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Istinti socialisti o istinti meritocratici?

Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli

Si parla tanto di disuguaglianze. Da una parte ci sono quelli che dicono che le disuguaglianze sono uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. Dall’altra ci sono quelli secondo cui i problemi sono ben altri, e secondo cui il dibattito sulle disuguaglianze è una distrazione. Un recente articolo dello psicologo americano Paul Bloom ha suscitato interesse perché ci dice qualcosa sulle opinioni delle persone a proposito di disuguaglianze.

Alcuni dati sperimentali, ottenuti in laboratorio usando semplici giochi economici, sembrano mostrare che la maggior parte delle persone preferiscano l’uguaglianza alla disuguaglianza, e siano anche disposte a sobbarcarsi dei piccoli costi per punire gli ingordi e assicurarsi che le risorse a disposizione di un gruppo vengano distribuite in maniera più egualitaria. Altri dati però, ottenuti tramite sondaggi e questionari, sembrano suggerire invece che alle persone non piacciano livelli di disuguaglianza troppo alti ma neanche livelli di disuguaglianza troppo bassi.

Bloom e colleghi argomentano che questi dati apparentemente contrastanti si possano in realtà riconciliare: ciò a cui la gente tiene veramente non è l'uguaglianza ma piuttosto l’economic fairness, ossia che ognuno riceva ciò che giustamente gli spetta. In alcuni contesti ristretti, come alcuni giochi da laboratorio, l’intuizione comune è che tutti i partecipanti meritino di ottenere la stessa ricompensa. Mentre nel mondo reale, l’intuizione comune è che sia giusto ed equo che alcuni abbiano più di altri, perché alcuni hanno più talento e lavorano più duramente di altri, e quindi meritano di più.

La teoria di Bloom pare confermata da coloro che pensano (spesso sbagliandosi) che la società in cui vivono abbia un alto livello di mobilità sociale. Queste persone sono più propense ad accettare alti livelli di disuguaglianza. Verosimilmente ciò avviene perché credono che le disuguaglianze che li circondano siano prevalentemente diseguaglianze giuste, il risultato del merito di ognuno e non di processi iniqui. Si pensi per esempio a quegli americani che continuano testardamente a credere nell’American dream e ad accettare livelli di disuguaglianza di molto superiori a quelli di altri paesi.

Bloom ipotizza che alle persone non dispiacciano le disuguaglianze in quanto tali e che gli esseri umani in generale non siano dei natural-born socialists. Ma se gli istinti socialisti ed egualitari non fanno parte della natura umana, dobbiamo allora pensare che gli istinti meritocratici ne facciano parte? Niente affatto.

I dati mostrano che per alcune persone e per alcune culture le differenze che hanno a che fare con il talento e l’impegno possono giustificare disuguaglianze molto grandi; mentre per altre persone e altre culture le differenze che hanno a che fare con il talento e l’impegno possono giustificare solo disuguaglianze contenute. Il caso limite è quello di alcune società pre-agricole, dove vi erano sì differenze di merito e impegno ma, per motivi economici, le disuguaglianze socialmente accettate erano pressoché nulle.

Inoltre talento e impegno non sono gli unici fattori a distinguere tra disuguaglianze percepite come giuste e disuguaglianze percepite come ingiuste. Per esempio, in culture “aristocratiche” sembra diffusa la credenza che l’appartenenza ad alcune famiglie “altolocate” possa di per sé giustificare alcune disuguaglianze. E in culture “caritatevoli” è comune l'intuizione che i poveri vadano aiutati economicamente anche quando non se lo meritano, ossia indipendentemente dalle loro capacità e dal loro impegno.

Sebbene alcuni dei meccanismi psicologici in questione siano universali e pan-culturali, non esistono né istinti universali propriamente socialisti né istinti universali propriamente meritocratici, perlomeno non in senso stretto. Entro certi limiti, le opinioni su ciò che giustamente spetta ad ognuno variano nel tempo e nello spazio.

C’è da dire che queste opinioni possono essere più o meno adeguate in relazione al sistema economico esistente, e più o meno adatte a trasformare e migliorare tale sistema economico. È possibile per esempio che il tipo di preferenze meritocratiche diffuse oggigiorno siano universalmente benefiche e che continuino ad esserlo in futuro. O al contrario è possibile che esse generino forme distruttive di disuguaglianza e che sia arrivato il momento di promuovere preferenze diverse.

Comunque sia, sbaglia chi cerca di usare i risultati psicologici per argomentare contro quelli secondo cui bisogna porre urgente rimedio ad alcune forme di disuguaglianza emerse nel mondo contemporaneo. È necessario valutare gli effetti di queste disuguaglianze indipendentemente dalla percezione che se ne ha. E sarebbe auspicabile provare a diffondere nuovi “istinti”, meritocratici o meno, ma che in ogni caso risultino, nel contesto globalizzato e tecnologizzato in cui ci troviamo a vivere, in politiche a favore della prosperità di tutti.

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