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alessandrorobecchi

“Disintermediazione”: ti tolgo ancora diritti ma ti faccio sentire figo

di Alessandro Robecchi

Un fantasma si aggira per l’Italia. È il fantasma della “disintermediazione”. Parolina di moda per addetti ai lavori, un tempo, più che altro riguardante l’informazione: perché affidarsi alla mediazione di un organo di stampa quando invece ci si può informare sulla pagina Facebook di Gino, o Pino, o Sempronia? Perché leggere analisi e cronache quando il Capo ti sistema con un tweet tutto quello che c’è da sapere? Affascinante concetto. Matteo Renzi ne aveva fatto un suo cavallo di battaglia, naturalmente. Disintermediare, per lui, significava fare a meno dei corpi intermedi, sindacati in primis, che generano confusione, rallentano il paese, mettono in campo spossanti trattative, mentre il modello vincente sarebbe quello dei lavoratori che fanno accordi aziendali, magari singolarmente, qui la pecunia qui il cammello.

Ora ecco che con la disintermediazione sul posto di lavoro arriva il carico da undici del grillismo. Dal blog (quello di Genova, non quello di Rignano) arriva il disegno per le future relazioni industriali: basta con il sindacato, vecchio, incrostato, eccetera eccetera, e avanti con la disintermediazione, un luogo di sogno in cui in fabbrica, in ufficio, nel magazzino della logistica, a scuola e, insomma, in ogni posto in cui si scambi tempo-lavoro per salario, “uno vale uno”.

Immaginarsi la scena non costa niente: l’operaio del terzo turno che entra nell’ufficio di Marchionne disintermediando la segretaria e dice: “Oh, capo, oggi non mi va di montare i parabrezza alla Panda, venga giù lei a farlo”. Interessante, ma poco realistico, diciamo, non si sa se più vicino agli antichi sogni di un’ipotetica “autonomia operaia” o a quelli Dickensiani dei vecchi padroni del vapore, scegliete voi.

Naturalmente il concetto di disintermediazione, una volta portato alle estreme conseguenze, genererà un po’ di confusione. Perché affidarsi alla mediazione del chirurgo per quella dolorosa appendicite? Su, coraggio, disintermediate! Uno specchio, un coltello da cucina e fate da soli. Perché affidarsi alla mediazione del tranviere per andare da un posto all’altro della città? Basta disintermediare e guidare l’autobus un po’ per uno. Si potrebbe continuare all’infinito, ma insomma, il concetto è chiaro. Stupisce però che questa febbre da “disintermediazione” si alzi sempre quando si parla di lavoro e di sindacato. Che certo è un corpo intermedio con le sue lentezze e le sue “incrostazioni”, con tutte le sue magagne e difficoltà. E però stupisce questa voglia di “fare da sé”, di autoorganizzarsi, di “uno vale uno” proprio in un momento storico in cui chi lavora – chi abita le infinite varianti di un mondo del lavoro trasformato in giungla selvaggia – pare più indifeso che in passato, come ci insegna il Jobs act ( basta dare un’occhiata alle cifre dei licenziamenti “disciplinari”, così massicciamente sdoganati e prontamente attuati dalle aziende appena gliene è stata data l’occasione). Certo, il mondo del lavoro subisce (e ancor più subirà) notevoli scossoni, dalla tecnologia, dall’automazione e da altro ancora. Logica suggerirebbe quindi di rafforzare (e certo, migliorare, disincrostare, mi scuso per questo gergo da tecnico della lavatrice) i corpi intermedi che lo difendono, e non di mettere in campo un altro ostacolo al loro lavoro, che in questa fase storica è di difesa dei diritti, furbescamente confusi con privilegi, come se avere un posto di lavoro più o meno fisso fosse essere “casta”. Ora sarebbe lungo e noioso ripercorrere la storia del movimento dei lavoratori, ma è indubbio che i corpi intermedi (in italiano: i sindacati) abbiano detto la loro. Il sospetto, legittimo è che se i ragazzini di otto anni che a fine Ottocento lavoravano per dieci ore nelle filande (ancora Dickens e dintorni) avessero “disintermediato”, sarebbero ancora lì.

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