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Il crack della finanza navale: “Tempesta perfetta sui mari”

di I Diavoli

Il mare come simbolo della globalizzazione, l'economia del container, la crisi sistemica, le gravi falle del sistema di trasporto sulle navi: Sergio Bologna esplora la "perfect storm" nel suo ultimo libro "Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale"

Il mare resta lo spazio cruciale della globalizzazione… Il sistema di fabbrica non è più concentrato nel mondo sviluppato ma è diventato mobile e diffuso. Mentre le navi assomigliano sempre più a edifici, a giganteschi magazzini galleggianti della distribuzione “just-in-time”, le fabbriche assomigliano sempre più a natanti che s’aggirano furtivamente alla perenne ricerca di forza lavoro a buon mercato. [Allan Sekula e Noël Burch, The forgotten space, 2010].

A ormai un decennio dalla crisi che ha investito i mutui subprime del settore immobiliare, un’altra bolla finanziaria, quella degli investimenti in naviglio, si sta sgonfiando e attira nel suo rovinoso vortice migliaia di investitori e operatori, pubblici e privati. Sul tema, i cui riflessi colpiscono tutti molto più di quanto non sembri – dalla qualità delle merci e del lavoro a quella della sicurezza in mare – grava un silenzio assordante e colpevole da parte di quasi tutti i media mainstream.

Di contro, Sergio Bologna, nel suo ultimo libro Tempesta perfetta sui mari (DeriveApprodi, 2017), indaga con lucidità e perizia critica questa nuova allarmante crisi di settore.

“Gli analisti lo aspettavano da tempo e finalmente è arrivato, il perfect storm. A guardarlo un po’ da vicino è uno spettacolo sconvolgente ma affascinante, perché con un colpo d’occhio ti permette di vedere l’essenza della logistica, la sua vera natura, capisci perché la chiamano the physical internet, ti rendi conto di cos’è la globalizzazione”.

 

Il paradigma del container

Il libro si apre con un focus sul fallimento di una delle più grandi compagnie di trasporto marittimo: la Hanjin-Shipping. Le portacontainer della Hanjin, ricostruisce con puntualità Bologna, sono oggi sparse in tutto il mondo e molte sono alla fonda davanti un porto, che aspettano la delibera di una corte giuridica stretta tra la decisione di accordare le richieste ai creditori non pagati – che insistono per il sequestro –, e quella di assecondare le proteste della miriade di spedizionieri che reclamano la loro merce.

La bancarotta della Hanjin, sommata a quella di altre compagne del “Far-Est” – quali la Cosco, la Nippon Yusei Kaisha, la K-Line, la Hyundai Mechant Marine, la Daewoo o ancora la Stx –, ci dà cognizione di quanto il capitalismo asiatico, nonostante la sua parvenza di sostenibilità dovuta agli ingenti coadiuvanti statali, abbia nei fatti inglobato e ingrandito tutte le tare del capitalismo occidentale.

Nondimeno è accaduto, e accade, nelle restanti parti del globo. Dopo il focus sulle compagnie asiatiche, infatti, lo sguardo analitico si apre ad una panoramica ad ampio raggio, internazionale, che va dai porti della west-cost – Long Beach, Los Angeles, Oakland – e arriva – passando per il Mediterraneo – fino al cuore europeo di Felixstowe, nel Regno Unito, dove una catasta di oltre 10.000 container vuoti rende inagibile l’area portuale, e si presenta come un perfetto exemplum della crisi totale che investe la catena logistica del trasporto.

Mediterraneo, invece, significa anche e soprattutto Italia. È il caso di Venezia, per citarne soltanto uno, che senza dubbio si impone come campione conclamato del malfunzionamento che soggiace alla crisi sistemica e che, Bologna e con lui altri esperti e studiosi di questo ambito, individuano nel miope “paradigma del container”: ossia quella gestione scellerata per cui «l’intero ciclo operativo dovesse rientrare nei vincoli imposti da quello scatolone che si chiama “container”».

 

La finanza navale e la bolla dello “shipping”

Questa “policy del container” si è rilevata una catena stringente e fallimentare, spiega Bologna, in quanto se da un lato inseguiva un’idea di progresso permettendo l’industrializzazione massiccia del settore, dall’altro concedeva campo a una standardizzazione vorace che tagliava fuori ogni altra iniziativa interna – nei vari livelli della filiera – esterna – della piccola e media imprenditoria.

Il risultato è stato di conferire al prezzo di mercato l’unico e totalitario ruolo di differenziazione del servizio, spalancando le porte a quella che oggi è una vera e propria esplosione della bolla finanziaria dello shipping. Come invertire la rotta?

All’invettiva che Bologna scaglia contro Venezia, fa da controcanto il circolo virtuoso del Porto di Trieste che, secondo l’autore, si configura oggi come un modello interessante, da seguire, dal punto di vista dei collegamenti e dell’organizzazione lavorativa, in quanto punta – attraverso l’organo dell’Agenzia del Lavoro del porto – a costruire un fitto dialogo tra tutte le componenti della filiera dello shipping e l’intera comunità cittadina: «I terminalisti, i sindacati e i lavoratori, vorrei dire la città, hanno condiviso il percorso», dichiara Mario Sommariva, segretario del porto, nella lunga e articolata intervista in appendice al libro.

Dietro le quinte dello shipping, infatti, quasi fossero relegati in un’immensa e buia stiva dell’info-sfera, ci sono donne e uomini dalla cui «forza lavoro invisibile noi tutti dipendiamo». Sono ufficiali di macchina, allievi ufficiali di rotta, marinai che rinforzano i rizzaggi, cuochi e camerieri che sfamano il personale di bordo, meccanici che sferzano martellate sui bulloni deputati a tenere salde le tubature, tutta una working-class internazionale di cui poco sappiamo ma che esiste, e a cui Bologna cerca di dar voce.

Nonostante questo il libro, giocoforza ma proprio per non lasciare attenuanti ai “vertici”, si concentra – nelle sue parti analitiche – sulle figure di finanzieri e progettisti, cioè di chi decide e determina, dall’alto, la strutturazione di quel complesso sistema che è lo shipping.

 

Trading ships not cargo

La seconda parte del volume insiste ancora sulla grande fragilità sistemica che, prendendo a prestito le parole dell’economista marittimo Martin Stopford – un cognome, un programma, se la suggestione ci riporta al collasso della catena fordista –, è sintetizzabile nella massima «trading ships not cargo».

Se prima il mestiere dell’armatore, spiega Bologna, era tarato su un’autonomia d’impresa basata sul classico canone della domanda e dell’offerta, con il divenire storico è sopraggiunta la navigazione di linea che ha strutturato questo campo di investimenti lungo le diverse trade lines e poi, incrementata dal “gigantismo navale” delle enormi e fagocitanti compagnie, ha prodotto un cortocircuito per cui non è più neanche la domanda di merce a determinare le opzioni dell’offerta di stiva, anzi, «la merce o, meglio, il volume, il carico – di qui “not cargo”, ndr – sono diventati elementi secondari delle scelte d’investimento».

Il risultato, prosegue Bologna, è un copione che si ripete siglato da volumi che crescono di poco e movimentazioni portuali che, invece, crescono a livello frenetico ed esponenziale per via della forsennata attività di transhipment. Se, come dice Stopford, non si riusciranno a mettere in relazione critica ciclo economico, ciclo del trade e ciclo della cantieristica, sarà difficile se non impossibile scartare da questo abisso.

Il libro, nelle battute finali, torna a dar voce all’invisibile forza lavoro e al problema connesso della sicurezza sulle navi e nei porti. Una serie di incidenti, che vanno da quello del Norman Atlantic a quello nostrano della Concordia, vengono ricostruiti e analizzati alla luce di nuove proposte sulla safety internazionale senza risparmiare invettive contro l’irresponsabile retorica del fatalismo e dell’errore umano.

In questo senso, Tempesta perfetta sui mari ribadisce – con un’argomentazione articolata e una cognizione di causa propria di un “insider” del settore come lo è l’autore –, che il problema è atavico e strutturale e va ricercato, come sempre nella storia, nelle determinazioni economiche: «è percepibile a occhio nudo “una certa degenerazione nella cultura e nei comportamenti del cluster marittimo-portuale, un qualcosa che soltanto dieci anni fa non era così evidente e così pervasivo».

Quando Guido Maria Brera, autore insieme a Edoardo Nesi della recente pubblicazione Tutto è in frantumi e danza (La Nave di Teseo, 2017), insiste nel dire che il vero dramma, da stigmatizzare, non è la finanza in sé ma la finanza che diventa politica, o meglio: la politica che diventa braccio “armato” della finanza, coglie nel segno. E lo fa sullo stesso solco di analisi e critica di Sergio Bologna che, in questo libro, porta a galla, quasi fossero le gigantesche navi protagoniste del suo racconto, tutte le pesanti contraddizioni della globalizzazione e del relativo collasso sistemico che ne è scaturito.

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