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micromega

Macron e la guerra di classe dall'alto dei nuovi lib-lab europei

di Carlo Formenti

Esauritosi il coro di sospiri di sollievo con cui i galoppini del pensiero unico liberista hanno salutato la vittoria – tanto annunciata quanto scontata – di Macron contro il – presunto quanto acconciamente gonfiato – pericolo fascista incarnato da Marine Le Pen, qualche voce più avvertita comincia a levarsi anche nel campo dei vincitori per fare presente che, certo – dopo le batoste della Brexit, di Trump e del referendum anti Renzi – le elezioni presidenziali francesi hanno marcato un’inversione di tendenza, ma, al tempo stesso, nessuno dei problemi che hanno alimentato l’ondata populista appare risolto, e l’idea di tornare a gestirli con piglio da business as usual è pura follia.

E il caso, fra gli altri, di un interessante editoriale firmato da Dario Di Vico sul Corriere del 13 maggio. Reso a sua volta omaggio al ritorno in campo dei Lib-lab; Di Vico ammonisce che “il cantiere del restauro della Terza Via non può rimanere aperto all’infinito così come non si può vivere da eterni vedovi di un Tony Blair”. Non si può, spiega subito dopo, perché l’immaginario sui “meriti” della globalizzazione è ormai seriamente usurato, al punto che la misurazione del consenso politico (arte in cui le élite , di recente, non si sono dimostrate sempre all’altezza) appare “più influenzata dal sentimento di retrocessione covato dall’uomo comune occidentale che dalla riconoscenza dei contadini cinesi sottratti alla povertà” (sottratti alla povertà della campagna ma precipitati negli inferni industriali in stile Foxconn, sarebbe forse il caso di ricordare). Per cui, aggiunge, il rischio che la bandiera della giustizia sociale resti saldamente in mano populista è tutt’altro che remoto.

Che il “format” politico della Terza Via non sia più efficace come un tempo, ammette poi Di Vico, dipende dal fatto che “il cuore della narrativa liberal”, vale a dire il mito della mobilità sociale, gode di pessima salute perché “non sappiamo dove si stiano dirigendo i mercati del lavoro e non sappiamo nemmeno se la riorganizzazione delle imprese favorirà la creazione di <<piani alti>> da raggiungere con l’ascensore sociale. Sappiamo invece con certezza che il capitalismo delle piattaforme digitali accrescerà il peso della gig economy e del lavoro alla spina, che non rappresenta certo una risposta alla domanda di mobilità verso l’alto”.

Ammirevole lucidità (che bello se anche certi imbecilli “di sinistra” di vecchio e nuovo conio ne fossero dotati!) che però non induce Di Vico a cambiare il lato della barricata. Al contrario: la parte conclusiva dell’articolo indica con durezza la via da seguire per proseguire e vincere la “guerra di classe dall’alto” contro le classi subalterne nelle nuove condizioni dettate dalla crisi. Macron? Ben venga la sua vittoria, ma stia attento a non coltivare il vecchio vizio “statalista” (e l’eccessiva fiducia nella forza della politica) tipico dei francesi: che non gli venga in mente di coltivare costose idee come il reddito universale di cittadinanza o la riduzione dell’orario di lavoro per ottenere il consenso degli elettori tentati dal populismo. Le risposte ai nuovi problemi “andranno trovate sul mercato”, coinvolgendo i lavoratori nella gestione dell’imprese o – per restare in tema di cultura politica – contaminando la cultura liberal “con la cultura cattolica più attenta al mutamento sociale”. Traduzione: Macron continui ad essere un solerte valletto della Merkel in materia di tagli alla spesa pubblica e distruzione del welfare, e confidi nella pietas cristiana per assistere le vittime del massacro sociale.

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