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La spartizione della Siria tra Iran, Russia e Turchia

di Fulvio Scaglione

Tutto ciò che cerca di mettere un freno al massacro che in Siria procede da più di sei anni va accolto con favore, almeno con speranza. Questo ovviamente vale anche per le “zone di de-escalation” che sono state create nella provincia di Idlib, in parte delle province di Latakia, Homs, Hama e Aleppo, nell’area di Ghouta a Est di Damasco e al Sud, nelle province di Daraa e Quneitra presso il confine con la Giordania.

In queste zone (che dovranno a breve essere definite con più precisione) è stato avviato un cessate il fuoco che dovrebbe durare sei mesi più altri sei. Inoltre, in esse avranno accesso gli aiuti umanitari, i civili saranno protetti e con loro le relative attività economiche, o quel che ne è rimasto. L’aviazione siriana e quella russa, infine, hanno sospeso le loro incursioni. Il tutto è frutto di un accordo stipulato tra Turchia, Russia e Iran nei colloqui di Astana e rifiutato dai rappresentanti delle opposizioni armate a Bashar al-Assad, che di colpo hanno rovesciato le proprie posizioni: ora dicono che occorre difendere l’integrità territoriale della Siria e che qualunque tregua deve riguardare l’intero Paese.

Non c’è da stupirsi: molte di quelle formazioni erano nate proprio con la specifica missione di far tracollare la Siria di Assad come richiesto dalle petromonarchie del Golfo Persico e il rischio che la tregua funzioni e prenda piede è per loro un pericolo mortale. D’altra parte, proseguono senza sosta le battaglie tra ribelli “radicali” e ribelli “moderati”, che si ammazzano tra loro con grande intensità. A Ghouta, in pochi giorni, si sono avuti 150 morti, con quelli di Hayat Tahrir al-Sham (Al Qaeda o simili) impegnati anche a fucilare alcuni comandanti militari di  Jaysh al-Islam (salafiti).

Detto questo, non si può non riconoscere che il progetto delle “zone di de-escalation” somiglia molto a un progetto di spartizione della Siria in aree di influenza tra potenze straniere. L’Iran mette un’ipoteca sul confine con il Libano e sui rapporti con Hezbollah. La Russia fa altrettanto sulla direttrice Aleppo-Damasco, fondamentale per le sorti del Paese. La Turchia di Recep Erdogan, che tanto aveva puntato sul crollo di Assad trasformandosi per anni nel centro di smistamento dei foreign fighters e dei traffici illeciti (petrolio, armi, antichità, rifornimenti), limita i danni di una sconfitta evidente e si assicura un controllo sulle aree del Nord popolate dai curdi e una base per manovrare contro l’ipotesi che Raqqa, la capitale del Califfato, sia riconquistata dalle milizie dell’YPG, le Unità di Difesa del Popolo Curdo.

Le spartizioni sono sempre spartizioni, chiunque le organizzi. E questa di Iran-Russia-Turchia non è molto diversa da quella che da molti anni americani e inglesi immaginano per l’Iraq, che dovrebbe essere spaccato in tre parti da destinare a sciiti, sunniti e curdi. Questi ultimi, peraltro, si sono portati avanti, minacciando con sempre maggiore convinzione un referendum per sancire  il distacco del Kurdistan dal Governo centrale di Baghdad.

La prospettiva si fa ancor più preoccupante perché il patto relativo alle “zone di de-escalation” è il frutto evidente di una specie di sotterranea intesa tra Usa e Russia, partita con il famoso bombardamento americano sulla base aerea siriana “colpevole” di aver lanciato l’attacco chimico contro la città di Khan Shaykhun. Donald Trump fece lanciare i missili per metà fuori bersaglio e dopo aver avvisato i russi. Anche l’accordo di Astana è arrivato dopo che Trump e Vladimir Putin si erano appena scambiati la terza telefonata della loro coabitazione sulla scena mondiale.

Questa porta a pensare due cose. Una ormai evidente: Trump vuole immischiarsi il meno possibile nelle cose siriane e sta più o meno traccheggiando, con qualche simbolica manifestazione di forza, in attesa che la Russia trovi una qualche soluzione a quel sanguinoso pasticcio. Trump, inoltre, sta per recarsi in visita ufficiale di Stato (la prima della sua presidenza) in Arabia Saudita, dove potrebbe mettere una buona parola per tirare il freno ai jihadisti pagati dai petrolieri del Golfo.

La seconda è questa: non è che tra una telefonata e l’altra Trump e Putin si stanno mettendo d’accordo per spartire sia la Siria sia l’Iraq, la prima a beneficio di Mosca e alleati, il secondo a beneficio di Washington e annessi e connessi?

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