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Davanti alla crisi, rovesciare i dogmi sulla spesa pubblica

Riccardo Bellofiore

econdacessoL'articolo di Halevi (20/3), che inquadra l'evoluzione più recente della crisi finanziaria, induce a qualche chiosa su come Europa e Italia entrino nel quadro. Che il discorso di Halevi riguardi anche il vecchio continente è evidente. Gli Stati Uniti sono stati assunti come modello per quel che riguarda precarizzazione del lavoro, capitalismo dei fondi pensione, liberalizzazione dei mercati. Gli Usa sono stati l'acquirente di ultima istanza, non solo per Asia e Cina, ma anche per i neomercantilismi europei. L'euro è stato residuale rispetto alla dinamica del dollaro.

Non ci vuol molto a capire che l'Europa va vista nella sua articolazione interna. Con almeno cinque aree cruciali, su cui si articolano le varie periferie, e l'Est. Un polo manifatturiero di qualità, tedesco e in parte francese, con i suoi satelliti. Un polo scandinavo di produzioni di nicchia di alta tecnologia.

Il centro finanziario: Inghilterra, ma anche Lussemburgo e Olanda. Le produzioni tradizionali, i distretti e le piccole imprese dell'Italia. Infine Spagna e Grecia: la prima con una crescita trainata dalle costruzioni, entrambe con disavanzi con l'estero enormi.

L'Europa cresce se vanno bene le esportazioni del cuore centrale, largamente mitteleuropeo. I profitti degli esportatori sono in larga misura interni all'area, i cui squilibri devono riprodursi affinché il meccanismo possa avere spazio di movimento.

Un universo messo in tensione da quel gigantesco frullatore che è la grande crisi di questi mesi. Chi scommetteva sullo sganciamento dell'Europa dalla recessione prossima ventura si sta ricredendo. Chi esporta in Cina o in Russia, in India o in Brasile, esporta in paesi colpiti di rimbalzo dalla crisi negli Stati Uniti. La recessione americana, condita con la svalutazione del dollaro, spingerà ad esportare di più in Europa. Ciò non toglie che in questi anni si sia ristrutturato, e alla grande. E' vero per il capitalismo tedesco, che esporta macchine e beni capitali, ed è più al riparo. La crisi del manifatturiero francese è stata attutita dalle imprese di media dimensione, oltre che dall'espansione del terziario. Discorso analogo vale per l'Italia. Nella crisi della grande industria e del nanismo, qualche rilancio ha funzionato, come alla Fiat. La media impresa del made in Italy, la subfornitura di qualità nella meccanica, nei mezzi di trasporto, nella metallurgia, hanno ridotto i volumi ma incrementato le esportazioni in qualità e valore.

Il disavanzo commerciale dell'eurozona è cresciuto (10,7 miliardi nel gennaio 2008, rispetto a 7,4 dell'anno precedente). Le importazioni sono state rincarate dal prezzo del petrolio e delle materie prime, ma le esportazioni hanno tenuto in maniera inattesa. Che l'industria tedesca, al momento, marci alla grande non stupisce. Giocano a suo favore tanto la svalutazione del dollaro e il boom del petrolio, che aiutano alcuni acquirenti dei loro beni capitali. Giocano ancora a suo favore gli aumenti salariali strappati nell'ultimo anno. Non stupisce neppure che la bilancia commerciale italiana, al netto del petrolio, sia tornata in attivo, o che le vendite in Russia, Opec, America Latina (un po' meno in Cina) vadano bene, trainate dal riposizionamento delle medie imprese per quel che le aree di esportazione o la qualità del prodotto. La rivalutazione dell'euro ha giocato ovunque come una frusta disciplinante della razionalizzazione e della ristrutturazione. Ma la crisi è dietro l'angolo. La Germania può pagare presto l'assenza di una fonte stabile di domanda interna. L'Italia patisce già ora la fragilità di uno sviluppo eterodiretto. E le nuove medie imprese multinazionali chiederanno una più intensa prestazione lavorativa.

Al sopraggiungere della recessione la Bce cederà un po' sui tassi. Ma non è stata una banca centrale inattiva: gioca cooperativamente con la Fed sulle iniezioni di liquidità, è attenta a intervenire tempestivamente per sostenere il sistema finanziario. Bada a due cose. La prima è evitare che una politica di bassi tassi di interesse stimoli uno sviluppo speculativo come quello statunitense. Ha poi così torto? La sinistra dovrebbe guardare alla qualità reale della crescita, e dunque ad un suo traino pubblico, non al basso costo del denaro. La seconda è che sia il potere d'acquisto dei lavoratori a pagare il conto dell'aumento dei prezzi del petrolio, delle materie prime, degli alimentari. A questo scopo i tassi d'interesse - fin che si può, cioè finché la crisi non arriva - non sono mai troppo alti.

Il divario tra Btp italiani e Bund tedeschi è cresciuto (0,150 nel giugno 2007, 0,650 il 10 marzo 2008), un'asta recente di Bot è andata eccezionalmente deserta. Eventi che non si vedevano da tempo. Si sono sprecati i toni tranquilizzanti, fuori d'Italia. Si capisce il perché. Non preoccupa, in sé e per ora, la bilancia commerciale. L'Italia fa più paura fuori che dentro l'eurozona. Tutti sanno che è lo shock finanziario globale ad aver fatto schizzare verso l'alto il prezzamento del rischio. Al di là dello scenario, possibile ma non probabile, che salti l'Europa in quanto tale, in ballo è la ristrutturazione industriale e geografica dentro l'Europa. Quello che c'è da attendersi è dunque altro: un impatto della crisi in arrivo, divaricante e violento, sulle varie macroregioni interne all' Europa, come anche all'interno dell'Italia.

C'entra qualcosa il Patto di Stabilità? Come nel caso dell'euro, anche qui bisognerebbe invertire la saggezza convenzionale. L'euro, come il mercato unico, è stato concepito dentro un disegno neomercantilista, e neoimperialista, europeo. Ciò non toglie che l'Europa sia un'area pressoché chiusa, potenzialmente autonoma sul piano valutario e finanziario, sulla cui scala sono pensabili politiche economiche alternative. Così, la riforma del Patto nella primavera del 2005 aprirebbe ad interessanti spazi di manovra. In casi di shock esterni o di crescita molto debole sono ammessi 'temporaneamente' disavanzi pubblici in eccesso del 3%; lo stesso vale per politiche di riforma miranti all'innovazione. Siamo oggi in una situazione in cui i bilanci pubblici europei sono spesso in troppa salute, a partire dalla Germania. Politiche coordinate di rilancio in deficit spending sarebbero insomma possibili. Certo, nel caso italiano, bisognerebbe andare contro l'opinione prevalente a livello comunitario e ragionare all'inverso. Partire dai contenuti della spesa da fare, più che da una rivendicazione generica e contabile sui disavanzi. Come scrive Galapagos, «rilanciare una ipotesi di controllo della produzione e della distribuzione del reddito». Però, per farlo, ci vorrebbe una sinistra. Non dico comunista: socialdemocratica. Se ci fosse, dovrebbe battere un colpo.

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