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Trenkle, Lohoff, “Terremoto nel mercato mondiale”

di Alessandro Visalli

Xavier Miseracs Barcelona 19645Il libricino a cura di Massimo Maggini, raccoglie due interventi del “Gruppo Krisis”: un breve saggio di Norbert Trenkle del 2008, a maggio, di poco antecedente alla piena manifestazione della crisi, quando si stava affannosamente da circa un anno cercando di chiudere i focolai che si aprivano ora in una banca, ora in una istituzione assicurativa; un’intervista a Lohoff e Trenkle del 2012, sul difficile problema del “capitale fittizio”.

Il “Gruppo Krisis” da una trentina di anni si occupa di sviluppare una critica radicale di ispirazione marxista e nasce su iniziativa di Robert Kurz (che è scomparso nel 2012), Ernst Lohoff, Ptere Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle, intorno ad una rivista edita dal 1986. Nel 2004 si avvia una spaccatura tra il gruppo di krisis e Kurz, che fonda una sua nuova rivista, Exit. Una lettura di alcuni motivi di questa divergenza teorica si possono leggere in un articolo di Lohoff pubblicato in italiano da Sinistrainrete, “Due libri, due punti di vista”, in cui mette a confronto le tesi del suo libro “La grande svalorizzazione”, con quelle del libro di Kurz “Denaro senza valore”. Inoltre, sempre su Sinistrainrete, l’intervista di Kurz, “La teoria di Marx, la crisi e l’abolizione del capitalismo”. Degli stessi autori si può leggere in italiano: il “Manifesto per il lavoro”, del 2003, di Kurz, Trenkle, Lohoff; “Ragione sanguinaria”, del 2014, di Kurz sulla critica dell’illuminismo; “Le crepe del capitalismo”, del 2015, di Kurz; “Crisi: nella discarica del capitale”, del 2014, di Trenkle e Lohoff.

Anselm Jappe, di cui abbiamo letto il suo “Contro il denaro”, appartiene al gruppo Exit, è anzi uno dei più prolifici autori del gruppo, con 12 saggi (lo superano anche di molto Ortlieb, 29; Spath, 14; Ulrich, 14; Scholz, 22; e, ovviamente, Kurz, 375 saggi pubblicati sulla rivista), segnalo in particolare “Ist das Geld obsolet geworden?” (il denaro diventerà obsoleto?) che è sul tema.

Per dichiarazione di Lohoff, nel saggio pubblicato su Sinistrainrete prima citato, dal 2008-11, data dei testi di questo libro, e la posizione attuale della “teoria del valore”, nella versione di Krisis, c’è una discontinuità. Mentre nell’elaborazione congiunta con Kurz, antecedente, il “capitale fittizio” è in sostanza criticato in quanto anticipazione di valore futuro (che potrebbe non darsi), a partire da “La grande svalorizzazione”, del 2012, lo inquadra in una nuova teoria delle “merci del secondo ordine”. Lungi dall’essere “apparente”, l’accumulazione peculiarmente resa possibile dalla finanza nel momento in cui le tradizionali forme di estrazione di ‘valore’ dal lavoro astratto latitano, ha un suo radicamento nel rapporto che si istituisce tra venditori ed acquirenti di quella particolare “merce” che è il “capitale-denaro” (il capitale liquido). Un rapporto nel quale, per la particolare economia politica che si istituisce nella dinamica dei diversi attori specializzati nelle piazze finanziarie interconnesse gerarchicamente la merce-denaro si moltiplica. In sostanza, come dice, la posizione precedente (e che è espressa in parte anche nel testo di Trenkle del 2008): “faceva ricorso ad un ‘preconcetto di autenticità metafisica’, rimasto fino a quel momento in ombra, secondo il quale il capitale ‘reale’ era ‘più reale’: la ricchezza capitalistica avrebbe potuto sorgere soltanto dalla produzione di beni”.

Sarebbero, invece, da analizzare distintamente il “movimento del capitale fittizio”, e “il movimento del capitale funzionale”. Un esempio, del tutto alieno alle categorie marxiane, è nell’interessante analisi che France Coppola fa del modo in cui il sistema finanziario “ombra” (ovvero ai limiti della regolazione e della giurisdizione) moltiplica i valori (cioè la funzione di “capitale”) dei beni scambiabili, quando questi sono incorporati nelle forme tecniche idonee, nel post “Uragani finanziari”. Si tratta di un “vortice” che si crea tra quegli “ambienti sociali densi” e i luoghi delle Città globali di cui parla Sassen, capace di creare denaro fino a che esso vi resta incorporato. Non tenerne in debito conto porta, ancora nel 2011, a immaginare da parte di Trenkle che l’espansione di ‘denaro’ delle riserve bancarie da parte del sistema pubblico delle Banche Centrali possa tradursi in inflazione generalizzata e produrre effetti sociali.

In effetti l’uragano della Coppola cresce fino a che la merce-denaro resta in esso, e si depotenzia non appena viene impiegato o, detto in altro modo, appena i castelli di titoli vengono rimborsati.

Seguendo l’analisi della Coppola vediamo i flussi, partiamo da un punto qualsiasi del primo "triangolo" in basso:

- i mutuatari americani (US borrowers), ottengono un prestito dal sistema bancario regolato USA (loans) ed in cambio danno una garanzia sulla proprietà (property);

- le banche ricevono a loro volta depositi da famiglie e imprese;

- i mutuatari, dall’altro lato, trasferiscono il prestito alle famiglie ed alle imprese dalle quali hanno le proprietà (cioè lo spendono).

Ma che succede in questo triangolo? Nulla di particolare, si tratta di semplice creazione di moneta a fronte di beni.

Qui opera l’innovazione ed anche il motore di crescita (perché fino a questo punto sarebbe un sistema stazionario, una semplice distribuzione interna delle risorse, come immagina anche il marxismo tradizionale), interviene quindi il secondo triangolo:

- il sistema bancario americano trasferisce i prestiti al sistema ombra che lo ricicla nell’altro ambiente di regolazione (europeo) sotto forma di prodotti strutturati (securities, cioè valori), ottenendone in cambio dei pagamenti dal sistema bancario europeo.

- Questo chiude l’anello tramite il mercato monetario, emettendo quindi titoli riconfezionati che sono collocati alle famiglie.

Si tratta in sostanza di una sorta di “pompa” che mantiene un flusso bidirezionale il cui motore principale è un arbitraggio normativo consentito dal fatto che l’armonizzazione fiscale, il coordinamento monetario e la regolazione non sono allineati. Questa circostanza ha tenuto a buon prezzo il denaro, alimentando un fiorente mercato e il crescente desiderio di case e prestiti.

Ma bisogna notare che man mano che il denaro circola in questo anello, come un tornado alimentato dal calore del mare, si espande. Con esso crescono i valori dei titoli e delle proprietà. Espandendosi si allontanano ovviamente dal rapporto con i redditi correnti e diventa sempre più insostenibile; quando la distanza è insopportabile, e si vede, il sistema crolla perché la fiducia viene meno e si entra in un Momento Minsky. Il denaro è, infatti, creato dalle banche quando accendono il prestito e dalle banche europee quando acquistano titoli, non è trasferito; dunque è denaro nuovo e genera una espansione monetaria effettiva ed un’impressione di crescita non sostenibile a lungo termine. La cosa non è facile da afferrare, ma va vista dinamicamente: il sistema creditizio, che è come un enorme network di consulenza rivolto alla creazione di contratti che incorporano beni e disciplinano flusso di interessi e rate, rimonta costantemente dei "valori" (definendoli come tali, cosa che è la sua principale prestazione) in scatole sempre più grandi e nominalmente sempre più sicure, secondo il modello 'eroga e distribuisci', creando prima Mbs (Mortgage-backed securities), o Abs (asset-backed securities), poi Cdo (collateralized debt obligations), tramite Società Veicolo che in teoria dovrebbero essere esterne al perimetro della Banca d'investimento, quindi riconfezionati in Cdo2, e Cdo3, e Cds (credit default swaps). In tutta questa esoterica piramide di prodotti costruiti sulla base sempre dello stesso sottostante contratto di debito (privato o aziendale), o meglio di milioni di essi, consente, nei suoi vari anelli o passaggi successivi di espandere il valore, incorporando "sicurezza", ovvero commissioni. Alla fine visto staticamente si avrebbe un larghissimo circuito in cui qualcuno presta (magari ad Amburgo), qualcuno riceve (e compra una casa in California) e molti consulenti in giro per il mondo emettono fatture. Ma visto dinamicamente, dato che ad ogni passaggio la moneta è creata nel prestito e distrutta nella restituzione, insieme al titolo, si ha una tendenza del sistema ad espandersi costantemente creando sempre più 'anelli' fittizi intorno al "valore", con ciò provocandone anche l'inflazione e quindi alimentando una bolla (ovvero allontanando il valore del bene sottostante da quel che sarebbe riconosciuto su un mercato diverso).

Ad esempio, se abbiamo una casa che al momento dell'acquisto vale 100 e l'agenzia di mutuo li riconosce (Mbs, siamo arrivati a dare più del 100% in alcuni momenti), ma immediatamente prende il contratto che ha stipulato, usando una linea di credito che genera il denaro fiduciario a fronte della garanzia data dal contratto Mbs stesso, e lo trasferisce ad una controparte che confeziona un Cdo nel quale 1.000 contratti sono uniti, in base alla loro 'rischiosità', e generano insieme un prodotto avente un valore cumulato di 120.000 che viene ceduto ad una terza controparte. Questa, dopo aver pagato 120.000 con una linea di credito che genera denaro fiduciario a fronte della garanzia data dal contratto Cdo (con i quali il primo anello salda le sue pendenze e riavvia la macchina), lo trasferisce ad una terza controparte che confeziona un Cdo2 nel quale 1.000 Cdo sono uniti in base alla loro 'rischiosità' (che una agenzia di rating certificherà) generando un prodotto che vale 1.400.000 che viene ceduto ad una quarta controparte, ecc. Il quarto livello vale miliardi. Tutto questo è sostenuto da una costante generazione di denaro endogeno fiduciario che è in crescita fino a che il sistema si espande, e collassa quando i debiti devono rientrare.

E che, è il punto dei nostri, si allontana sempre di più dai valori riconoscibili in base ad un ragionevole uso (ad esempio ad un rapporto sensato tra il valore della casa e il reddito generabile in una vita dai suoi abitanti).

Dunque, come sostiene anche Lohoff nell’articolo citato è una sorta di magia: il contratto di mutuo (ma anche il finanziamento di una nuova operazione immobiliare, come lo stadio della Roma, ad esempio) crea nuovo denaro (mentre la restituzione lo distrugge), ma anche la confezione di questo in un nuovo prodotto finanziario lo crea ancora. Il denaro è quindi creato due o più volte, ogni volta espandendosi fino a che resta in movimento. Il box “sistema bancario ombra” crea, infatti, il secondo flusso di denaro sopra il primo. La reipotecazione e la valorizzazione dei prodotti RMBS finisce quindi per creare un valore che è “di gran lunga superiore al valore dei prestiti che è entrato in esso”. Il meccanismo di base di creazione del denaro (endogeno e fiduciario) consente una costante espansione che per lo più resta entro gli ambienti sociali densi della finanza e si scarica di tanto in tanto in commissioni ed altri benefit per i pochi operatori chiave di tale sistema.

In effetti è il differenziale di rendimento che tiene i flussi in diverse “economie politiche”, si ha da una parte un anello che parte dal credito (consumi o investimenti privati o pubblici), moltiplica la merce-moneta entro il circuito finanziario nella contrapposizione dei suoi soggetti, come effetto secondario fa salire i valori dei sottostanti incapsulati nel sistema, compra molto più di quanto produce e accumula i surplus, in forma di riserve di capitale, per lo più in oriente. Dove, in oriente (ma anche in Germania), simmetricamente si ha un surplus di produzione che alimenta una seconda economia politica in direzione opposta: questa incorpora i produttori, come quella i debitori, e ottiene con due mosse assolutamente simmetriche, e reciprocamente necessarie, il contenimento dei prezzi ad essi connessi e dei loro salari.

Per capire il sistema capitalistico contemporaneo bisogna dunque guardare a due economie politiche ed alle loro relazioni che si toccano solo in alcuni punti.

Da un lato si spende e ci si indebita, dall'altro si produce e si presta. Il sistema ombra della finanza e le infrastrutture della globalizzazione fanno da ponte e provvedono alla costante creazione di denaro che serve per lasciare liquido questo sistema fragilissimo. Nel quale (è paradossale, ma fino ad un certo punto), la potenza imperiale è dal primo lato.

Dopo questa lunga premessa veniamo alla lettura del libro di Lohoff e Trenkle che comunque può aiutare a guardare all’altro punto di vista sulla crisi del sistema capitalista. Alcuni temi sono ormai piuttosto familiari:

-la crisi del 2007-8 è solo l’effetto di una latenza che era in campo sin dagli anni settanta;

- è interpretata come strutturale ed anche definitiva, invalicabile;

-la ragione di fondo è da ricercare nello stesso meccanismo di mercificazione e creazione di valore del capitalismo, con la competizione che esso naturalmente genera;

-la competizione impone una costante riduzione relativa dei costi al fine di acquisire nuovi mercati (o quote di essi), ampliando la produzione mentre si riducono il costo dei fattori ed in primis del lavoro umano (la principale modalità strutturale per ridurre il costo essendo la sostituzione con “macchine”);

-questo meccanismo di base, osservabile solo nell’insieme dotandosi degli opportuni concetti, determina la tendenza quella che chiamano “espulsione del lavoro vivo”, cioè per i suoi effetti della “base di consumo”.

-Le due meccaniche operano l’una contro l’altra, e la cosiddetta “rivoluzione della microelettronica” fatica a trovare condizioni di valorizzazione in questa costante erosione della base di reddito tra tradurre in consumo.

-La creazione di nuova domanda attraverso la finanza, anziché il lavoro immediato, è l’escamotage che consente al capitalismo di giocare ancora una volta la partita: valorizzare immediatamente la promessa di redditi futuri (posizione come visto ampliata nel libro del 2012). In sua assenza il collasso sarebbe stato molto più rapido.

-Il capitalismo può continuare in quanto tale non già comprando costantemente tempo, ma solo aprendo costantemente, ed in misura sufficiente, nuovi mercati.

Giudicando impossibile tale esito resta solo la diagnosi di crollo, perché il sistema automatico del capitalismo (che non è dotato di volontà ma di logica) conduce inesorabilmente ad un eccesso di concentrazione di segni di valore intrinsecamente autodistruttivo.

Con una mossa del tutto in linea con la tradizione, a questo punto gli autori segnalano che la capacità produttiva e lo stato della tecnica, e del sapere, consentirebbero, se liberate della logica feticistica dell’autovalorizzazione del denaro, a ciascuno di vivere e soddisfare i propri piani di vita alternativi, ovvero fornirebbe le basi anche per un altro “stile di vita”.

Sul tema del lavoro, per il quale si può fare riferimento al testo sopra citato, gli autori si discostano radicalmente dall’industrialismo, dunque anche dalla “etica del lavoro”, da ogni forma di taylorismo, anche estesa a sinistra, e riprendono motivi che abbiamo letto in Gorz, radicalizzandoli ulteriormente. Il “lavoro” è quindi criticato come effettiva struttura portante del sistema capitalistico e controfaccia necessaria del capitale.

Trenkle, nel suo primo saggio dell’inizio 2008, si interroga sulla connessione tra l’enorme bolla finanziaria (alla data dell’articolo si era avuto l’immissione di emergenza da parte della BCE del luglio 2007, circa 200 Mld, il crollo della Northern Rock, le perdite di UBS, Citigroup, Merryl Linch, l’intervento di emergenza di Bush a dicembre, il salvataggio di Bearn Stearns, comprata da JPMorgan con 30 miliardi di denaro pubblico) e la dinamica della crisi del capitalismo che è mondiale. Nel farlo mette in evidenza il falso preconcetto che la finanza sia la causa della crisi, che siano cioè le “locuste” che devastano il campo buono dei mercati “reali”. Come dice “la divisione del capitale fra concreto capitalismo che lavora e un capitalismo astratto e ‘rapace’, dove gli ‘speculatori’ vengono tout court identificati con gli ebrei, che si pensa tirino le file dietro le quinte del mondo dell’economia e della politica” (p.30).

Il problema è che concentrarsi sul capitale finanziario in questi termini (anche senza il ridicolo antisemitismo) significa rovesciare la connessione causa-effetto.

È proprio l’insorgenza di crisi che determina l’effetto dell’avvio di un ciclo compensativo di accumulazione finanziaria, non il contrario. Le ragioni di questo movimento (chiaramente identificato anche dalla scuola critica di Braudel, Wallerstein, Arrighi ed altri) sono la congestione dei capitali da valorizzare nell’economia reale. E quindi la necessità intrinseca, direi definitoria, del capitale di valorizzarsi a qualsiasi costo, necessità che cammina sulle gambe di tutti gli operatori, in qualunque posizione siano nel sistema. Dunque è l’effetto di una crisi (Arrighi la chiama “crisi spia”) avviata negli anni settanta. La spiegazione di questa non è da Trenkle attribuita a fattori culturali o politici (ovvero alla prevalenza dell’ideologia neoliberale), ma “nel fatto che il lungo boom del dopoguerra cade allora in una profonda crisi strutturale e il fordismo si imbatté nei propri limiti. I margini di profitto calarono perché la produttività delle aziende, basate sulla produzione standardizzata di massa, veniva esaurendosi mentre, al contempo, avevano successo le lotte dei lavoratori per garantire un aumento dei salari e dei benefici, e il finanziamento delle infrastrutture pubbliche diventava sempre più costoso” (p.32)

A quel punto opera come spartiacque l’aumento del costo delle materie prime (che, però, è provocato, e forse voluto, dalla politica di richiamo dei capitali della FED).

Nella ricostruzione (invero parziale, perché lo snodo ha anche una non trascurabile dimensione geopolitica, nello scontro multiplo tra USA, URSS ed Europa sulle arene interconnesse della politica monetaria, commerciale e strategico-militare, come ha anche una dimensione tecnologica, regolatoria e culturale che non possono essere liquidate come “soprastrutturali”) di Trenkle a questo punto il capitale venne “liberato” dai suoi impieghi e si trovò un’alternativa. La stava trovando già da qualche anno, ma da allora accelera sempre di più. Dunque la crisi è di “sovra-accumulazione” ed espone almeno una parte del capitale al rischio di deprezzamento, o “svalorizzazione”.

È in relazione ad una crisi simile, nel 1857, che Marx conia il termine “capitale fittizio”, cioè capitale, dice l’autore “che agisce solo in apparenza come capitale”. In apparenza perché il capitale presuppone che ci sia del “lavoro astratto” (ovvero del lavoro calcolato come tale in un ciclo di valorizzazione) che è impiegato per produrre beni o servizi dal quale una quota viene accumulata (ed un’altra restituita per la riproduzione dei fattori produttivi). Il “capitale fittizio”, invece, produce un suo reddito da una scommessa sul futuro. Ovvero, anche quando a fronte del titolo è una spesa o un consumo già effettuato, dalla scommessa che ci sarà sempre un'adeguata generazione di valore che remuneri l’interesse.

Il credito, facendo leva su questa fiducia, sostiene quindi i consumi e gli investimenti, riportando ossigeno all’economia e rinviando la crisi da sovra-accumulazione. Il “capitale fittizio” non è, quindi, da un certo punto di vista, un peso morto, ma è perfettamente funzionale all’economia anche “reale”.

Naturalmente “prima o poi deve sfociare in una enorme e violenta svalorizzazione” (p.36). A luglio del 2008, due mesi dopo l’articolo, la borsa di Londra precipita, e il governo americano immette 5.000 Mld di dollari in Fannie Mae e Freddy Mac, una cifra sufficiente a finanziare gli aiuti internazionali del 2015 per 150 anni, 1/10 del Pil del pianeta. A settembre 2008 fallisce Lehman Brothers, ma il governo USA salva con denaro pubblico Merryl Linch, Aig, e quello inglese Hbos, quello tedesco Hypo con 50 Mld, quello cinese immette 600 Mld di aiuti, la Fed 800 e lo stato federale 700. I tassi di interesse vanno a zero.

La “svalorizzazione” dunque c’è stata, ed è stata nell’ordine di una importante frazione del Pil mondiale (almeno un terzo, se non la metà), ma ovunque i poteri pubblici hanno steso una rete di protezione.

Questa svalorizzazione, nella cui ombra permaniamo, dato che gli squilibri non sono affatto stati risolti, segue per l’autore alla valorizzazione “fittizia” (ovvero non fondata sul lavoro presente, ma futuro) che si espande da quando il potere di fare ‘denaro’ è stato sganciato dall’ancoraggio legale all’oro nel 1971. Trenkle cita qui la ragione geopolitica (continuare a sostenere il potere economico e politico-militare dell’egemone americano), e definisce l’espansione monetaria come creazione di “grandissime quantità di liquidità non garantite nei mercati”. Cioè non garantite da valori reali fattualmente presenti, ma certamente garantite dal potere (il dollaro è garantito di fatto dalla potenza e dalla insostituibilità americana), e inoltre garantite dal sistema ben descritto dalla Saskia Sassen , “Territorio, autorità diritti”. Da un sistema che, in effetti produce, anche se in un modo che sottostà ad una diversa economia politica, e lo fa in luoghi schermati e secondo tecniche esoteriche per i più.

Fa parte di questo processo, per il quale la finanziarizzazione compra il necessario tempo, la razionalizzazione del settore industriale occidentale e l’allargamento a tutto il mondo in una nuova divisione del lavoro per la quale i segmenti a maggior valore aggiunto, e iperproduttivi, restano al centro e quelli meramente produttivi (fordisti) sono decentrati dove sono minori i costi. Insieme il settore dei servizi si espande, anche se aumentando la precarietà e la “durezza del vivere”.

Ma questo sistema, è il punto, non può garantire a lungo termine una nuova espansione produttiva stabile e sicura, perché bisognerebbe che coinvolgesse la “forza-lavoro” nella produzione di qualche classe di merci, al necessario livello di produttività, per aumentare la massa di valore effettivamente circolante (non solo nel, tutto sommato ristretto, circolo bagnato dalle acque della finanza e sempre a rischio di asciugarsi di colpo, anche per la sua tendenza a implodere). Il semplice fatto che la “forza-lavoro” di troppi sia resa superflua scava, infatti, sotto le basi della società capitalista e fa sì che dalla “sovra-accumulazione” derivi un “sotto-consumo”. E’ un circuito che si alimenta costantemente da sé, ed è trainato dalla logica della valorizzazione competitiva (non dalla tecnologia, che è anche essa, un effetto).

Né l’esternalizzazione (ad esempio in Cina) della produzione di beni scambiabili può risolvere il problema della creazione insufficiente di valore, perché si tratta di lavoro effettivo ad un livello troppo basso di produttività. Inoltre si tratta di un processo fragile e dipendente per diverse vie (finanziarie, legali e commerciali) dalla fonte del valore e dal circuito relativo che è ancora occidentalocentrico molto più di quanto dicano i numeri. Fa Pil in Cina o in India una fabbrica eterodiretta dalla California, che vende tutti i suoi prodotti in USA ed Europa, e che dipende sia legalmente sia per la sopravvivenza dai flussi di capitali, e servizi, che transitano per le piattaforme finanziarie di New York, Londra o Tokio.

Abbiamo letto Todd, che inquadra la cosa nei termini di un egemone (fallito) che ‘vive a spese del resto del mondo’, ma la cosa, oltre il pericolo per tutti in caso di improvviso collasso della circolazione ‘consumi-crediti/debiti-produzione’ lungo i due oceani, è in termini diversi: tutti si sono alimentati da questa fonte di sviluppo.

Anzi, tutti sono di fatto impegnati nella sempre più parossistica protezione della massa di capitale fittizio autoalimentato dentro il sistema della finanza contro l’incombente svalorizzazione, e sono al contempo impegnati (e la politica in prima fila) nella costante erosione del valore fuori di esso. Cioè nella continua ricerca di ulteriori margini per fondare quella che nei propri termini si lasci descrivere, misurare e calcolare come un’attesa di valorizzazione futura, fondata su un incremento atteso di efficienza. Nelle condizioni della piena libertà di movimento del capitale ciò conduce, per sua logica, all’aumento necessario per conservare stabilità “della pressione sulla società e sulla gran massa della popolazione, che si trova costretta a vendersi in condizioni sempre più precarie” (p. 50).

Alla fine, e qui mi pare che l’analisi evidenzi le sue carenze di differenziazione, quello che chiama “il rigonfiamento della massa monetaria” dovrebbe portare ad “un’ulteriore accelerazione della inflazione, e quindi ad un ulteriore deterioramento del potere generale d’acquisto”. Il nesso tra la speculazione e l’incremento dei prezzi (è di seguito citato il caso dei prezzi delle materie prime, che in effetti nel 2008 erano enormemente inflazionati) è ovviamente reale, ma si tratta di un fenomeno selettivo: la “massa monetaria” finanziaria resta confinata nei relativi mercati, non si tratta di “denaro” generale. Dunque si possono avere contemporaneamente, e si hanno, fenomeni di inflazione dei prezzi ad esempio sulle case, o su alcuni titoli, o sul petrolio ed il rame, e avere dei fenomeni deflattivi della moneta che invece è in contatto con altri mercati (ad esempio del lavoro), o diverse aree geografiche. L'elemento comune è la mobilità.

Al termine del suo articolo ipotizza che la sopraggiungente crisi, con crolli finanziari interconnessi e sistemici, spingerà non per un ritorno dello Stato-Nazione, ma per la “disgregazione dell’economia mondiale in blocchi continentali”, conseguente anche al crollo del dollaro come moneta di riserva mondiale, e quindi al necessario ripiegamento statunitense (che, per fare un esempio, non potrebbe più finanziare facilmente la sua proiezione di potenza all’estero).

Nel 2012 Trenkle e Lohoff tornano sul tema a distanza di quattro anni, e pongono ancora l’attenzione sull’immane capacità produttiva globale, in confronto con le difficoltà di accesso generalizzate ad essa.

In questo contesto Marx viene riletto, ed è una caratteristica di tutta questa scuola, come il teorico del meccanismo di produzione del capitale, e non come il propagandista politico della lotta di classe. La contraddizione essenziale non è quindi tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, ma è incorporata nella creazione della ‘merce’, con la quale avvia il suo “Capitale”. L’essere merce, o meglio il ‘diventarlo’, include quel processo di valorizzazione, imperniato sulla forma denaro, che è la “forma elementare” della società capitalista stessa. Secondo questa lettura si dà contraddizione al fondo tra una ricchezza caratterizzata dalla produzione effettiva di beni, materiale, ed una forma di ricchezza “astratta”, identificata dal valore calcolato in termini di denaro (ovvero l’unica presa in considerazione nell’economia neoclassica). Tra le due si può addivenire ad un conflitto quando mancano le condizioni di valorizzazione, in quel caso si smette di produrre anche se ce ne sarebbero le condizioni materiali ed il bisogno.

Rispetto alle analisi del 2008, ora gli autori riconoscono che il sistema pubblico sta sostenendo la liquidità del sistema finanziario in un modo e con una portata che non si era mai vista, ma continuano a ritenere tale strada al termine cieca. Vengono addotti dei motivi che riverberano l’ambiente di discussione tedesco (e che si possono ascoltare in diversa forma anche al capo opposto, in un economista come Sinn): le Banche Centrali si stanno trasformando in bad banks, in ultima analisi scaricando sul sistema sociale i rischi; il denaro immesso potrebbe, se entrasse in contatto con i mercati dei beni (cosa che non avviene, e probabilmente non può avvenire in questa società altamente frammentata e secondo il modello delle due economie politiche) determinerebbe una fiammata inflattiva. Anzi una “stagflazione”.

La sola via di uscita è di sottoporre a critica radicale la stessa forma astratta della ricchezza, rifiutandosi alla logica della “redditività”, della “mercificazione”.

Disinteressandosi quindi di ciò che è “finanziabile” o meno, ma interessandosi a ciò che è necessario. Ad esempio la casa per gli sgomberati, il reddito per gli affamati, la salute per tutti, l’ambiente pulito e sicuro per il mondo.

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