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La grande partita

di Alessandro Visalli

Nel commento dell’articolo di Piotr, su “Sinistrainrete”, “America anno zero”, che era stato pubblicato a febbraio, l’elezione di Trump (che fa seguito alla rottura della Brexit) è interpretata come un passaggio di fase storico, un incrinarsi della globalizzazione e dei meta racconti che vi erano proiettati. Ma anche l’evidenza della fase forse terminale della crisi sistemica del sistema-mondo dominato dall’America. Il richiamo era allo schema esplicativo di Giovanni Arrighi, con la sua opposizione tra “logica territorialista” e “logica capitalistica”, dall’espansione (TDT’) rivolta all’accrescimento dei beni materiali a quella (DTD’) rivolta all’accrescimento del capitale. Ciò accadrebbe quando lo stato di sviluppo delle forze produttive in competizione le une verso le altre porta ad una riduzione del saggio di profitto tale da implicare un “disimpegno” (o, nei termini di Streeck, uno “sciopero”). A questo punto gli agenti economici, utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, spostano gli investimenti sul terreno finanziario e questo si espande in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è una cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi per l’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”.

Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale).

Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica.

In questa fase si sarebbe ad un punto di biforcazione intrinsecamente instabile, in cui diversi agenti e network organizzativi competono per attrarre capitali e risorse, incluso risorse di autorità e forme di legittimazione, verso schemi concorrenti. Intanto tra le due logiche dell’espansione produttiva, con relativi effetti di consenso su cui la campagna di Trump ha fatto particolarmente leva, commerciale, che rappresenta il punto più evidente di attacco (cfr. anche la recente intervista per The Economist), finanziaria (ovvero del mero capitale). È uno scontro tra proposte egemoniche nella quale la terza, fino ad ora dominante, viene sfidata. Tutte queste proposte egemoniche sono incarnate in parzialmente diversi network di tecnici (con relativi saperi), agenti, capitali (“vivi” e “morti”, fissi o mobili), istituzioni, luoghi, che determinano strutture a diverso radicamento.

Fino a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.

Questi ultimi sia dall’alto come dal basso, non necessariamente per gli stessi fini (anzi, in genere per opposti).

Trump in questa interpretazione, che bisognerà mettere alla prova, sarebbe stato eletto da un network in formazione, ma dotato di potenti agganci di potere e in sincronia affettiva con una potente corrente sociale, per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo dalla quale dipende la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma. Quindi:

-        Restringere le catene logistiche bisognose di protezione,

-        Ridurre drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio,

-        Rinegoziare il multilateralismo e quindi i margini di autonomia economica degli attori principali (USA, Europa in via di disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),

-        Per ottenere tutto questo e rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, reindustrializzare e quindi ribilanciare il commercio.

Questo rivolgimento presuppone la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque l’affermazione della “logica territorialista” alla scala opportuna. Vedremo che su questo punto ci sono diverse ipotesi nella letteratura geostrategica che ora leggeremo. Nella “grande partita” potrebbero nascere delle scacchiere macroregionali.

Il quadrilatero di potere sul quale ruota la partita è quello che vede gli USA, estrattivi ed imperiali, da una parte, l’arena europea in via di costante ridefinizione, aspirante egemone con diverse forze riluttanti ed altre ribelli, dall’altra, il vecchio rivale russo, inaggirabile nella sua duplice forza militare e fondata su materie prime e territorio, e il nuovo aspirante dell’impero di centro cinese.

Fare nuovamente grande l’America” significa risolvere questo puzzle.

Un impero americano sfidato, che non può più essere certo di controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’insostenibile centralità del dollaro) deve ripristinare prima che sia troppo tardi l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ma ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale e se si commercia su un piano di parità. Comunque su un piano appropriato.

Metteremo alla prova, complicandola notevolmente, questa visione con una serie di letture di cui questo testo rappresenta il provvisorio programma.

Il punto di osservazione particolare è la letteratura di studi strategici uscita negli ultimi venticinque anni che proverei a raggruppare tentativamente in quattro fasi:

1-     Il dibattito dell’89. Mentre negli USA è Presidente Bush senior e dal 1992 Bill Clinton e nel 1990/91 si consuma la prima Guerra del Golfo, mentre si avvia il tremendo ciclo delle guerre iugoslave (1991/99), si forma la UE di Maastricht. Troviamo il libro di avvio di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo uomo”, del 1989; il libro di Huntington “Scontro di civiltà”, del 1991 che è in parte una risposta; il libro di Omaha “La fine dello Stato nazione”, che rappresenta il punto di vista di una delle aziende più globalizzate e centrali della fase.

2-     Il dibattito intorno all’espansione imperiale americana, dieci anni dopo. Clinton esce di scena in favore di Bush junior (2000/2008), in Europa emerge Blair (1997/2007), e poco dopo Schroder (1998/2005). Nel 2003 si ha la seconda guerra del Golfo ed in Europa il Kossovo. Gradualmente emerge la Cina. Troviamo qui il libro di Arrighi “Caos e governo del mondo”, che è del 1999; il libro di Negri, “Impero”, del 2000; e quello di Todd “Dopo l’impero”, del 2002; Kagan con “Paradiso e potere”, del 2003. Queste letture rappresentano la fase di conflitto e consolidamento del paradigma egemone, che non è mai stato compatto e coeso.

3-     La chiusura del ciclo neoconservatore, 2006-08. Gli ultimi anni controversi di Bush, mentre si affaccia il fallimento del tentativo imperiale, il crollo di Blair, l’avvio del regno della Merkel. Tre libri, Prem Shankar Yha, “Il caos prossimo venturo”, del 2006; dal lato opposto il suo connazionale Parag Khanna, con “I tre imperi”, del 2008; e Zakaria “L’età post-americana”, del 2008. La confusione regna sovrana.

4-     La crisi del 2008. In questa chiave gli ultimi anni, abbiamo Obama, Cameron (dal 2010) e sempre Merkel. Molte guerre di confine, di margine, per le risorse e per gli aggiustamenti di potenza. La Cina è ormai il principale rivale. I libri che guarderemo sono ancora Prem Shankar Yha, “Quando la tigre incontra il dragone”, del 2010; Parag Khanna, “Come si governa il mondo”, del 2011; Kupchan, “Nessuno controlla il mondo”, del 2012; Parag Khanna, “L’età ibrida”, del 2012; Feldman, “Cool war”, del 2013; Kissinger, “L’ordine mondiale”, del 2015; Parag Khanna, “Connectography” del 2016; e Fagan, “Verso un mondo multipolare”, del 2017.

Da queste letture emergerà un quadro frammentato, un gioco di specchi e di interessi, il terreno di un conflitto per l’anima del mondo e per la mente dei suoi abitanti cosparso di caduti. Molti sogni, molti desideri indecenti e molti schermi ideologici.

Ma anche la percezione che le aeree astrazioni dell’economia nascondono ai nostri occhi molto più di quel che aiutano a vedere.

Varrà la pena di spendere qualche attenzione.

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