchi e addirittura per la scrittura creativa (all’università). Non esistono corsi di critica, perché non esiste quasi più l’ambito disciplinare: il settore nei concorsi nazionali è accorpato ad altri, non ha dignità di sopravvivenza autonoma. Ma di cosa vive un’opera, se non del dialogo fra i lettori (e i primi lettori sono fatalmente i critici in senso ampio, cioè coloro che selezionano un testo a vari livelli, che lo scelgono per la pubblicazione, che ne parlano sui giornali, che lo citano ai convegni e così via)? Perché si considerano oggettivi i dati delle classifiche che rendono conto comunque di un campione ristretto e non ha più nessun tipo di udienza, riconoscibilità, utilità, la scrittura che costitutivamente dialoga con le opere, che le mette in relazione tra di loro e con il tempo in cui vengono prodotte, che le tramanda alle generazioni e a contesti diversi da quello di origine e di appartenenza, testando le possibilità o le capacità di oltrepassare confini e vincere resistenze? In un’epoca che sembra ormai antidiluviana George Steiner in Vere presenze lamentava che la letteratura cosiddetta secondaria avesse finito col soffocare le opere letterarie, che alle sterminate bibliografie sui massimi autori della tradizione occidentale non ci fosse da aggiungere molto e che si dovesse piuttosto tornare a leggere, a mettersi in diretto contatto coi testi. Un’emergenza di tutt’altro tipo è quella che chiede oggi al lettore di capire da solo come funziona un testo, di saperlo leggere, e di poterlo scegliere, nell’apparente libertà che gli regala il mercato, e in realtà nella conclamata evidenza che a decidere delle tirature non sia la qualità ma la possibilità di vendita. Come se Cannavacciuolo dovesse premiare un budino perché piace a tutti. E invece l’ultima edizione di Masterchef l’ha vinta il cuoco che ha creato un menu impossibile, con ingredienti pregiati e un’esecuzione funambolica. L’autore-cuoco si era subito segnalato come il più talentuoso, ma nemmeno in questo caso lo chef si è lasciato incantare da fattori estrinseci (la giovane età, l’esuberanza): hanno parlato i piatti. È pur vero che gli interventi critici restano una parte marginale del programma, sussurrati sullo sfondo, sfumati dalla regia: alla gente piace la gara. Ma chi l’ha detto, poi? Ne siamo sicuri? E chissà se invece, mentre diamo per definitivamente spacciati i direttori delle pagine culturali, non si possa salvare almeno Masterchef: meno inciuci e più analisi dei piatti. Se non serve, la critica, lasciatecela servire.

Web Analytics