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micromega

Alitalia, Ilva, Arlecchino e Pantalone

di Carlo Formenti

Alitalia e Ilva sono due imprese strategiche per il sistema industriale italiano, due imprese che – in ossequio ai dettami del pensiero unico liberista – sono finite assieme ad altre non meno strategiche nel tritacarne delle privatizzazioni, messo in moto da tutte le forze politiche – di destra e “di sinistra” – che si sono succedute alla guida di questo Paese dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi. Se mai qualcuno scriverà la storia del processo di deindustrializzazione che i Paesi del Sud Europa hanno dovuto subire negli ultimi decenni, per adattarsi alla divisione internazionale del lavoro imposta, non dalla impersonale razionalità dei “mercati”, bensì dai superiori interessi della Ue a guida tedesca, non potrà non paragonare il ruolo delle nostre élite economiche e politiche a quello delle borghesie “compradore” e dei governi corrotti che in Africa, e in altre regioni coloniali ed ex o neo coloniali del mondo, hanno venduto i rispettivi popoli agli interessi del capitale globale.

Penso che in quella storia dovrà esserci un capitolo dedicato al ruolo dei media che hanno taciuto su quei crimini, sfornando narrazioni che falsificano la realtà. Un ultimo esempio?

Sul Corriere del 2 giugno, Goffredo Buccini si scaglia contro i sindacati i quali, per salvare i posti di lavoro delle migliaia di dipendenti che verranno sacrificati in seguito alla svendita di Alitalia e Ilva a multinazionali straniere, pretenderebbero di nazionalizzare i due marchi, pensano cioè, scrive il nostro, “che al dunque possa pagare ancora e sempre Pantalone, cioè lo Stato, cioè noi”.

Prima di decodificare questo estemporaneo riferimento alla commedia dell’arte, vanno ricordate alcune cosette: 1) è quantomeno difficile (come lo stesso Buccini riconosce) scaricare sui lavoratori e sul sindacato la responsabilità del doppio disastro, sorvolando su quelle di manager e governi; 2) ancor più difficile attribuire al sindacato una sistematica strategia “statalista”, visto che la resistenza sindacale alle privatizzazioni selvagge è stata dir poco moderata, ad eccezione di casi – come i due di cui stiamo parlando – in cui la rabbia dei lavoratori rischia di sommergerli (giova ricordare che in Alitalia e all’Ilva i sindacati di base hanno già eroso gran parte del consenso di CGIL, CISL e UIL); 3) chi acquisterà le due imprese non avrà alcun interesse a “risanarle”, ma ne prosciugherà le risorse per poi buttarle via come limoni spremuti: 4) Buccini ricorda (in questo caso a ragione) che in passato i sindacati hanno chiuso entrambi gli occhi sul disastro ambientale provocato dall’Ilva, dimentica però di aggiungere che gli eventuali acquirenti si guarderanno bene dall’investire nelle costosissime tecnologie che permetterebbero, ad un tempo, di non ridurre la produzione e salvaguardare l’ambiente: meglio tagliare la produzione (anche per non fare concorrenza alle altre imprese del proprio gruppo) e l’organico.

L’unico soggetto che potrebbe far fronte – e ne avrebbe l’interesse, qualora ancora ritenesse che il proprio interesse coincide con quello del Paese – a investimenti di simile portata è lo Stato. Ma non si può, perché mamma Europa non vuole che si infrangano le regole della “libera” concorrenza. Buccini però non insiste tanto su questo divieto (non è il caso, in tempi di “populismo” montante, di fomentare la rabbia contro l’Europa), bensì sulla sua commedia dell’arte: scaricare i costi dell’operazione sullo Stato sarebbe folle, sia perché sappiamo quanto sia disastrata la nostra spesa pubblica, sia perché sappiamo che a pagare il disastro saremo in ultima istanza noi cittadini.

Ebbene sarebbe ora di smascherare una volta per tutte questa truffa, secondo cui il debito pubblico l’avremmo fatto crescere tutti noi, vivendo al di sopra delle nostre possibilità e scaricando sullo Stato i nostri errori, per cui qualsiasi richiesta di risolvere crisi aziendali o di altro genere attraverso finanziamenti pubblici sarebbe puro masochismo. Se qualcuno volesse finalmente aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà, è invitato a leggersi il libro di Marco Bersani, “Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa” (DeriveApprodi editore) di cui trovate l’anticipazione di un capitolo su Micromega.

Bersani si chiede: siamo sempre stati spendaccioni? In tal caso resterebbe da spiegare perché dal 1960 all’inizio degli anni 80 il rapporto debito/Pil sia rimasto costantemente sotto il 60%, per poi schizzare – dal 1981 al 1994 – al 121%. Siamo impazziti di colpo? No, più semplicemente nell’81 il Ministro del tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi decidono che le istituzioni di cui sono a capo debbano “divorziare”. Prima di allora, se lo Stato emetteva titoli per finanziarsi, la Banca d’Italia garantiva l’acquisto dei titoli invenduti a un tasso prefissato. Dopo lo Stato, se ha voluto collocare i titoli, ha dovuto riconoscere tassi di interesse più elevati, mettendosi di fatto nelle mani della finanza privata e della speculazione finanziaria. Così benché dal 1990 al 2015 l’Italia abbia chiuso ogni anno con avanzo primario, cioè con entrate superiori alle uscite, nel periodo in questione, di oltre 700 miliardi (altro che risanare Alitalia e Ilva!), il debito pubblico ha continuato ad aumentare a causa del circolo vizioso degli interessi sul debito. Non è che c’entrano gli interessi di quelle banche per salvare le quali, dopo il 2008, Pantalone ha dovuto sborsare ben più quattrini di quelli necessari a salvare Alitalia e Ilva? Arlecchino Buccini su questo tace, evidentemente quest’altra commedia non gli piace.

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