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Ma quale “green deal”, qui casca l’asino neoliberista

di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta

green deal asino neoliberistaLa comunicazione imperiale, di questi tempi, è decisamente schizofrenica. Da un lato c’è l’esibizione di forza incontrastabile (sanzioni alla Russia, minacce alla Cina, fiducia nella “vittoria Ucraina”, pretesa che il resto del mondo segua – come negli ultimi 30 anni – i propri ordini, ecc).

Dall’altra la corsa all’accaparramento di nuove forniture per le materie prime energetiche che dalla Russia arrivano sempre meno, con piani di razionamento per i consumi della popolazione (sorpassando la “delicatezza” dei “consigli per consumare meno”).

Per capirci qualcosa di più, come spesso facciamo, andiamo a vedere come la stanno prendendo gli specialisti dell’economia, dato che dei fogliacci di propaganda euro-atlantica (Corriere e Repubblica su tutti) non c’è proprio da fidarsi.

Un disperato editoriale di TeleBorsa – non proprio un foglio bolscevico – chiarisce molto.

Intanto che modo di produzione capitalistico e ambientalismo non possono proprio “coesistere”. Tutta la retorica della “transizione ecologica”, tra eventi come il Cop26 e il Recovery Fund, viene smontata come una follia (capitalisticamente parlando).

In effetti, già l’Unione Europea aveva fatto robustissime marce indietro già prima dell’inizio della guerra in Ucraina. La revisione della “tassonomia” relativa alle varie fonti energetiche aveva chiarito che gas, nuceare e perino il carbone sono “ecologici”. E quindi che nulla, in realtà, doveva cambiare, tranne qualche robusto finanziamento alle infrastrutture con tecnologie “innovative”.

In secondo luogo, che la dimensione della riduzione dei consumi dovuti alla carenza di rifornimenti energetici (sbrigativamente chiamati “gas russo”) sarà di dimensioni drammatiche, che fanno impallidire il ricordo della crisi petrolifera del 1973.

In terzo, che questo dramma sarà quasi soltanto europeo, visto che il resto del mondo non aderisce alle sanzioni contro la Russia e gli Stati Uniti hanno non solo l’autosufficienza energetica (al prezzo di inquinantissime tecnologie di fracking), ma sono addirittura degli esportatori netti.

Il quarto dato (non per importanza) è che le sanzioni disegnano nuovi confini geostrategici e commerciali che frantumano il mercato mondiale disegnato ai tempi della cosiddetta “globalizzazione”. E quindi che l’illusione euro-atlantica di disporre del mondo come “cosa nostra”, condannando alcuni paesi per premiarne altri (senza alcun criterio etico, come dimostrano per esempio i rapporti con Arabia Saudita e Azerbaigian),sta andando a dissolversi davanti a nuovi sistemi di alleanze economiche, politiche e persino militari (Brics, Sco, ecc).

In questo nuovo quadro, e non è un dettaglio da poco, le materie prime – fisiche – tornano a contare più della finanza creativa.

Il quinto, che ci riguarda più da vicino, è l’incapacità-impossibilità per l’Unione Europea (che è una struttura di potere quasi-statuale, non “l’Europa”) di cambiare impostazione: la logica dei trattati che la regolano è quella dell’”austerità” del pareggio di bilancio obbligato. Neanche davanti allo shock dei prezzi del gas riesce a cambiare registro e a superare i differenti interessi nazionali.

Sul gas, per esempio, la Germania è contraria al price cap perché teme di restare senza il gas russo prima di aver trovato forniture alternative delle stesse dimensioni. L’Olanda invece perché la borsa speculativa di Amsterdam le porta extraprofitti senza alcuno sforzo produttivo. E così via per ognuno dei 27 membri.

Questi diversi dati strutturali convergono in una prospettiva, da questa angolazione tutta interna al mondo produttivo occidentale ed europeo, facilmente sintetizzata dal sempre acuto Guido Salerno Aletta, in una formula glaciale: “L’Unione europea sarà attraversata da tensioni crescenti, disgregative. Come per l’URSS, che collassò per la sovrapposizione tra riforme strutturali e crisi economica sistemica“.

Non è il tipo di “rottura” – liberatoria – che ci auguravamo, ma è comunque una rottura degli equilibri che richiede un sovrappiù di capacità analitica e di immaginazione politica.

Buona lettura.

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Green Deal, una Perestroika fatale per l’UE

Guido Salerno Aletta – TeleBorsa

Neppure un anno fa, a fine ottobre a Roma con il G20 e poi a Glasgow con il COP26, il mondo si era unito nell’intento di perseguire la decarbonizzazione della produzione, per contrastare l’innalzamento della temperatura atmosferica e gli sconvolgimenti climatici ed ambientali che ne conseguono.

La commozione mostrata dai leader per questo successo straordinario era parsa francamente eccessiva, come il lancio delle monetine nella fontana di Piazza di Trevi, a Roma. Il distinguo della Cina, con impegni non per il 2050 ma verso la metà del secolo, non sminuì la portata dell’evento, definito storico.

L’Unione europea aveva deciso di cavalcare il processo di cambiamento epocale, di questa sorta di Terza Rivoluzione Industriale, per far diventare i 27 Paesi dell’Unione i primi al mondo a raggiungere la neutralità climatica, riducendo di almeno il 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto al livello del 1990: il Programma “FIT for 55”, varato a luglio 2021, rappresentava il completamento di una agenda di lungo periodo, che aveva già disincentivato tutte le iniziative volte ad utilizzare fonti energetiche fossili e soprattutto le nuove interconnessioni energetiche con l’estero.

E’ da anni che l’Unione europea ignora e chiaramente osteggia qualsiasi iniziativa che possa interferire con la strategia di abbandono delle fonti energetiche fossili: non ha avuto alcun sostegno il GALSI, il nuovo metanodotto che avrebbe dovuto collegare l’Algeria con la Sardegna per approdare a Piombino al fine di alimentarne gli impianti siderurgici; la situazione di caos politico in Libia è stata lasciata marcire; è rimasta senza risposta la supponenza con cui la Turchia ha fatto allontanare le imbarcazioni italiane che si erano avvicinate a Cipro per svolgere attività di prospezione sottomarina. Ha lasciato costruire il North Stream 2 alla Germania, perché a Berlino non si può mai dire di no.

Le energie rinnovabili, il solare e l’eolico in particolare, sono state considerate come la manna dal cielo: tutto dipenderà da loro, solo da loro: il Next Generation UE è tutto un tripudio rivolto alla transizione ambientale.

Ed invece siamo nei guai.

Mentre gli Usa sono completamente indipendenti dal punto di vista energetico per via della produzione interna da fonti fossili, per i pozzi di gas e di petrolio nei giacimenti di scisto, e non hanno da temere né per le conseguenze della guerra in Ucraina né per la riduzione delle importazioni di petrolio e di gas dalla Russia, in Europa si stagliano nere le prospettive di una crisi economica e sociale dalle conseguenze imprevedibili.

L’Unione europea ha varato finora ben sette pacchetti di sanzioni nei confronti della Russia decidendo di rendersi indipendente al più presto dalle sue forniture di gas.

Per compensarle, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea stanno andando in giro come trottole, con il cappello in mano: dall’Algeria al Qatar, dalla Nigeria al Congo, dall’Egitto ad Israele, a chiunque chiedono approvvigionamenti.

Come se non bastasse, l’ultima riunione dei Ministri delle finanze del G7 ha deciso di imporre un price cap al prezzo del petrolio russo, invitando l’Unione europea ad aderire con un nuovo pacchetto di sanzioni, ed altri Paesi ad unirsi a questa coalizione per contrastare le violazioni del diritto internazionale compiute dalla Russia invadendo l’Ucraina.

In Europa si stanno preparando i piani per “schiacciare la curva della domanda di energia“: sarà un razionamento in piena regola che sconvolgerà il sistema industriale e non solo la vita quotidiana come accadde nel ’73 con le domeniche a piedi, il telegiornale anticipato alle 20 e l’ultimo spettacolo al cinema alle 22.

L’abbassamento di un grado della temperatura delle case servirà a ben poco, come pure è poco valida l’idea di interrompere la erogazione di energia nelle abitazioni mettendo un blocco automatico ai contatori quando si superano certi livelli di consumo, si dice 2,7 KWh.

Si possono creare danni rilevanti, perché insieme alle lavatrici si spegnerebbero anche i frigoriferi. Non parliamo degli ascensori nei condomini.

Mentre alcune produzioni industriali sono già bloccate, come quella dei fertilizzanti, per via dei costi o della mancanza della materie prime, altri impianti produttivi sono già stati fermati per i rincari delle bollette, a cominciare dagli impianti siderurgici, di fabbricazione del vetro e delle ceramiche. Tutto si sconvolge: se si ferma la produzione a monte, a valle non arriva nulla.

Non basterà consolare gli imprenditori promettendo loro di erogare la Cassa Integrazione guadagni: le carenze di approvvigionamento di prodotti, al di là dei prezzi dell’energia, scatenerà il caos.

A differenza del lockdown sperimentato durate la pandemia, che aveva colpito soprattutto le attività commerciali non essenziali, quelle sportive e ricreative, il turismo e la ristorazione, lasciando indenni quelle produttive, stavolta accadrà esattamente il contrario.

Si rimarrà a casa perché nelle fabbriche, negli impianti di produzione, negli uffici e nei negozi non ci sarà più niente da fare.

I negozi europei saranno vuoti perché la produzione industriale si fermerà. Si formeranno le code per via dei razionamenti, della mancanza di merci, dalle pompe di benzina ai supermercati: una prospettiva da Unione Sovietica allo sbando, come accadde a partire dalla metà degli Anni Ottanta.

In quel periodo, l’Unione Sovietica fu sottoposta ad una enorme pressione militare, strategica e soprattutto economica che la portò al collasso.

L’invasione russa in Afganistan, ben provocata, fu contrastata armando i Talebani, gli Studenti islamici formati nelle madrasse ed incitati a lottare senza sosta usando ogni forma di guerriglia e di terrorismo.

In Europa, si dispiegarono i Pershing ed i Cruise per contrastare la minaccia sovietica degli SS20, con l’Italia che svolse un ruolo di primo piano.

Gli Stati Uniti, sotto la Presidenza di Ronald Reagan vararono la Strategic Defense Initiative, il programma straordinario di innovazione nel settore degli armamenti conosciuto come “Guerre stellari” o “Scudo spaziale“, volto a creare capacità di intercettazione dei missili nucleari nemici prima che potessero sorvolare il territorio americano.

Per contrastare l’inflazione americana, che durava da quasi un decennio, la Federal Reserve americana alzò brutalmente i tassi di interesse, portandoli da reali negativi a positivi: fu presto imitata dalle Banche centrali europee, con drammatiche conseguenze soprattutto per l’Italia, visto che nel frattempo la seconda crisi petrolifera aveva aumentato di molto il prezzo del barile: il debito pubblico andò fuori controllo e cominciarono a fallire le imprese che si erano indebitate a tassi reali negativi per finanziare investimenti a lungo termine.

L’Unione Sovietica, per parte sua, non solo era appesantita dagli impegni militari all’estero e dal sostegno offerto agli altri Paesi comunisti come Cuba, l’Angola ed il Vietnam, ma aveva l’ostilità crescente dei Paesi del Patto di Varsavia, che si erano manifestare in Ungheria sin dal ’56 e poi in Cecoslovacchia nel ’78. Da ultimo, c’erano i disordini crescenti in Polonia, con Solidarnosc nei cantieri navali di Danzica.

Come se non bastasse, a metà degli anni Ottanta il prezzo del petrolio cominciò a calare, fino a dimezzarsi rispetto al livello che era stato raggiunto all’inizio del decennio per lo shock determinato dalla rivoluzione islamica e dall’invasione dell’Iran da parte dell’Irak: nei Paesi non Opec era stata avviata una intensa attività di ricerca di fonti petrolifere che andavano a sostituire quelle della Russia che dovette conseguentemente dimezzare la produzione, con danni spesso irreversibili agli impianti, oltre a vedere i propri introiti cadere in picchiata.

Per l’Urss, che si era dedicata allo sviluppo del settore estrattivo, fu una terribile mazzata che si andò a sovrapporre alle situazioni di difficoltà derivanti dalle iniziative volte a ristrutturare l’intero sistema politico, sociale ed economico: per superare le inefficienze della economia pianificata e soprattutto il conflitto insanabile tra il sistema produttivo a capitale statale e quello parallelo privato che cresceva saccheggiando e sabotando il primo.

Oggi l’Europa si trova in condizioni assai delicate: sostiene l’Ucraina nella guerra contro la Russia, dopo essersi dissanguata per un trentennio al fine di aiutare i Paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est nel recuperare livelli di reddito e di produzione; si trova alle prese con una crisi pericolosissima sul versante energetico, proprio mentre aveva avviato un profondo processo di riforma strutturale a livello produttivo e sociale con il Green Deal; deve affrontare la prospettiva di una recessione indotta dalle politiche monetarie restrittive, adottate per cercare di contrastare una fiammata dei prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici che è iniziata ben prima della invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

La Russia sembra aver assorbito, almeno finora, il colpo assestatole con le sanzioni economiche e finanziarie irrogate da parte dei Paesi Occidentali e dai loro alleati: ha una bilancia commerciale ancora in attivo, un basso debito pubblico ed uno privato sull’estero all’apparenza sostenibile, anche se il tasso di inflazione è elevato e la crescita è bassa.

Gli Occidentali ritengono che l’assedio cui l’hanno sottoposta produrrà un progressivo strangolamento: per via del blocco delle esportazioni dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico, dei pezzi di ricambio di velivoli, auto, apparati e macchinari, della chiusura degli impianti produttivi delle loro imprese e del ritiro delle banche.

Per la verità, oltre agli accordi tra i BRICS, si stanno consolidando aggregazioni alternative come lo SCO, cui anche l’Iran ha appena chiesto di aderire: c’è un assetto di cooperazione politica ed economica internazionale che va ben oltre le istituzioni nate dopo la Seconda guerra mondiale.

L’Europa si trova schiacciata: debiti pubblici elevati; forte dipendenza energetica e dall’estero per le materie prime ed i prodotti agricoli; posizione finanziaria netta verso l’estero generalmente negativa se si fa eccezione per la Germania, l’Olanda e l’Italia, mentre la Francia è passiva per oltre 800 miliardi di euro e la Spagna per poco meno di 1.000 miliardi; moneta unica fortemente svalutata sul dollaro per via dei capitali alla ricerca di più elevati rendimenti e certezze.

Fronteggerà un inverno difficile: non solo al freddo ed al buio, ma con il sistema industriale che potrebbe schiantarsi portandosi dietro quello bancario.

L’Unione europea sarà attraversata da tensioni crescenti, disgregative.

Come per l’URSS, che collassò per la sovrapposizione tra riforme strutturali e crisi economica sistemica.

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