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manifesto

La crisi finanziaria globale spiazza le visioni ideologiche

Riccardo Bellofiore

bellofioreLa questione di come inquadrare la crisi dei subprime dentro la dinamica capitalistica di lungo periodo è importante. Andrea Fumagalli ha provato a impostarla in un articolo di qualche giorno fa. L'asse del ragionamento è presto detto. I mercati finanziari valorizzerebbero la produttività «immateriale» del lavoro «cognitivo», realizzerebbero una redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, metterebbero in moto un moltiplicatore reale dell'economia. La novità della crisi attuale starebbe nella messa in questione degli assetti gerarchici del comando sui mercati finanziari, sempre più instabili, mentre l'entrata in scena dei fondi sovrani sancirebbe l'abbandono dell'interesse nazionale.

Da qualche anno ho provato a impostare una risposta diversa. Attorno alla metà degli anni '90 si instaura un «nuovo» capitalismo incentrato su una «nuova» politica monetaria e un paradossale keynesismo «finanziario» La domanda finale negli Stati Uniti si incarna sempre più in consumi finanziati con l'indebitamento bancario, grazie all'aumento continuo dei prezzi delle «attività» (azioni, immobili) spinti all'insù da bolle speculative che la Federal Reserve ha non solo sostenuto ma provocato. Il modello si regge su un attivismo statuale molto accentuato. Dietro ci sta un attacco senza requie alla classe dei lavoratori, frantumata nelle figure del lavoratore traumatizzato, del risparmiatore affetto da sindrome maniacale-depressiva, del consumatore indebitato.

Quando i prezzi delle attività salgono, il risparmiatore è in fase maniacale, l'indebitamento privato garantisce il consumo, gli Stati Uniti sono il traino finale della domanda per i grandi esportatori asiatici o europei. Il lavoratore traumatizzato non riesce a tradurre in salario o controllo del lavoro l'eventuale piena (sotto-)occupazione. Quando la bolla esplode, il risparmiatore entra in fase depressiva e il debito privato mostra la sua insostenibilità. La crisi da liquidità tracima in insolvenze, e rischia di divenire crisi sistemica. Il che non significa crollo: semmai ristrutturazione profonda, e necessità di una ridefinizione radicale degli equilibri capitalistici esistenti. In situazioni del genere, come oggi, non ci si fa scrupolo di far ricorso alla politica fiscale.

L'attacco al mondo del lavoro discende da trasformazioni sociali e tecniche che hanno dato vita a una «centralizzazione senza concentrazione». La riunificazione, formale o sostanziale, dei capitali si può accoppiare a riduzione delle dimensioni di impresa e a frammentazione del mondo del lavoro. La soggezione delle «famiglie» ai mercati finanziari e al debito per il consumo configura una «sussunzione reale del lavoro alla finanza», retroagendo sulla valorizzazione immediata. Costringe cioè a tempi di lavoro più lunghi e intensi, e muta la natura del lavoro: che da attività svolta secondo un piano e sotto controllo diretto diviene, quale che sia la natura giuridica del rapporto, compito da svolgere con «flessibilità» in una finta autonomia. Tutto ciò è accelerato dai nuovi criteri di corporate governance: sono i gestori dei fondi pensione a pretendere rendimenti elevati del capitale e a gradire scelte penalizzanti su occupazione e condizioni di lavoro.

Dal 2003, la necessità di tenere in piedi la baracca ha spinto a includere sotto la finanza anche le famiglie povere e precarie. Per far decollare l'abnorme espansione dei subprime, ed evitarne il subitaneo crollo, ci si è appoggiati a strumenti finanziari come derivati, cartolarizzazioni, «impacchettamenti», in combinazioni esplosive coperte dalle banche. Quando il castello di carte è crollato, sono finite a rischio paralisi le relazioni inter-bancarie. Ciò ha depotenziato l'arma della riduzione dei tassi di interesse, come anche la politica fiscale quale mera riduzione delle tasse (visto il possibile collasso dei consumi e il rientro dall'indebitamento). I fondi sovrani possono per ora evitare che la crisi sistemica abbia un decorso più drammatico, ma nulla più. C'è comunque da dubitare che il contagio della spinta recessiva, passando attraverso l'Asia, non colpisca l'Europa e l'Italia. L'uscita dall'inferno non è affidabile alle sole politiche redistributive, ma richiederebbe politiche strutturali e un piano del lavoro.

Una interpretazione che si oppone punto per punto a quella di Fumagalli. Ammesso, ma non concesso, che esista come entità mistica separata, la forza produttiva del lavoro «cognitivo» è attiva solo nella misura in cui è messa al lavoro dentro la «fabbrica» capitalistica: il che richiede appunto la domanda effettiva. Quando i mercati finanziari credono di «valorizzare» l'innovazione, inclusa quella «comunicativa» e «informazionale», prendono solenni cantonate: i profitti attesi dalle dot.com sono crollati in un batter d'occhio. Non si vede peraltro cosa questo abbia a che fare con la bolla immobiliare. I fondi sovrani tutto sono meno che sganciati dalla sovranità: ma è l'intero meccanismo a dipendere da politiche economiche attive, targate statualmente, nel conflitto geopolitico globale. Infine, altro che redistribuzione dal capitale al lavoro e nuovo welfare. E' piuttosto un giro di vite nella subordinazione del lavoro al capitale: che spreme lavoro, trasferisce lavoro e reddito al profitto lordo, instaura un workfare che è anche un warfare. Forma nuova dello sfruttamento di sempre.

Fa piacere che un teorico post-operaista, che si vorrebbe neo-operaista, riconosca che il «nuovo» capitalismo è intrinsecamente instabile. L'interpretazione di Fumagalli discende dritta dritta da una visione apologetica della «potenza» del capitalismo contemporaneo, e da una subalternità a politiche social-liberiste che si pretenderebbe di radicalizzare. Più che tornare alle origini, si sfocia in Proudhon.

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