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Come finirà la guerra in Ucraina?

di Visconte Grisi

Schermata del 2022 10 17 15 01 15Quando si cerca di riflettere sull’evoluzione che potrà avere la guerra in Ucraina una domanda sorge spontanea: la guerra e le distruzioni in Ucraina possono costituire i prodromi di una terza guerra mondiale? Certamente, anche se da diversi anni ormai si sente parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, di “guerra per procura” ecc., questa volta il ricorso a una terza guerra mondiale per risolvere la crisi è reso molto problematico dall’entità delle distruzioni che un tale evento comporterebbe.

Inoltre attualmente nessuna delle potenze in gioco sembra in grado di produrre questo immane sforzo: non gli Stati Uniti che rimangono comunque i più forti sul piano militare ma deboli sul piano industriale dopo decenni di delocalizzazioni, la cui egemonia mondiale si fonda ormai solo sul capitale finanziario; non l’Unione Europea, debole sul piano militare e in preda alle solite divisioni, con una industria tecnologicamente avanzata che ha bisogno dei mercati mondiali di gamma medio/alta; non la Russia che accoppia alla potenza militare ereditata dall’URSS una economia basata quasi esclusivamente sull’esportazione delle materie prime; non la Cina ancora indietro sul piano militare e tesa ad espandersi sul piano commerciale lungo le varie “vie della seta” e con problemi di sviluppo interno ancora non risolti.

L’andamento della guerra, dopo il primo azzardo di Putin in Ucraina, sembra confermare questa ipotesi con gli Stati Uniti aggressivi a parole ma cauti nei fatti, la Cina che attende sorniona l’evolversi degli avvenimenti e l’Unione Europea con smanie interventiste che servono per giustificare una politica di riarmo.

Dopo il fallimento del tentativo di Putin di una guerra lampo, una “blitzkrieg” di infausta memoria, la guerra in Ucraina si è impantanata in un territorio caratterizzato da profonde differenze etniche, linguistiche ed economiche, né si riesce a intravedere una qualche soluzione negoziale di una guerra che, peraltro, non è stata mai dichiarata.

La guerra in Ucraina sembra quindi destinata a rimanere un episodio della guerra permanente già in atto da alcuni decenni, un episodio certamente doloroso per le distruzioni e le migliaia di vittime civili, ed emotivamente (e mediaticamente) più sentito di quanto avvenuto per l’Afghanistan o per l’Iraq, per la Siria o per la Libia in quanto più vicino a noi nel cuore dell’Europa. Ricordo però che già nel 1999 ci fu una guerra in Europa, ovvero nella ex Jugoslavia, che costituisce un precedente rispetto alla guerra attuale.

Per ritornare comunque alla nostra domanda iniziale, in ultima analisi la questione se la guerra in Ucraina possa diventare l’inizio della terza guerra mondiale o rimanere un episodio della guerra permanente già in atto dipenderà dall’andamento della crisi capitalistica iniziata ormai qualche decennio fa e ancora non risolta. Se la crisi capitalistica in corso viene definita come una crisi ciclica dell’accumulazione, di cui è piena la storia del capitalismo, una sua soluzione attraverso una guerra generalizzata può essere una ipotesi sostenibile. Ma se la crisi in corso è espressione del declino storico del modo di produzione capitalistico, pur con una sua accelerazione, l’ipotesi di una guerra generalizzata perde di vigore. Come dice Paul Mattick in un suo articolo del 1940:

“Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”.(1)

Un secondo elemento di riflessione è il seguente. La guerra in corso può segnare la fine del processo di “globalizzazione” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, o portare verso una nuova “globalizzazione” bipolare, come sostengono alcuni, a mio avviso, nostalgici di un mondo che fu, in cui tutto era più chiaro e in cui ci si poteva schierare agevolmente. Per maggiore chiarezza la nuova “globalizzazione” bipolare avrebbe come protagonisti i paesi BRICS con alla testa Cina e Russia. Credo però che bisogna operare una distinzione fra creazione del mercato mondiale, che è una caratteristica permanente e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, pur con le sue diverse fasi, e la cosiddetta "globalizzazione", intesa come la risposta data dal capitale alla crisi degli anni 70 e alla relativa caduta del saggio di profitto, con le sue caratteristiche specifiche che oggi sono entrate in una fase di crisi. Una risposta che ha portato attraverso processi di concentrazione globale, di megafusioni transnazionali e acquisizioni all'estero, al formarsi delle grandi multinazionali senza patria in concorrenza fra di loro per il controllo del mercato mondiale.

Robert Reich, già ministro del lavoro del governo statunitense, salutava nel 1992, dal suo punto di vista privilegiato, il superamento dei confini nazionali da parte del mercato mondiale. Egli affermava:

”Dato che quasi tutti i fattori di produzione – il denaro, la tecnologia, le aziende e le strutture – si muovono senza sforzo attraverso le frontiere, l’idea stessa di economia nazionale sta perdendo significato”. In futuro “non vi saranno più prodotti, tecnologie, aziende o industrie nazionali. Non vi saranno più economie nazionali così come abbiamo sinora inteso questa espressione”(2).

Non solo, il formarsi delle grandi multinazionali ha determinato una nuova e, forse, inedita divisione internazionale del lavoro basata sul controllo delle nuove tecnologie e sulle differenze, a livello mondiale, del costo del lavoro. Tuttavia mi sembra difficile riorientare la divisione internazionale del lavoro (con il conseguente commercio mondiale), affermatasi negli ultimi decenni, per costringerla entro i limiti di blocchi geopolitici, come sostengono i sostenitori della “fine della globalizzazione”.

Recentemente il presidente Biden ha emesso il “Chips and Science Act 2022” il cui scopo è quello di riportare la produzione dei chips (semiconduttori) negli Stati Uniti. E’ noto che già prima della guerra si erano verificate gravi disfunzioni in importanti filiere produttive per la mancanza o la carenza dei chips (microprocessori di computer) e di altri semilavorati che viaggiano lungo le catene produttive delocalizzate. La guerra in corso ha accentuato in maniera estrema questi processi. . Nel 2014 i compagni di Clash City Workers nel loro libro "Dove sono i nostri" parlavano del fenomeno del “ reshoring” cioè della tendenza al ritorno di alcuni settori produttivi nei paesi a capitalismo avanzato e in particolare negli USA. "E' il caso del programma di attrazione di investimenti esteri "Select USA" varato nel 2011 dall'amministrazione Obama che "intende rappresentare il paese come destinazione produttiva senza pari e sostenere la campagna per una riscossa manifatturiera quale pilastro della ripresa economica"..."Emblematica di questo "nuovo" scenario è la vociferata delocalizzazione di Foxconn – la famigerata multinazionale taiwanese che lavora soprattutto per la Apple e che in Cina ha stabilimenti di centinaia di migliaia di operai - nientemeno che negli USA : la "soluzione americana" potrebbe richiamare il modello adottato da Marchionne con la Chrysler. Abbassando il costo del lavoro, per sostenere l'adeguamento e l'espansione degli organi produttivi"..."Per capirci: gli operai della Chrysler sono passati dai 30$ netti all'ora del pre-crisi ai 15$ del 2013".(3) Il programma del “reshoring” era naturalmente al primo posto all’epoca della presidenza Trump. Trump convocò alla Casa Bianca i CEO di Ford, Fiat Chrysler (Sergio Marchionne) e di General Motors, promettendo una vasta "deregulation" in cambio del ritorno della produzione in USA, e minacciando, in caso contrario, forti dazi doganali. La risposta dei CEO fu tiepida e ambigua, mettendo in evidenza la difficoltà delle multinazionali a rientrare in una visione "nazionale" dei loro interessi. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare. A meno che le sanzioni di guerra di Biden non riescano a fare quello che i dazi doganali di Trump non sono riusciti a portare a termine. Parliamo qui del gas liquido americano, quasi imposto da Biden ai dubbiosi alleati europei, anche se costa di più, ha un processo di estrazione più inquinante, deve essere trasportato via mare e necessita della costruzione di rigassificatori. Le posizioni oscillanti di diversi governi europei sulla questione delle sanzioni sul gas nei confronti della Russia sono lì ad indicare le difficoltà economiche conseguenti alle sanzioni. A questo proposito Mattick dice:

“... Proprio questo processo, anzi, non fa altro che illustrare una volta di più la completa incapacità del capitalismo di portare a compimento un riassetto davvero razionale dell’economia mondiale... Il capitalismo, dopo aver creato il mercato mondiale, è incapace di garantire per sé stesso una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale e di controllare i reali bisogni della produzione mondiale, rappresentando quindi un vincolo per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive umane... a meno che non venga creato un organo socio-economico per la regolamentazione cosciente dell’economia mondiale”.

Ma questo sembra fuori dalla portata del modo di produzione capitalistico. La spesa militare è stata portata al 2% del PIL, come già richiesto da Trump nell’ambito del finanziamento della NATO. Naturalmente questo porterà a tagli alla spesa pubblica per il welfare (pensioni, sanità, istruzione ecc.), che sono comunque salario indiretto dei lavoratori. La produzione di armi, di più o meno alto livello tecnologico, continuerà comunque a crescere a dismisura. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica , con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche. A questo proposito destano quindi stupore le affermazioni di Draghi, relative alla cosiddetta “Bussola strategica per la difesa europea”, quando parla di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi. Si riferisce evidentemente alle ordinazioni che possono arrivare alla media e piccola industria italiana dalla nostrana Leonardo Finmeccanica o, più ancora, dal progettato riarmo tedesco. A questo proposito si parla della nascita del “Polo imperialista europeo”, mentre all’orizzonte si profila un nuovo PNRR europeo appositamente creato per supportare questa politica di riarmo.

Inoltre dobbiamo ricordare che da più di due anni noi ci troviamo in uno stato d’emergenza che da praticamente mano libera al governo di legiferare attraverso decreti legge, uno stato d’emergenza giustificato finora con motivi sanitari molto discutibili, e che ora viene prorogato a causa della guerra. A questo punto risulta sempre più difficile distinguere fra un regime definito come democratico e uno bollato come autocratico. Già all’inizio della pandemia avevamo previsto che si sarebbero imposte forme di governo autoritarie e decisioniste e sarebbe aumentata la militarizzazione del territorio e della società. A questo proposito vogliamo ricordare che nell’aprile 2003 la NATO ha pubblicato un rapporto di 140 pagine denominato “Urban Operations in the Year 2020” (UO 2020). Nel rapporto si prevedeva, entro l’anno 2020, una crescita delle tensioni economico-sociali, alle quali si potrà far fronte – secondo il rapporto – solo con una presenza militare massiccia, spesso su periodi di tempo prolungati. Nell’UO 2020 si consiglia di iniziare gradualmente ad utilizzare l’esercito in funzione di ordine pubblico all’avvicinarsi della crisi mondiale ipotizzata per il 2020. Ebbene siamo arrivati al 2022 e gli scenari ipotizzati nel rapporto NATO si rivelano molto attuali e quindi la raccomandazione contenuta nell’ultima parte “sull’esercito in funzione di ordine pubblico”, già operante in Italia da diversi anni, ha subito una accelerazione proprio in occasione dell’emergenza coronavirus, segnando una ulteriore militarizzazione del territorio.

Ma le conseguenze più drammatiche della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni anti russe si stanno manifestando sul piano economico e sociale. Parliamo qui di quella che viene definita una “economia di guerra”, senza che ci sia peraltro una guerra apertamente dichiarata. Già all’inizio della pandemia di Covid 19 prendevamo in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Citavamo, ad esempio, “la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori... la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico... l’aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato”.(4) A tutto ciò si sarebbe aggiunto, poco tempo dopo, la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, abbellito con il termine esotico di lockdown e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa, anche qui camuffato con un termine falsamente ecologico, e cioè il green pass.

Del resto lo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina ha fatto quasi cadere nel dimenticatoio tutte le belle promesse di grande sviluppo economico contenute nel PNRR, provocando anzi una accelerazione vertiginosa della crisi. Intanto era già partito un altro elemento fondamentale dell’economia di guerra, vale a dire il vistoso aumento di prezzo delle materie prime con la conseguente ripresa dell’inflazione.

L’aumento di prezzo interessava naturalmente il petrolio, il gas naturale o il carbone, di cui peraltro esiste oggi nel mondo una grande sovrapproduzione, ma, ancora di più alcune materie prime necessarie alla cosiddetta transizione green e a quella digitale. Parliamo di rame, litio (batterie), silicio (microchip), cobalto (tecnologie digitali), metalli rari ecc.

“Questa combinazione fra stagnazione e inflazione potrebbe ricordare la grande crisi degli anni 70, dopo la famosa “crisi petrolifera” del 73, quando, per descrivere la nuova situazione economica venne coniato il termine, poi diventato corrente, di “stagflazione”.(5)

Lo scoppio della guerra ha naturalmente portato all’estremo questi fenomeni, compresa una inflazione galoppante che coinvolge ora anche i generi di prima necessità, con il conseguente taglio di fatto dei salari dei lavoratori, oltre all’aumento stratosferico delle bollette energetiche. Bisogna notare però che questi fenomeni sono solo in parte dovuti alla guerra in Ucraina e alle sanzioni, mentre la parte più consistente degli aumenti delle materie prime è dovuta alle speculazioni finanziarie in corso alla borsa di Amsterdam e ai conseguenti sovrapprofitti delle grandi multinazionali dell’energia, come la nostrana ENI.

L’aumento delle bollette sta già provocando in Europa alcune reazioni. In Gran Bretagna circa 130.000 persone, per ora, riunite nel gruppo Don’t Pay UK, si sono impegnate a non pagare più la bolletta dell’elettricità a partire dal primo ottobre.(6) Una forma di disobbedienza civile che ricorda le forme di autoriduzione in voga in Italia nel 76/77. A Napoli, qualche giorno fa, un centinaio di disoccupati, aderenti al movimento “7 novembre”, hanno bruciato in piazza, durante un presidio davanti alla sede del consiglio comunale, le bollette raddoppiate o triplicate rispetto a quelle di qualche mese fa.(7) A Tolosa, in Francia, un collettivo ambientalista ha rivendicato un’azione di sabotaggio di due campi da golf irrigati. L’azione fa eco alla discussione sulla gestione delle risorse idriche che anima l’opinione pubblica francese, dopo la scelta del governo di mantenere l’irrigazione dei campi da golf, e al contempo di vietare l’irrigazione degli orti. Poco tempo prima, nel comune di Gérardmer nei Vosgi, le vasche idromassaggio di cinque case di villeggiatura sono state sabotate, dopo giorni di forti disagi causati dalla pesante crisi idrica che ha colpito la regione. Nel frattempo a Parigi un gruppo ecologista, Les dégonfleurs de Suv, ha rivendicato una serie di azioni di sgonfiaggio dei pneumatici dei Suv parcheggiati in strada, denunciando la responsabilità di questi veicoli nella produzione di emissioni di gas climalteranti. Si tratta evidentemente di azioni rivolte contro i consumi dei ricchi, che alludono a una giusta interpretazione classista della riduzione dei consumi energetici.

In ogni caso, se la situazione, come sembra molto probabile, dovesse precipitare in autunno con il prezzo del gas schizzato fino a 350 euro/MWh, rispetto ai 25 euro/MWh di prima della guerra, l’Unione Europea sarebbe costretta ad adottare delle misure in parziale contraddizione con il neoliberismo atlantista. Si parla di “sospendere temporaneamente il funzionamento libero del mercato Ttf di Amsterdam e creare un fondo anti speculativo finanziato dalla Banca Centrale Europea... Ma, per ottenere questo risultato, serve una determinazione e una coesione europea che latita, con effetti devastanti sull’economia reale”.(9)

In mancanza di questo ogni stato andrà per la sua strada, come già in parte sta avvenendo. Spagna e Portogallo hanno già fissato un tetto al prezzo del gas, fidando sulla ridotta interconnessione energetica con il resto del continente. Naturalmente l’Olanda è contraria alla fissazione di un tetto, beneficiando della vendita del loro gas a prezzi alti, mentre anche la Norvegia, che fa parte della NATO ma non dell’UE, sta facendo affari d’oro con la vendita del suo gas. La Francia è parzialmente meno colpita dai rincari in quanto produttrice di energia con le sue centrali nucleari,(10) mentre l’economia della Germania è gravemente in pericolo dopo la chiusura del gasdotto North Stream. L’Italia è forse il paese più a rischio visto che importa circa 71-74 miliardi di metri cubi ogni anno e il cui debito pubblico diverrebbe facile bersaglio della speculazione finanziaria. Si accentuerebbero naturalmente tutte le forme di sovranismo di destra e di sinistra; dopo l’Ungheria di Orban che continua a comprare il gas dalla Russia anche in Repubblica Ceca è sorto un movimento nazionalista contrario alle sanzioni anti russe.

L’evoluzione verso una economia di guerra si presenta da subito come fortemente intrecciata con l’andamento della questione energetica. Relazioni internazionali ed energia sono fattori che si condizionano a vicenda: l’energia da componente economica si trasforma inevitabilmente in geopolitica modificando gli equilibri globali e nei “venti di guerra” di queste settimane il ruolo centrale spetta al gas. Sembra che uno degli obiettivi principali della guerra di Putin in Ucraina fosse quello di creare divisioni all’interno della UE ed, eventualmente, provocare un distacco dall’alleanza atlantica. Questo secondo obiettivo mi sembra difficile da realizzare mentre le divisioni all’interno della UE sono comunque rilevanti e di difficile soluzione, anche se si possono escludere decisamente ritorni a forme di autarchia fuori tempo. E’ necessario però aggiungere che le divisioni all’interno dell’UE possono essere gradite anche agli Stati Uniti, come dimostra un breve estratto video di una conferenza di G. Friedman, influente politologo americano, datata 2015, in tempi non sospetti.(11) Inoltre è necessario mettere in evidenza l’importanza delle reti logistiche internazionali all’interno di una ridefinizione degli spazi geopolitici e delle eventuali guerre future. In un articolo che compare su questo numero della rivista Daniele Ratti comincia ad affrontare questa problematica, che necessita comunque di uno studio accurato.

Per completare lo scenario bisogna però aggiungere un altro elemento che riguarda la Russia. La guerra economica in corso fra i paesi NATO e la Russia, a colpi di sanzioni e contro sanzioni, potrebbe avere effetti catastrofici sull’economia russa, se la guerra, come sembra probabile dovesse durare a lungo. Le sanzioni sono finanziarie, come l’esclusione dal sistema di transazioni internazionali SWIFT, ma riguardano anche l’accesso della Russia alle tecnologie chiave, come le forniture globali di chips e di semiconduttori di fascia alta, fondamentali per il suo sviluppo militare.

“Tutto sommato, l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è un’enorme scommessa che, se non riuscirà a “neutralizzare” l’Ucraina e costringere la NATO ad un accordo internazionale, indebolirà gravemente l’economia russa e la Russia non è una superpotenza, né economicamente né politicamente ... L’economia russa è un “trucco unico”, che si basa principalmente sulle esportazioni di energia e di risorse naturali e, dopo un breve boom, dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia dal 1998 al 2010, l’economia ha sostanzialmente ristagnato ...”(12)

Inoltre “dopo la guerra, la Russia sta cercando di reindirizzare il metano verso la Cina. Ma mancano le infrastrutture e le sanzioni occidentali ritarderanno i suoi progetti. Mosca non potrà aumentare a oriente le forniture di gas rispetto ai livelli europei del 2021, prima di dieci anni”.(13)

Un’ ultima considerazione: anche in questa guerra, come in tutte le guerre recenti a partire dalla prima guerra del Golfo del 90/91, è stato tirato in ballo, da ambedue le parti il concetto di “guerra giusta”. “La guerra giusta è divenuta un atto che si giustifica da sé. In particolare, vi sono due elementi che si intrecciano in questo concetto di guerra giusta: innanzitutto la legittimazione dell’apparato militare nella misura in cui è fondato eticamente; quindi l’efficacia dell’azione militare per ottenere l’ordine e la pace desiderati”.(14) A partire appunto dalla prima guerra del Golfo, la guerra non viene più dichiarata da uno stato contro un altro, ma viene ridotta a un intervento di polizia internazionale rivolto a creare e mantenere l’ordine. Così è stato per l’ “operazione militare speciale” russa in Ucraina, rivolta, secondo le motivazioni ufficiali, contro formazioni definite come “naziste”, mentre la risposta all’aggressione da parte ucraina ha ricevuto immediatamente in Occidente la qualifica di “guerra giusta”.


Note
1) Paul Mattick - “La guerra è permanente”- http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è- permanente. Vedi anche un mio articolo con lo stesso titolo in Umanità Nova n. 29 del 28/10/2018.
2) Robert Reich – The Work of Nations – Random House - New York 1992 (tr. it. L’economia delle nazioni: come prepararsi al capitalismo del Duemila – Il Sole 24 Ore Libri – Milano 1995).
3) Clash City Workers - Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi – La Casa Usher 2014.
4) Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie - a cura di Calusca City Lights – Edizioni Colibrì, 2020 – L’economia di guerra al tempo del coronavirus.
5) Visconte Grisi – Arriva la grande depressione? – in Umanità Nova – n. 27 del 19/09/2021.
6) https://m.facebook.com/groups/112407946146/permalink/10159904013601147/?sfnsn=scwspwa.
7) https://www.rainews.it/.../caro-vita-disoccupati-bruciano... b15e-4453-bd10-8485b3f13f24.html?nxtep Letizia Molinari – “Agite concretamente, o lo faremo noi per voi” – JacobinItalia – 31 Agosto 2022.
9) Giovanni Cagnoli – Vincere la guerra/Tre proposte per fermare subito la speculazione sul prezzo del gas – Linkiesta.it – 3 Settembre 2022.
10) Notizie ultime provenienti dalla Francia ci segnalano però che 32 reattori nucleari su 56 sono attualmente fermi, a causa di problemi di manutenzione e della siccità che ha prosciugato i fiumi che raffreddano le centrali, e niente indica che potranno riprendere prima dell’inverno. L’aumento annunciato di circa il 15% delle bollette elettriche, modesto rispetto agli aumenti in Italia, non sarebbe dovuto alla produttività del nucleare. Comunque la Francia ha concluso un accordo commerciale con la Germania che prevede l’importazione di energia elettrica in cambio di gas.
11) https://www.youtube.com/watch?v=emCEfEYom4A
12) Michael Roberts – Russia: dalle sanzioni al crollo? – Michael Roberts blog – 2 Marzo 2022
13) Luciano Capone – Perché Putin non può piazzare in Asia tutto il gas che vendeva all’Europa –Il Foglio, 13 Settembre 2022.
14) Michael Hardt/Antonio Negri – Impero/Il nuovo ordine della globalizzazione – Rizzoli 2002.

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