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Istat: la classe operaia c’è ma non sa di esserlo

di Checchino Antonini

Nel rapporto annuale il film di un paese sempre più povero e disuguale. Perdità dell’identità di classe. Dinamiche sociali determinate dalla doppia assenza di partito e sindacato

“Scompaiono la classe operaia e la piccola borghesia, aumentano le disuguaglianze”: il titolo del giornale più letto in Italia non lascia scampo alle interpretazioni, si dice che l’Istat avrebbe detto che è sparita la classe operaia. In realtà il Rapporto annuale dell’istituto nazionale di statistica dice ben altro e lo leggeremo insieme. Dice, ad esempio, che le dinamiche della crisi e del mercato del lavoro stanno aumentando la disuguaglianza, che la mobilità sociale è una chimera, che le donne sono più sfruttate degli uomini, che la povertà si espande, che i giovani non hanno futuro se non i figli di papà.

E la classe operaia non conta più, tutt’altro che sparita, non riesce a incidere sulla propria condizione. Succede, così recita il rapporto, perché c’è una «perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi».

Ma allora perché quel titolo? Perché più il capitalismo è nudo – come in questo scorcio di ventunesimo secolo – più lo storytelling, ossia la narrazione, l’ideologia, prova a rivestirlo. Anche perché quel giornale ha avuto un ruolo chiave nella diffusione di tutte le fake news sul “nuovo che avanza”.

Come spiegano bene i Clash City Workers nel loro “Dove sono i nostri” (La Casa Usher, 2014): “Qualsiasi cosa siate, è anche probabile che vi sentiate soli, che vi sentiate pochi, che non vi sentiate parte di qualcosa di più grande, di una storia che viene da lontano e va da qualche parte”. O che vi sentiate parte di una storia inventata apposta per farvi accettare come eterno e immutabile lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Decostruire la classe, impedire che gli sfruttati si riconoscano e si organizzino, è da sempre una delle preoccupazioni principali della borghesia. “Senza le classi, restano in campo solo gli individui”, avvisava lo stesso Marx ormai 165 anni fa. Ed è quello che sembra oggi nell’Occidente sviluppato. Lavoratori che si sentono talmente soli da finire in preda ai populismi, ai sovranismi, alle piccole patrie, alle fasulle meritocrazie, che non sono altro che forme di solidarietà “verticale” e fittizia tra settori di servi e rispettivi padroni.

Quando le cose andavano bene, la vulgata puntava a costruire il mito sulla classe media che si espandeva sempre più. Anche Gad Lerner, lanciando una recentissima inchiesta televisiva, ha detto all’incirca, che si tratta di un viaggio nella “classe che non doveva più esistere”. Secondo noi, la classe operaia non doveva scomparire, doveva prendere il potere!

Secondo i dati della Banca Mondiale, che abbiamo inserito nei materiali del nostro seminario programmatico del 2016, il lavoro salariato, ovvero chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro per lavorare e vivere, continua a crescere impetuosamente. Al tempo stesso, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia delle Nazioni Unite, stima che quasi la metà dei lavoratori e delle lavoratrici su scala globale “non possano tuttora soddisfare i bisogni di base e non abbiano accesso a un lavoro dignitoso”. Inoltre, sempre secondo i dati dell’ILO i disoccupati si contano in 201 milioni di unità (6% circa del totale), destinati a crescere di 11 milioni di unità (al 6,3% circa) fino al 2019. Proprio quello che l’Istat registra per l’Italia: scendono gli occupati ma la classe lavoratrice in Italia mantiene ancora una notevole forza strutturale. Sono oltre 6 milioni i lavoratori e le lavoratrici che hanno le mansioni da operaio nell’industria ma anche nel terziario. Se aggiungiamo i disoccupati e Neet (5 milioni), gli studenti (medi ed universitari sono oltre i 4 milioni), i pensionati 16.668.000 (il 46,3% ha un reddito da pensione inferiore ai mille euro, solo il 5% ha un reddito superiore ai 3 mila euro al mese), possiamo ipotizzare un blocco sociale potenzialmente maggioritario.

Il problema è nella percezione di sé, nella soggettività, nella frammentazione indotta dalla pletora di contratti di categoria e, al loro interno, dalle molteplici forme di sfruttamento immaginate da chi ha compilato le controriforme del mercato del lavoro, dai contratti di formazione lavoro della metà degli anni ’80 fino al Jobs act di Renzi, passando per il pacchetto Treu, la legge “Biagi” e i ritocchi di Prodi e Monti.

E, se parliamo di soggettività, non dobbiamo dimenticare di denunciare la doppia assenza che esiste nel nostro paese, cioè sindacato e partito, che agisce sui livelli di coscenza di un movimento operaio, sconfitto, disgregato e parcellizzato, privo di un sindacato degno di questo nome e di un partito di classe che abbia un minimo di influenza a livello di massa.

Ecco dunque, i numeri del rapporto Istat.

PIÙ DISUGUAGLIANZE, CLASSI SOCIALI ‘ESPLODONO’

«La diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi», si legge nel Rapporto che traccia una mappa socio-economica dell’Italia, aggiornando i modelli tradizionali con schemi «multidimensionali». Per l’Istat «la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse». La classe operaia e il ceto medio «sono sempre state le più radicate nella struttura produttiva del nostro Paese» ma «oggi la prima – osserva l’Istat – ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell’evoluzione sociale». Si assiste quindi a una «perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi». Per l’Istituto ci sono interi segmenti di popolazione che «non rientrano più nelle classiche partizioni: giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori, stranieri di prima generazione cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito, una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta – sottolinea l’Istituto – anche al progressivo invecchiamento della popolazione». Ecco che nella nuova geografia dell’Istat «la classe operaia», che «ha perso il suo connotato univoco», si ritrova «per quasi la metà dei casi nel gruppo dei ‘giovani blue-collar’», composto da molte coppie senza figli, e «per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri». Anche la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali, in particolare «tra le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia». Secondo l’Istituto «la classe media impiegatizia è invece ben rappresentabile nella società italiana, ricadendo per l’83,5% nelle ‘famiglie di impiegati’».

3,6 MILIONI FAMIGLIE SENZA REDDITI DA LAVORO 

In Italia nel 2016 si contano circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro, ovvero dove non ci sono occupati o pensionati da lavoro. Si tratta del 13,9% del totale, con la percentuale più alta che si registra nel Mezzogiorno (22,2%) Si tratta di tutti nuclei ‘jobless’ dove si va avanti grazie a rendite diverse, affitti o aiuti sociali. Nel 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila, il 13,2% del totale.

ITALIA PAESE DI IMPIEGATI E PENSIONATI 

L’Istat traccia una nuova mappa socio-economica dell’Italia, dividendo il Paese in nove gruppi in base al reddito, al titolo di studio, alla cittadinanza e non guardando così più solo alla professione, come nelle tradizionali classificazioni. I due sottoinsiemi più numerosi sono quelli delle ‘famiglie di impiegati’, appartenenti alla fascia benestante (4,6 milioni di nuclei per un totale di 12,2 milioni di persone) e delle ‘famiglie degli operai in pensione’, fascia a reddito medio (5,8 milioni per un totale di oltre 10,5 milioni di persone). Per l’Istat il gruppo più svantaggiato economicamente è quello delle ‘famiglie a basso reddito con stranieri’ (1,8 milioni pari a 4,7 milioni di persone), seguono le ‘famiglie a basso reddito di soli italianì (1,9 milioni che comprendono 8,3 milioni di soggetti), le meno numerose ‘famiglie tradizionali della provincia’ e il gruppo che riunisce ‘anziane sole e giovani disoccupati’. A reddito medio sono invece considerate oltre alle famiglie di operai in pensione, quelle di ‘giovani blu collar’ (2,9 milioni, pari a 6,2 milioni di persone). Nell’area dei benestanti, l’Istat inserisce oltre alle ‘famiglie di impiegatì, quelle etichettate ‘pensioni d’argento’ (2,4 milioni, per 5,2 milioni di persone). Il primo posto sul podio dei più ricchi spetta alla ‘classe dirigente’ (1,8 milioni di famiglie, pari a 4,6 milioni di persone). L’Istat fa notare come nel gruppo leader dal punto di vista numerico, quello degli impiegati, il capofamiglia, la persona di riferimento, sia donna in quattro casi su dieci. La nuova mappa nasce dall’esigenza di tenere conto anche della popolazione non occupata, a differenza delle classiche tassonomie che prendono in considerazione solo i lavoratori, e soprattutto dalla necessità di ricalibrare le stratificazioni socio-economiche, viste le frammentazioni in atto. Oggi infatti, fa notare l’Istituto, la «classe operaia ha perso il suo connotato univoco» e «la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali.

CASALINGHE LAVORANO QUASI 50 ORE A SETTIMANA

Le casalinghe «con il loro lavoro producono beni e servizi per 49 ore a settimana». Guardando agli occupati, ovvero a quanti svolgono sia il lavoro retribuito che familiare, le donne superano le 57 ore mentre gli uomini le 51. Tra casa e lavoro è quindi evidente il carico in più per le donne.

6,4MLN DI PERSONE NON HANNO UN LAVORO MA LO VORREBBERO

Nel 2016 «se si sommano i disoccupati e le forze di lavoro potenziali, le persone che vorrebbero lavorare ammontano a poco meno di 6,4 milioni». Si tratta quindi di tutti coloro che aspirano a un impiego pur non cercando attivamente un’occupazione. Nel 2015 il dato era un pò più alto: oltrepassava i 6,5 milioni.

RISALE INDICE DISAGIO ECONOMICO,COLPITI GENITORI SOLI

«Risale l’indicatore di grave deprivazione materiale»: dopo essere sceso nel 2015 all’11,5% nel 2015 si riporta all’11,9%. La misura del disagio economico si conferma elevata per le famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro (il 35,8% è in grave deprivazione), o con un’occupazione part time (16,9%). Inoltre l’Istat definisce «particolarmente critica la condizione dei genitori soli, soprattutto se hanno figli minori». In generale, l’Istituto parla di una «modesta performance» per l’Italia, che «nel corso degli anni Duemila (il Pil è cresciuto meno che negli altri paesi europei) è da ricercare in una prolungata stagnazione della produttività. Il ritardo che l’Italia ha accumulato su entrambi i terreni è ampio: nel periodo 2000-2014 la produttività totale dei fattori è diminuita del 6,2%, il Pil pro capite del 7,1%».

ITALIA ANCORA MAGLIA NERA IN UE PER GIOVANI NEET

In Italia i Neet, acronimo inglese che sta per giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, sono scesi a 2,2 milioni nel 2016, con un’incidenza che passa al 24,3% dal 25,7% dell’anno prima. Nonostante il calo si tratta ancora della quota «più elevata tra i paesi dell’Unione» europea, dove la media si ferma al 14,2%.

QUASI 7 UNDER35 SU 10 ANCORA A CASA GENITORI 

Quasi sette giovani under35 su dieci vivono ancora nella famiglia di origine. Lo rileva l’Istat nel Rapporto annuale. L’Istituto spiega che nel 2016 i 15-34enni che stanno a casa dei genitori sono precisamente il 68,1% dei coetanei, corrispondenti a 8,6 milioni di individui.

ISTAT: SU TITOLO STUDIO PESA EREDITÀ, CONTA LIVELLO GENITORI (ANSA)

Il titolo d’istruzione sembra essere una questione d’eredità: «il 40% dei figli in famiglie con un livello d’istruzione basso non va oltre la licenza media, mentre poco più di uno su dieci riesce a ottenere un titolo universitario». «All’opposto, l’incidenza dei titoli di licenza media – spiega – è meno del 4% tra i figli dei laureati che hanno un titolo di studio universitario in oltre il 60% dei casi».

SPESA FAMIGLIE PIÙ RICCHE DOPPIA RISPETTO PIÙ POVERE

La spesa per consumi delle famiglie ricche, della ‘classe dirigente’, è più che doppia rispetto a quella dei nuclei all’ultimo gradino della piramide disegnata dall’Istat, ovvero ‘le famiglie a basso reddito con stranierì. È quanto si legge nel Rapporto annuale dell’Istituto, che per le prime rileva esborsi mensili pari a 3.810 euro, contro i 1.697 delle fascia più svantaggiata economicamente. Una capacità di spesa ridotta significa anche meno opportunità. «Malgrado una maggiore partecipazione al sistema di istruzione delle nuove generazioni dei gruppi svantaggiati rispetto a quelle più anziane, le differenze sono ancora significative», fa notare l’Istat. Ecco che «i giovani con professioni qualificate sono il 7,4% nelle famiglie a basso reddito con stranieri e il 63,1% nella classe dirigente». Le fratture che caratterizzano il Paese vengono confermate: «persiste il dualismo territoriale: nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati». D’altra parte, spiega il Rapporto, «la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è in Italia tra le più basse in Europa».

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