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Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto in Carlo Vercellone

di Bollettino Culturale

ups and downs economyCarlo Vercellone con la sua tesi sulla “crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto” afferma che il profitto e la legge del valore, con lo sviluppo del capitale, acquisiscono un carattere maggiormente rentier. Dopo la crisi del fordismo si può osservare un ritorno e una moltiplicazione della rendita, che implica una generale inversione del rapporto tra salario, rendita e profitto. Secondo l'autore, c'è un approccio molto diffuso all'interno delle teorie marxiste che considerano la rendita un’eredità precapitalista che ostacola lo sviluppo del capitale stesso. Il capitalismo puro non consentirebbe l'esistenza della rendita. Allo stesso modo, esiste una lettura che sostituisce la rendita fondiaria con la rendita finanziaria e interpreta la crisi del 2008 come un conflitto tra questa vocazione rentier del capitale finanziario e il capitale produttivo "buono", che genera profitto e occupazione. Capitale e lavoro avrebbero stipulato un accordo che implicherebbe il controllo del prezzo dei beni, salari compresi, con l'obiettivo di garantire la piena occupazione e ristabilire il funzionamento della legge del valore tempo di lavoro socialmente necessario, contro le distorsioni causate dall'intervento del settore finanziario sul settore produttivo. Vercellone afferma di non essere d'accordo con questa lettura per quattro motivi: (1) la rendita non è al di fuori delle dinamiche del capitale, né si oppone al profitto; (2) la rendita non è separata dall'aumento della dimensione immateriale e cognitiva del lavoro, successiva alla crisi del fordismo, di cui fanno parte i servizi finanziari; (3) c'è un esaurimento della logica industriale dell'accumulazione di capitale e un aumento della vocazione rentier e speculativa dello stesso capitalismo produttivo; (4) nega la natura globale della finanza, che ora è nell'intero ciclo economico, rendendo ancora più difficile distinguere tra economia finanziaria ed economia reale.

Il potere della finanza si manifesta nella fase di crescita, come capacità di appropriarsi dei profitti, e nella fase successiva allo scoppio della bolla speculativa, rendendo i governi e le istituzioni ostaggi della minaccia della crisi globale, ottenendone formidabili concessioni. Tuttavia, credendo in una completa autonomia del settore finanziario che fagociterebbe la cosiddetta economia reale, si omette le compenetrazioni tra un settore e l'altro, nonché altre cause socioeconomiche della crisi. Per l'autore, il passaggio dalla crisi delle dot.com alla crisi immobiliare dei subprime non è solo il risultato di logiche finanziarie, ma rappresenterebbe una svolta decisiva nelle dinamiche del capitalismo cognitivo. La crisi del Nasdaq nel marzo 2000 segna la fine della New Economy, rappresentando i limiti del tentativo del capitale di assoggettare l'economia immateriale e Internet alla logica mercantilista. Dopo il crollo del fordismo, si approfondiscono le contraddizioni soggettive e strutturali del capitalismo cognitivo, legate all'impossibilità di integrare l'economia dell'immateriale e della conoscenza con la crescita del capitale.

Secondo Vercellone, finanziarizzazione e rendita sono cause e conseguenze delle contraddizioni globali all'interno del capitalismo cognitivo. La crisi del 2008 non è una crisi finanziaria che coinvolge l'intera economia reale, c'erano già i segnali della crisi economica prima del suo effettivo scoppio. L'autore presenta quindi un'ipotesi: la crisi attuale, la sua profondità, esprime soprattutto il carattere inconciliabile del capitalismo cognitivo con le condizioni sociali alla base dello sviluppo di un'economia basata sulla conoscenza e necessaria al mantenimento dell'equilibrio ecologico del pianeta. Aggiunge che è anche una crisi strutturale, legata alla legge del valore e alla tendenza di questa e del profitto a diventare rendita. Vercellone spiega che la crisi della legge del valore è: "una crisi della misura che destabilizza il senso stesso delle categorie fondamentali dell'economia politica: il lavoro, il capitale, e ovviamente il valore". Secondo l'autore, due elementi dimostrano "l'esaurimento della forza progressiva del capitale e il suo carattere sempre più parassitario". In primo luogo, "l'esaurimento della legge del valore come criterio di razionalizzazione capitalistica della produzione capace, come nel capitalismo industriale, di fare del lavoro astratto, misurato in un'unità di tempo di lavoro semplice, non qualificato, lo strumento congiunto del controllo sul lavoro e della crescita della produttività sociale”. Questa crisi è legata alla crescita della potenza cognitiva del lavoro e a quella che lui chiama "nuova egemonia dei saperi incorporati nel lavoro rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell'organizzazione manageriale delle imprese", e in questo contesto opera la dinamica del profitto sempre più improntata all'espropriazione di valore da “un rapporto di esteriorità rispetto all'organizzazione della produzione”1.

In secondo luogo, vi è "l'esaurimento della legge del valore intesa come il rapporto sociale che fa della logica della merce il criterio chiave e progressivo dello sviluppo della produzione di valore d'uso e della soddisfazione dei bisogni". Il capitalismo industriale ha trovato una sua legittimazione storica promuovendo una maggiore produttività e soddisfacendo nuovi bisogni, sempre mutevoli e storicamente determinati. Era uno strumento per combattere la scarsità. Oggi, la relazione positiva tra valore e ricchezza è una relazione di dissociazione. Il primato del valore di scambio e del capitalismo stesso si basa sulla distruzione e sulla creazione di scarsità. La legge del valore sopravvive come un involucro vuoto che non adempie più alla sua missione civilizzatrice. Così, l'antagonismo tra capitale e lavoro assume una nuova forma come antagonismo tra le "istituzioni del comune alla base di un'economia fondata sulla conoscenza e la logica d'espropriazione del capitalismo cognitivo"2, una logica che si sviluppa sotto forma di rendita. A partire da questo punto, l'autore presenta le definizioni di salario, rendita e profitto, nonché la teoria di Marx del "divenire rendita del capitale", che è correlata allo sviluppo del general intellect.

Salario, rendita e profitto sono le tre principali categorie di distribuzione del reddito e derivano dalle relazioni capitaliste. Per comprendere la loro relazione, è necessario prima specificare le loro definizioni. Il salario è la remunerazione del lavoro produttivo, nel senso di essere produttore di plusvalore, ed è la base della rendita e del profitto, e questo, a sua volta, si appropria del pluslavoro di ciascun lavoratore, nonché del surplus generato attraverso la cooperazione lavorativa. La rendita del rentier è costituita da tre elementi. Il primo, la genesi e l'essenza della rendita capitalistica è l'"espropriazione delle condizioni sociali della produzione e della riproduzione"3, cioè le diverse forme di rendita associate alla privatizzazione delle condizioni sociali di produzione e trasformazione del comune in merce fittizia. Per sottolineare l'importanza della rendita nello sviluppo capitalista, l'autore cita l'elaborazione di Karl Polany sulle fasi di desocializzazione, risocializzazione e della nuova desocializzazione dell'economia. Il neoliberismo rappresenta oggi un nuovo tipo di accumulazione primitiva, diversa dall'originale, perché espropria un comune costruito collettivamente, e non naturalmente, “che le lotte hanno costruito nei luoghi più avanzati dello sviluppo delle forze produttive, ponendo alcune basi istituzionali e strutturali di un'economia fondata sulla conoscenza” o quelle che l'autore chiama “produzioni collettive dell'uomo per l'uomo” come salute, educazione e ricerca. Il secondo elemento è la rendita legata alla scarsità naturale o artificiale di una risorsa, come la rendita basata sulla proprietà di monopolio. Il terzo, invece, la rendita basata su un mero rapporto di distribuzione, che è un “titolo di credito o un diritto di proprietà […] da una posizione di esteriorità in riferimento alla produzione”4. Si può anche pensare alla remunerazione del capitale come alla rendita se il capitalista non è legato all'attività produttiva, né come gestore o controllore del processo.

La differenza tra rendita e profitto è che quest'ultimo rimane nella fabbrica e viene reinvestito nella produzione, giocando così un ruolo positivo nello sviluppo delle forze produttive. Inoltre, è legato al carattere interno del capitale alla produzione, nella figura del capitalista o dell'imprenditore, che implica necessariamente un'opposizione “tra lavoro di concetto (attributo del capitale o dei suoi funzionari) e lavoro d'esecuzione banalizzato (attributo del lavoro)." Questa opposizione tra rendita e profitto è "il prodotto transitorio di un'epoca del capitalismo, quella del capitalismo industriale"5. In diversi scritti Marx sembra concordare con questa lettura, anche perché ai suoi tempi il capitalista partecipava ancora al processo produttivo, lavorava e, nella tendenza alla sussunzione reale, “le funzioni produttive puramente dispotiche e le funzioni oggettive dell'organizzazione capitalistica della produzione sembrano confondersi” insieme alla divisione del lavoro nel processo produttivo, con “l'incorporazione della scienza al capitale fisso e la separazione del lavoro di concetto da quello d'esecuzione sembrano dare alla direzione del capitale un fondamento oggettivo, inscritto nella materialità stessa del forze produttive”6.

Secondo Vercellone, nel Libro III del Capitale, Marx sviluppa la teoria del "divenire rendita del profitto e della proprietà del capitale" e fa una distinzione concettuale di due determinazioni del capitale: una secondo la proprietà, che porta all'interesse come reddito della proprietà del capitale, e una secondo la sua funzione, che porta al profitto attivo dell'imprenditore. Presenta due ipotesi complementari, la prima che lo sviluppo del credito e delle azioni scinde la proprietà dalla direzione, citando un passaggio del Capitale che anticipa le future scoperte di Keynes. Secondo, che nell'evoluzione del rapporto capitale-lavoro, il capitale abbandona la produzione a causa di “una crisi della sussunzione reale legata a un processo operaio di riappropriazione dei saperi"7. Afferma che la teoria del capitale come rentier acquisisce maggiore rilevanza quando è collegata alla tesi del general intellect perché è possibile osservare nei processi produttivi "l'emergere di un'intellettualità diffusa"8, cioè, l'aumento della conoscenza e dell'istruzione da parte di più lavoratori, quindi, con un'economia basata sulla conoscenza, il capitale utilizza meccanismi di rendita per cercare di mantenere viva la legge del valore. Nella transizione dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo, c'è un cambiamento nel rapporto tra salario, rendita e profitto che l'autore continua a discutere in modo più dettagliato. Dopo la crisi del 1929, si può osservare una caduta della rendita e un aumento del capitale industriale perché c'è la regolamentazione dei mercati, l'implementazione di una tassazione progressiva, la regolamentazione dell'offerta di moneta: tutte misure che impongono ostacoli alla rendita e implicano anche un calo dei tassi d'interesse.

In secondo luogo, nel periodo post-crisi, la forza lavoro era in condizioni migliori nel Welfare State, che riduceva la massa di denaro per il capitale, quindi, per essere appropriato come rendita. Inoltre, a causa dell'ascesa del management scientifico (con Taylor e Ford) e, di conseguenza, dei centri di ricerca e sviluppo, c'è un guadagno dovuto alla valorizzazione non produttiva del capitale. Infine, a quel tempo il ruolo della proprietà intellettuale era ancora molto limitato nonostante l'aumento del capitale fisso. L'autore conclude che a quel tempo la distribuzione del reddito era quasi esclusivamente il risultato della lotta tra salari e profitti. Con la crisi del modello fordista questa situazione si ribalta. Con l'ascesa del capitalismo cognitivo, il profitto è sempre più il risultato di due meccanismi legati al capitalismo improduttivo. Da un lato, il ruolo centrale che iniziano a giocare proprietà intellettuale e titoli di credito; dall'altra, il controllo sul mercato inizia a sostituire il controllo sulla produzione, dovuto alla costituzione di monopoli, all'appropriazione del valore creato all'esterno dell'azienda con il fenomeno dell'outsourcing. Questa inversione indica due tendenze. Nel capitalismo cognitivo, la competitività dell'azienda dipende da ciò che l'autore chiama produttività differenziale, il vantaggio rispetto agli altri capitalisti nasce dalle "risorse cognitive e dalla qualità del sistema di formazione e di ricerca pubblica", cioè la “cooperazione produttiva esterna ai recinti delle imprese."

Il capitalismo è, quindi, obbligato a riconoscere l'aumento dell'autonomia del lavoro nell'organizzazione della produzione e si rende conto che "deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell'insieme delle conoscenze e dei tempi di vita dei salariati"9 e svolgono questo ruolo l'interiorizzazione degli obiettivi dell'azienda, la pressione dei clienti e la costrizione pura e semplice della precarietà, che, secondo l'autore, spiega la stagnazione della classe media. Ora è possibile osservare l'aumento delle politiche creditizie, che si stanno sviluppando per evitare la stagnazione dei consumi; funzionando come un nuovo meccanismo per trasferire il plusvalore al capitale, attraverso gli interessi. Vercellone giunge a due conclusioni, che i concetti di capitale produttivo e plusvalore devono essere ripensati e la negoziazione tra capitale e lavoro deve includere anche attività al di fuori dell'orario di lavoro. Inoltre, come si può vedere, le aziende sono sempre più dedite alle attività finanziarie e meno all'organizzazione della produzione. Quindi, secondo l'autore, è come se "al movimento di autonomizzazione della cooperazione del lavoro corrispondesse un movimento parallelo di autonomizzazione del capitale sotto la forma astratta, eminentemente flessibile e mobile del capitale-denaro"10; in altre parole, c'è una tendenza generale del capitale a trasformare il profitto in un meccanismo di rendita.

Per Vercellone, il punto di partenza e il motore principale della mutazione del capitalismo non è la finanziarizzazione o la rivoluzione informatica, ma la costituzione di un'intellettualità diffusa dovuta all'aumento della scolarizzazione e del livello di formazione della classe operaia, nonché alle lotte e realizzazioni del welfare. Dice: "la parte di capitale cosiddetto intangibile [...] incorporato essenzialmente negli uomini, ha superato la parte di capitale materiale nello stock reale di capitale ed è divenuta il fattore principale di crescita", e questo ha tre significati principali. La prima è che la formazione dell'intellettualità diffusa e la nuova egemonia del capitale cognitivo sono alla base della crescita del cosiddetto capitale immateriale o intangibile. Nello spiegare il secondo significato della sua affermazione, l'autore richiama l'attenzione sulla possibilità che categorie come immateriale, intangibile o capitale umano introducano distorsioni per nascondere che il capitale cognitivo non è altro che intelligenza collettiva, o il "ruolo egemone rispetto alla scienza e ai saperi codificati incorporati nel capitale fisso”11, che sfugge a misure oggettive e il cui valore è attualmente determinato dalla logica di borsa; per questo si affida al concetto di Mario Tronti, “il lavoro vive come non capitale”. Vercellone aggiunge che non solo il capitale, ma il prodotto stesso del lavoro è “sempre più immateriale e si incorpora in beni innovazione, in conoscenza, in servizi informatici che costituiscono delle merci fittizi”. Spiega che le merci fittizie sono quelle che si discostano dai criteri tradizionali per definire una merce “in ragione del loro carattere non rivale, cumulativo e difficilmente escludibile”12. Secondo l'autore, all'origine della crisi della New Economy c'è la seguente situazione contraddittoria. In modo singolare, la produzione immateriale non attrae risorse di mercato per competere con altri settori e compensare la mancanza di domanda effettiva. Nel suo tentativo di trasformare la conoscenza in capitale e merce fittizia, il capitale genera una situazione paradossale. Poiché il valore di scambio della conoscenza aumenta a causa della privatizzazione, ad esempio, delle università e dei centri di ricerca e sviluppo (R&S), il suo valore d'uso si riduce proprio a causa della privatizzazione e della scarsità del servizio.

Infine, il terzo significato assunto dallo sviluppo del capitale cognitivo è che il settore che guida l'economia basata sulla conoscenza non è nei laboratori di ricerca e sviluppo, ma nelle istituzioni del welfare, al di fuori della logica commerciale perché la subordinazione di queste istituzioni alla logica mercantile crea una scarsità artificiale di risorse. Come accennato in precedenza, i rapporti di produzione capitalistica oggi rappresentano un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, e ci sono tre fattori che possono spiegare questa contraddizione. Primo, il carattere cognitivo e affettivo del lavoro, che agisce sull'uomo e non sulla materia inanimata. In secondo luogo, l'impossibilità di aumentare la produttività dello stesso misurata dalla sua quantità a scapito della qualità, dal momento che sono oggi servizi come sanità, istruzione... Terzo, la distorsione che deriva dal tentativo di applicare la logica della domanda solvibile ai beni comuni, la cui produzione è basata sulla gratuità e il libero accesso; "il loro finanziamento non può dunque essere assicurato che attraverso il prezzo collettivo e politico rappresentato dalla fiscalità"13. In Europa oggi, in paesi come Italia, Francia e Grecia, si osserva una forte lotta tra il neoliberismo, con la sua espropriazione rentier del comune, e il salvataggio del welfare, che propone uno sviluppo basato sulla produzione dell'uomo per l'uomo. Nel capitalismo cognitivo, lo sviluppo della rendita, di cui la finanziarizzazione è solo una parte, acquista una dimensione strutturale che si esprime nella contraddizione tra l'aumento dell'importanza del lavoro immateriale e la logica della valorizzazione industriale. La crisi rappresenta il culmine di questa contraddizione tra lavoro e capitale e tra produzione sociale e appropriazione privata. Data questa situazione, il capitale non sarà in grado di attuare un nuovo New Deal, cioè un nuovo accordo tra capitale e lavoro a causa della fine della capacità rivoluzionaria del capitale e della fine della legge del valore. Una simile proposta minaccerebbe la coercizione che il capitale esercita sul lavoro a causa della sua precarietà. Lo sviluppo della produzione stessa, nello stile industriale, non soddisferà più i bisogni umani, in quanto si basa su “attività, come la produzione dell'uomo per l'uomo, a cui la logica della mercificazione e della redditività non si può applicare se non al prezzo di ineguaglianze insostenibili e di una drastica diminuzione della produttività sociale”14.

Dopo aver presentato alcune considerazioni e proposte per la lotta politica, Vercellone conclude che “si assiste ad un'estensione importante dei tempi di lavoro non retribuiti che, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, partecipano direttamente o indirettamente alla formazione del valore captato dalle imprese”15. Assistiamo, quindi, a tendenze che portano all'erosione dei tradizionali confini tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera del tempo libero.

Il lavoro di Vercellone, sfugge alla prospettiva che sembra dominare gli intellettuali italiani che teorizzano il lavoro immateriale e il general intellect come aspetti che spiegano il passaggio dal capitalismo industriale o fordista al capitalismo cognitivo o postfordista. Essi concepiscono la crisi da un punto di vista ricardiano e il capitalismo cognitivo come un modo per superare le barriere imposte alla forma precedente. Anche partecipando al lavoro di ricerca con gli stessi presupposti di autori come Boutang e Lazzarato, il concetto di crisi in Vercellone si configura come un limite assoluto che vale anche per il capitalismo cognitivo, come espressione del capitale in generale. L'autore definisce la crisi del capitalismo cognitivo come la crisi della legge del valore, più precisamente della sua unità metrica, che incide sul significato delle categorie fondamentali dell'economia politica: lavoro, capitale e valore. La sua formulazione secondo cui la produttività sociale è potenziata dal lavoro cognitivo, mentre il lavoro vivo, che egemonizza l'accumulazione di conoscenza, precedentemente limitata al capitale fisso sotto forma di macchine e nell'organizzazione del processo produttivo da parte del capitale, porta a un cambiamento nella forma di accumulazione di plusvalore, incorporando esternalità, offuscando il confine tra profitto e rendita e rendendo impossibile misurare il valore attraverso la misurazione del tempo sociale.


Note
1Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, pag.75
2Ibid, pag.76
3Ibid, pag.78
4Ibid, pag.79
5Ibid, pag.81
6Ibid, pag.82
7Ibid, pag.83
8Ibid, pag.84
9Ibid, pag.87
10Ibid, pag.89
11Ibid, pag.90
12Ibid, pag.91
13Ibid, pag.92
14Ibid, pag.94
15Ibid, pag.96

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