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conness precarie

Scene di lotta e di classe nell’America di Trump

di Felice Mometti

Dove sta ora la politica di Trump dopo il ridimensionamento di Steve Bannon e i lanci dei missili sulla Siria e della «madre di tutte le bombe»? Sta tra Bill Clinton e il kabuki giapponese. È la possibile risposta semiseria che meglio rispecchia l’attuale tragica imprevedibilità del tycoon newyorchese. A tre mesi dall’investitura di Trump, mesi decisivi secondo Bannon per dare l’impronta che avrebbe dovuto segnare il futuro, il bilancio non è certo positivo. I decreti razzisti non hanno avuto l’effetto previsto, l’Obamacare non è stato smantellato, la Nato non è più un ente inutile, la lobby delle multinazionali della green economy è più aggressiva che mai. Non si vede nemmeno l’avvio di una problematica de-globalizzazione. Piuttosto l’orientamento che si sta affermando sembra essere quello di una globalizzazione selettiva. Il punto di riferimento diventano i corridoi strategici della valorizzazione del capitale transnazionale dai quali irradiare sullo spazio economico-finanziario internazionale la messa a valore di strategie, protocolli, accordi bilaterali e catene di comando. La teoria di Bannon sulla «decostruzione dello Stato», che doveva fungere da stella polare dell’amministrazione americana, è stata ‒ almeno per ora ‒ accantonata. Il supporto popolare, la mobilitazione sociale come corollario necessario «dell’odio verso le élite» non hanno raggiunto i livelli sperati e anzi iniziavano a essere un boomerang politico. Gli Stati non si lasciano decostruire facilmente. L’insieme di rapporti sociali, di potere e di dominio che ne costituiscono allo stesso tempo l’essenza e il funzionamento sono profondamente radicati in gran parte della società americana e non bastano dei decreti attuativi per smantellarli. Certo alcuni effetti collaterali preoccupanti sono stati ottenuti. Un maggior senso di impunità da parte degli apparati repressivi statali e un razzismo istituzionale più esplicito. In questa situazione la presidenza Trump si stava infilando in un vicolo cieco e uno staff fragile e litigioso non è certamente all’altezza del rovesciamento istituzionale preannunciato. Niente a che vedere con quel monoblocco blindato della presidenza Obama che in otto anni ha subito solo la defezione importante del Procuratore generale Eric Holder dopo la rivolta di Ferguson. Quindi per Trump un cambio di direzione era più che mai necessario. Ma verso dove?

La strada che pare essere stata intrapresa, sia in politica estera che interna, porta alla presidenza di Bill Clinton. La storia a volte procede per paradossi: la politica degli avversari si rivela la più adatta per mettere in pratica la propria. Allargamento formale degli organi decisionali dell’Amministrazione, escalation militari controllate e triangolazioni politiche. Così si potrebbero riassumere i capisaldi della politica di Clinton presidente. Con una differenza, per Trump, di non poco conto: dietro Clinton c’era un partito democratico molto più coeso che l’attuale partito repubblicano e gli «incidenti» di qualsiasi natura, compresi quelli militari che possono avere effetti devastanti, sono sempre dietro l’angolo. Il tentativo di cambio di passo di Trump comunque per ora non sta dando risultati apprezzabili. Il coinvolgimento dei generali del Pentagono nell’ambito decisionale ristretto comporta dei prezzi da pagare per quanto riguarda il mantenimento delle alleanze politico-militari e l’aumento delle spese militari. La modalità del lancio, il numero e l’obiettivo dei missili sulla Siria come del resto la superbomba, rappresentano ancora scelte reversibili con risultati a dir poco controversi. La triangolazione politica di clintoniana memoria si reggeva sulla capacità di uno staff presidenziale in grado di porsi al di sopra del dibattito del Congresso e non veniva presentata come mediazione ma come sintesi, a prescindere che lo sia stata o no, superiore rispetto alle proposte e opzioni in campo.

Questo non si è visto ad esempio con la vicenda sulla copertura delle spese sanitarie. Paul Ryan, presidente repubblicano alla Camera dei Rappresentanti, ha cercato di istruire la discussione politica in modo da emergere alla fine come super partes tra coloro che volevano affossare l’Obamacare e quelli che volevano mantenerlo pur con qualche modifica. Operazione fallita per i veti incrociati all’interno dello stesso partito repubblicano. Uno scenario politico, con Bannon messo nell’angolo, che fa dire ad alcuni analisti politici americani che siamo di fronte a una sorta di rappresentazione teatrale del kabuki giapponese. Non esiste una sceneggiatura unitaria, le singole parti sono scritte separatamente e a emergere sono le capacità drammaturgiche dei singoli attori. Assisteremo, questa è la previsione, ad altri cambi di passo e di direzione della presidenza Trump. Intanto sta crescendo la mobilitazione in vista del primo maggio. Reti e associazioni come Cosecha, Fight for 15, Food Chain Workers Alliance, un settore del sindacato SEIU, International Women Strike stanno promuovendo una giornata senza migranti. E circola un appello sottoscritto da circa 400 docenti che invita a scioperare nelle Università lo stesso giorno. Certo è che dopo lo sciopero delle donne dell’8 marzo anche negli Stati Uniti è ripreso il dibattito su cosa significa usare lo sciopero come forma del conflitto e della soggettivazione politica.

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