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Capitalismo di crisi e automatismi del declino – viva il capitalismo!

di Fabio Vighi

medium 2023 06 20 61650cda41Le sabbie mobili del “capitalismo di crisi” ci stanno inghiottendo. Profonde mutazioni nel codice della macchina del capitale alimentano nuove forme di controllo e devastazione. Il cambio di paradigma è conseguenza del raggiungimento del limite interno del modo di produzione capitalistico, per cui una crisi non inaugura più un nuovo ciclo espansivo; piuttosto, serve a nascondere l’impotenza di sistema favorendone la transizione autoritaria. Ciò che muta, dunque, è la funzione epistemica della crisi, che – così come un’emergenza geopolitica, climatica, o epidemiologica – è funzionale alla gestione del declino socioeconomico. Non possiamo farci illusioni: il motore del modo di produzione si è ingolfato da tempo, e le “distruzioni creative” di Schumpeter si portano appresso solo macerie. La dipendenza dal credito del capitalismo ultra-finanziarizzato determina accentramento di denaro e potere nelle mani di pochi soggetti e, insieme, la graduale demolizione della domanda reale, e del legame sociale che essa sostiene. A questo serve la nuova “industria delle emergenze”: propagare un flusso di shock che autorizzino la gestione centralizzata di un modello di valorizzazione economica sempre più stagnante, e dunque sempre più iniquo e violento.

L’implosione di sistema prosegue indisturbata, tra apatia, disorientamento, e false contrapposizioni manipolate dall’alto. Le voci critiche condividono un fondo di nostalgia per un mondo che sta evaporando nel nulla da cui era nato: quella “società del lavoro salariato” che il capitale stesso rende obsoleta. Giovani youtuber che fatturano 200mila euro all’anno filmandosi su una Lamborghini mentre distruggono una famiglia che viaggia con la Smart sono l’emblema dell’inevitabile perversione del modello di società del lavoro in cui ancora ci illudiamo di vivere.

Eppure conservatori e progressisti, magari keynesiani o socialisti, fanno a gara a difendere questa illusione, indignandosi se le nuove generazioni inseguono il denaro facile. Così lo sdegno finisce per colpire bersagli comodi, dai genitori assenti ai politici corrotti – un “non c’è più religione” che si guarda bene dal mettere in discussione la religione del capitale. L’ipocrisia dei nostalgici consiste nell’invocare le categorie che ci hanno portato là dove ci troviamo. Nel tentativo di salvare il capitalismo da sé stesso, contribuiscono alla sua deriva perversa.

Alcuni obiettano che i limiti del capitalismo (formazione sociale totalizzante che persegue ciecamente il proprio fine, ovvero il profitto) coincidono con i limiti della nostra immaginazione: in quanto sovradeterminati dal capitale, fatichiamo a smarcarci, anche solo nel pensiero, dalla sua rete di valori repressivi, confermando l’ormai celebre massima secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.” Il capitale continua così a conferire alla sua storia un simulacro di necessità, un residuo di lusinga metafisica. Rimane tuttavia il fatto che tale malinconica conclusione inaugura, oggi, una lenta agonia che già assomiglia alla catastrofe. La storia stessa ci dice che la discesa nella barbarie accelera improvvisamente grazie all’acquiescenza di moderati e anime belle – la stessa ostinata acquiescenza che oggi unisce conservatori, progressisti, e gran parte della cosiddetta sinistra radicale. Auguriamoci che ciò che ancora appare impensabile emerga al più presto nella coscienza collettiva. Perché il capitalismo è perfettamente capace di riprodurre le proprie categorie – dal lavoro salariato alla produzione di merci – all’interno di una cornice totalitaria; così come è perfettamente capace di simulare la menzogna liberale mentre sospende il contratto sociale.

 

Sabotaggi

Gli ultimi tre anni e mezzo ci hanno detto che la manipolazione dei mercati finanziari si traduce direttamente nella manipolazione della realtà. Il nostro mondo non è più sorretto dall’economia reale, con relativa sovrastruttura ideologica, ma dal governo finanziario dell’implosione di sistema, che la “pandemia” ha inaugurato su scala globale. Il crescente disaccoppiamento tra economia reale e bolla speculativa conferma che siamo entrati in una nuova era capitalistica, tendenzialmente distopica. La politica non è che un miserevole gioco delle parti, l’informazione è controllata. Ovunque trionfano opportunismo e rassegnazione, mentre disagio e disperazione vengono relegate nelle periferie della psiche collettiva.

L’obiettivo della politica monetaria delle banche centrali non è più la stabilizzazione dei prezzi, ma – riprendendo una felice intuizione di Walter Benjamin all’epoca dell’iperinflazione di Weimar, esattamente un secolo fa – la ‘stabilizzazione del declino’[1], in modo tale che le speculazioni finanziarie possano continuare indisturbate. Consideriamo il ciclo rialzista dei tassi inaugurato dalla Federal Reserve nel marzo 2022. Si tratta non solo di una misura sostanzialmente cosmetica rispetto a un’inflazione strutturale, ma, riducendo il gettito creditizio al mondo reale, il rialzo dei tassi comprime ulteriormente lavoro e consumo, mentre le responsabilità vengono scaricate sui mandanti di rito (virus, clima, Putin, ecc.). La recente crisi delle banche regionali statunitensi ratifica questa direzione di marcia, autorizzando ulteriori considerazioni sullo stato comatoso del capitalismo di crisi. Il collasso bancario inaugurato dal crollo di Silicon Valley Bank (10 marzo 2023) ci appare infatti come un passaggio necessario per il cambio di paradigma, perché un sistema drogato di credito, che non ha modo di riaccendere un ciclo di crescita ad alta intensità lavorativa, può sopravvivere solo attraverso operazioni di auto-sabotaggio: innescando una serie di incidenti controllati il cui fine (inconfessabile) è accelerare l’accentramento di potere nelle mani di pochi soggetti.

Per comprendere la causalità perversa di quanto avvenuto lo scorso marzo-aprile dobbiamo tornare all’enorme espansione monetaria giustificata dalla “pandemia”, e in realtà iniziata a metà settembre 2019 (in seguito alla crisi del mercato repo). Grazie allo scudo pandemico, l’immissione di trilioni di dollari nell’architettura finanziaria ha fatto in modo che enormi masse di denaro finissero parcheggiate anche nei conti di grandi banche di secondo livello, come appunto SVB. Tra marzo 2020 e marzo 2021, i depositi di SVB sono infatti raddoppiati (da 62 a 124 miliardi di dollari). Buona parte di questa massa monetaria è stata investita in obbligazioni considerate sicure; nella fattispecie, Treasuries USA a lungo termine, che con l’aumento dei tassi d’interesse hanno però perso valore, rivelandosi una trappola. Perché non appena i più facoltosi clienti di SVB hanno ritirato miliardi di dollari, la banca si è ritrovata con un saldo di cassa negativo.

Se da una parte la crisi bancaria è stata indotta dalla crisi dei titoli di debito USA al tempo dell’higher-for-longer di Jerome Powell (rialzo sostenuto dei tassi), dall’altra occorre evidenziare che senza un’imponente corsa agli sportelli non ci sarebbe stato default. Più precisamente: non può non destare sospetto che i 10 maggiori depositanti di SVB detenessero un totale di 13 miliardi di dollari in conti gonfiati dal QE pandemico della Fed. Si tratta di una cifra non solo spropositata, ma soprattutto ingiustificata in termini di banale utilitarismo finanziario, perché tutto quel cash inattivo, fermo nei conti deposito, stava da tempo perdendo valore. Qual era dunque la funzione di tali “conti balena” se non, come sostiene John Titus, quello di trasformarsi in “orche assassine”? Con ogni probabilità, siamo di fronte a un esempio di default controllato, che ha come oggetto il mondo delle banche dei ricchi investitori (venture capitalists), come appunto SVB, Signature Bank e First Republic Bank, letteralmente polverizzate dalla fuga verso l’alto di concentrati giganteschi di liquidità “pandemica”. Nel giro di poche ore, 42 miliardi di dollari sono stati ritirati dai conti di SVB – qualcosa di mai visto in tutta la storia delle corse agli sportelli. Così i pesci più grandi (mega-banche come JP Morgan) si mangiano i pesci un po’ più piccoli, consolidando il loro potere sia grazie ai miliardi assorbiti che a facili acquisizioni, come nel caso di First Republic Bank.

La manipolazione dei mercati è ormai sistemica. Gli attori finanziari sanno che ogni allarme è preventivamente sedato dall’intervento di “mamma Fed” a supporto degli asset di rischio. Tutti, dalle banche ai fondi di investimento fino agli investitori al dettaglio, sono consapevoli del fatto che il meccanismo del fair value dei mercati finanziari è truccato – e proprio per questo motivo continuano ad avere fiducia nel sistema. Agnelli sacrificali come SVB servono anche a innescare rally artificiali basati su buy-the-dip, short squeeze, corporate buybacks e altre strategie finanziarie che ormai fanno parte di un accordo silenzioso garantito dalla Fed.

È però altrettanto importante tener presente che il suddetto automatismo non è riproducibile in eterno. Non appena l’impalcatura finanziaria eretta su denaro senza sostanza e accumuli di scommesse derivate ​​​​cadrà, il sottostante (la società) si decomporrà rapidamente. Siamo pronti a un simile evento? Il nostro sistema è in deficit perpetuo, e più i deficit aumentano, più richiedono iniezioni di denaro inflazionistico – un buco nero che risucchia liquidità. Basti osservare che l’esposizione ai derivati delle maggiori banche rasenta già il sublime kantiano – la sola Goldman Sachs è esposta per la modica cifra di oltre 53 trilioni di dollari. Poiché nell’attuale congiuntura un credit crunch è sempre dietro l’angolo, la Fed (insieme alle altre principali banche centrali) non solo deve rimanere vigile per tenere alta la fiducia dei mercati, ma deve anche giocare d’anticipo sul potenziale crollo. Come? Ad esempio, congegnando fallimenti bancari attraverso i quali giustificare pacchetti di salvataggio e consolidamento verso l’alto.

Demolizione controllata significa che anche la fragile architettura bancaria viene smantellata pezzo per pezzo, in funzione di una nuova infrastruttura monetaria basata sulla Central Bank Digital Currency. Tuttavia, per introdurre le CBDC sarà necessaria la madre di tutte le crisi. Dovremo essere traumatizzati così a fondo da implorare le nuove catene di denaro digitale.

 

Vaccini digitali “sicuri ed efficaci”

Nel frattempo, l’inflazione continua la sua corsa. Per quanto ci dicano che stia rallentando, resta il fatto nudo e crudo: anno su anno, l’inflazione è in aumento. A maggio 2023, quella alimentare è in doppia cifra in gran parte dell’Europa (media UE oltre il 15%), con la Germania al 14.5%, il Regno Unito al 19% e la Turchia al 52.5%. Peraltro, gli operatori finanziari sanno che il CPI ufficiale (indice dei prezzi al consumo) sottostima l’inflazione reale[2]. In breve, Fed & Co. prendono due piccioni con una fava: da un lato utilizzano l’inflazione per sgonfiare il debito (attraverso tassi reali negativi), e dall’altro la utilizzano per dare alle loro politiche un senso che non hanno.

Man mano che la crisi del debito si trasforma in crisi bancaria, si manifesta l’esigenza di mettere in campo un meccanismo di giurisdizione monetaria centralizzata, basato sulla valuta digitale. La fase embrionale di questo passaggio è ciò che la BRI (“banca centrale di tutte le banche centrali”) chiama opportunamente Project Icebreaker. Se inizialmente le banche centrali utilizzeranno le transazioni digitali tra loro, abbiamo più di un motivo per supporre che ciò funga, appunto, solo da rompighiaccio: primo passo verso l’imposizione di un’infrastruttura che ci “salverà” dalla prossima emergenza. Non a caso la campagna pubblicitaria pro CBDC è iniziata con la “pandemia”. Si pensi all’eloquente messaggio di Augustin Carsten (direttore generale della BRI) del 19 ottobre 2020: ‘la differenza fondamentale introdotta dalle CBDC è che la banca centrale avrà il controllo assoluto sulle regole che determineranno l’uso di quell’espressione di passività della banca centrale [il denaro digitale], e avremo anche la tecnologia per farlo rispettare.’ D’altronde, mettere un filtro digitale tra persone e realtà è ormai l’obiettivo dichiarato di iniziative come il recente Global Digital Compact, patrocinato dalle Nazioni Unite. Ogni interazione con la realtà (banking, comunicazione, trasporto, consumo, ecc.) sarà mediata da una membrana digitale in grado di monitorare e, se necessario, negare l’accesso a quella realtà.

È peraltro vero che, come ci ricorda (tra gli altri) Yanis Varoufakis, lo Stato ha già il potere di controllare le transazioni – lo ha dimostrato il congelamento dei conti dei camionisti canadesi durante le proteste contro le vaccinazioni del febbraio 2022. Tuttavia, quell’intervento ha richiesto uno “stato di eccezione” limitato nel tempo, che in quanto tale può ancora incontrare diffusa resistenza popolare. Un altro paio di maniche è autorizzare un sistema digitale centralizzato. Varoufakis vede la tecnologia digitale della banca centrale come strumento democratico, presumibilmente perché la proietta in un mondo idealizzato: ‘la privacy potrebbe essere salvaguardata meglio se le transazioni fossero registrate sul libro mastro della banca centrale sotto la supervisione di qualcosa di simile a una giuria di supervisione monetaria composta da cittadini ed esperti scelti a caso provenienti da un’ampia gamma di professioni.’ Per quanto questa visione possa solleticare l’immaginazione utopica di alcuni, l’attuale congiuntura, aggressivamente implosiva, suggerisce che la giuria di supervisione monetaria sarà presieduta dall’oligarchia finanziaria, nel tentativo di tenere sotto controllo la povertà.

Ma non è solo una questione politica, poiché il denaro (valuta fiat) è l’espressione superficiale di una condizione socioeconomica tanto complessa quanto spietata. La proposta di Varoufakis di eliminare gli “intermediari corrotti” – il sistema bancario commerciale – in modo che le banche centrali possano versare denaro direttamente nei portafogli digitali dei cittadini (ad esempio, attraverso il reddito universale di base) aggira la questione esiziale: la crescente incapacità del capitale di generare quantità sufficienti di nuovo valore attraverso cicli ad alta intensità di manodopera; motivo per cui il capitale si alimenta di credito artificiale, cliccato con il mouse del computer, che in primis va a gonfiare le bolle finanziarie. Coerentemente con la sua posizione, Varoufakis prescrive più Quantitative Easing per investimenti nella transizione verde e digitale, come se questa logora mossa keynesiana potesse magicamente dar vita a un nuovo regime di accumulazione, salvando le società capitalistiche dal loro destino. In verità, sia le ricette neokeynesiane che quelle neoliberiste sono ormai sintomo di miserevole impotenza, avendo ripetutamente dimostrato la loro incapacità di sollevare il modo di produzione da una stagnazione terminale. Il vero problema è la crisi strutturale della creazione di valore, motivo per cui le valute digitali centralizzate potranno solo servire alla gestione autoritaria del declino di massa. Qualsiasi altra ipotesi è, nel migliore dei casi, incredibilmente ingenua.

Al momento, le CBDC vengono promosse come sistema di pagamento “sicuro ed efficace” –ricorda qualcosa? Chi le sta programmando garantisce che proteggeranno le operazioni bancarie e elimineranno il rischio di fallimenti tipo SVB. Tuttavia, la prossima crisi mostrerà il vero scopo della moneta fiat digitale: costringerci ad accettare più miseria e meno libertà. Come con il Covid, uno stato di eccezione non lascia molta scelta. Per la maggior parte dei cittadini mantenere un lavoro implicava accettare raffiche di terapie geniche sperimentali. Ora ci muoviamo verso uno shock economico cui farà seguito, con ogni probabilità, un altro ricatto salvifico: spostare depositi e conti correnti presso la banca centrale di fiducia (o chi per lei), che garantirà credito e tutela a patto di controllare digitalmente le transazioni. Come con il Covid, la propaganda ci spingerà a “scegliere” l’opzione “sicura ed efficace”.

È impossibile prevedere quanto sia lontano un evento sufficientemente traumatico da consentire l’introduzione del nuovo regime monetario. Con Silicon Valley, Signature e First Republic, ci hanno servito l’antipasto. Mentre tutti ballano, il Titanic accelera verso l’iceberg, un grave incidente che verrà utilizzato per introdurre la nuova cura miracolosa: un “vaccino digitale” che – così sarà promosso – ci proteggerà dal virus economico.

 

Feticismo sistemico

La decomposizione del nostro tempo storico si manifesta sia come lento tracollo dell’economia che come frattura del legame sociale. Tuttavia, come scrisse Hemingway in Fiesta (The Sun Also Rises, 1926), le bancarotte avvengono ‘in due modi. Gradualmente, e poi all’improvviso.’ E se l’eventualità del cigno nero viene rimossa, la sfiducia che sale dal basso inizia però a scontrarsi con le politiche di gestione della crisi imposte dall’alto. Ciò non potrà che acuire i fattori di stress economici, sociali, militari, e culturali. La prima cosa da fare è prendere atto che, attualmente, non ci sono alternative collettive in vista. Il capitale ci occupa tutto il giorno (lavoro precario e/o estenuante, distrazioni di massa, false polarizzazioni, dissonanze cognitive, ricatti emotivi) ma allo stesso tempo ci rende superflui. Qualunque forma assumerà una società post-capitalista autenticamente emancipata, una cosa è certa: dovrà sostituire l’attuale modo di produzione con un legame sociale che ci permetta di fare un uso radicalmente diverso del nostro tempo, della nostra creatività, e delle nostre modalità di godimento – liberandole dal giogo capitalista. Finché le nostre vite rimarranno un’estensione del dogma della produzione di plusvalore, e di tutte le criminali strategie compensative di sistema, non avremo scampo.

La scienza economica ci è di scarso aiuto, poiché, creatura borghese, è compromessa da un grave difetto positivistico – lo stesso difetto che ha sempre minacciato anche il marxismo tradizionale. Spiegare la crisi attraverso il calcolo empirico di quanto accade in superficie serve a poco. L’inflazione, per esempio, diventa effetto esclusivo di fattori visibili e misurabili: guerra in Ucraina, stretta energetica, blocchi pandemici, colli di bottiglia di catene di approvvigionamento, e così via. Il pensiero economico egemonico riduce la realtà al calcolo del comportamento soggettivo rispetto a unità di misura quantificabili – dalla propensione al consumo alla capacità di investimento. Tutto ciò che sfugge a questo calcolo è, nella migliore delle ipotesi, retrocesso al rango di speculazione filosofica. La nostra stessa identità nasce e muore nell’astrazione del valore di scambio, sorta di prostituzione elevata a sintesi sociale che, in quanto tale, ignora il rapporto feticistico profondo che accomuna i soggetti “razionali” dell’economia di mercato. Limitandosi ad analizzare le dinamiche di superficie (circolazione), la scienza economica esclude a priori la riflessione sui processi produttivi di valore, rafforzando così la matrice astratta e intangibile del capitale – quell’‘astrazione reale’ di cui scrisse Alfred Sohn-Rethel[3]. L’economismo borghese, incluso quello keynesiano, si rivela insomma del tutto inadeguato a cogliere le contraddizioni del valore quale sostanza del rapporto sociale capitalistico. Per questo nessuno s’interroga sulla legittimità di un meccanismo riproduttivo ormai palesemente assurdo e distruttivo. Per la coscienza borghese, la sola ipotesi di una reale emancipazione dalle categorie-feticcio del capitalismo è intollerabile.

La direzione di marcia del capitalismo contemporaneo si snoda lungo i seguenti indicatori profondi: 1. Contrazione della massa complessiva di valore (socialmente necessario); 2. Crescita compensativa del capitale monetario come credito privo di sostanza-valore; 3. Crescente divario tra tale credito creato dal nulla e massa di plusvalore proveniente dallo sfruttamento del lavoro; e 4. Slittamento del capitalismo liberale nel modello reazionario e meta-emergenziale. Quest’ultimo punto è una diretta conseguenza dei primi tre.

Il declino economico degli ultimi decenni richiede una crescente creazione di moneta volta a inseguire il debito che viene continuamente messo in circolazione. I fasti della seconda rivoluzione industriale, in cui il capitalismo poté trarre vantaggio da enormi investimenti reali (molti dei quali dannosi, come la corsa agli armamenti, ma a alta intensità lavorativa), sono finiti da circa mezzo secolo, anche se in pochi lo vogliono ammettere. Come d’altro canto nessuno – specie tra i nostalgici della “società del lavoro di massa” – si degna di riconoscere che la tanto decantata modernizzazione fordista fu legata da cordone ombelicale alla carneficina della seconda guerra mondiale: senza l’impulso tecnologico della produzione bellica (e, insieme, della ricostruzione postbellica) il fordismo non avrebbe attecchito. La terza rivoluzione industriale (microelettronica dagli anni ’70) ha poi sdoganato l’economia finanziaria quale modello di crescita simulata, in cui il credito gioca al gatto e al topo con sé stesso in un’orgia infinita di speculazione senza sostanza.

Qui va sottolineato l’effetto a scoppio ritardato della credito-dipendenza. L’inflazione odierna è, essenzialmente, il risultato dell’espansione del credito passato, che richiede tempo per farsi strada attraverso un sistema che non riesce più a reggersi sul plusvalore estorto al lavoro. Spiegare l’attuale contesto inflazionistico esclusivamente attraverso fattori quantificabili empiricamente significa aderire alla miope visione positivistica dell’economia neoclassica dominante, e quindi a una concezione irrimediabilmente astorica del capitalismo. La svalutazione che paghiamo oggi è il risultato della valanga di credito messa in moto nei decenni precedenti, in specie dal 2008; una valanga che ora rotola minacciosamente verso valle. Purtroppo, non abbiamo ancora visto nulla rispetto al suo impatto. In questo senso, è inutile trastullarsi con il calcolo dell’effetto che il rialzo dei tassi può avere sull’inflazione. Anche perché tali rialzi sono limitati dall’effetto distruttivo che, passata una certa soglia, scatenano nel casinò speculativo.

Non basta nemmeno obiettare che credito e capitale produttivo d’interesse hanno sempre informato la storia del capitalismo. Piuttosto, ciò che conta è il processo storico che ha portato all’attuale grottesca dipendenza dalla creazione di credito. Il salto qualitativo della funzione del credito all’interno del modo di produzione capitalistico può essere fatto risalire all’inizio del Novecento, quando nuove imponenti iniezioni di liquidità cominciarono ad integrare la massa di valore prodotta dagli investimenti reali. Questo ricorso al credito esogeno si trasformò ben presto da fenomeno sporadico a condizione esistenzialmente necessaria per i cicli produttivi reali[4]. Nel corso del XX secolo, la leva creditizia utilizzata per l’estrazione di plusvalore comincia dunque a presentarsi con caratteristiche diverse da quelle descritte da Marx nel terzo libro del Capitale. Secondo la lettura di Marx, il credito produttivo di interesse deriva dal plusvalore prodotto nell’economia reale, che nella seconda metà dell’Ottocento costituiva ancora la base del capitalismo. Ma oggi quella spiegazione dev’essere aggiornata.

 

Cupola finanziaria e credito-dipendenza

La crescita storica del credito è una conseguenza inevitabile dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. Poiché i profitti dei singoli capitali non sono più sufficienti a coprire i crescenti investimenti in ciò che Marx chiamava “capitale costante” (macchinari, materie prime, impianti), le iniezioni di credito diventano endemiche. In altre parole, l’accelerazione tecnologica stringe un cappio creditizio attorno al collo delle società del lavoro, poiché la legge della concorrenza non lascia altra scelta che aumentare i costosi investimenti in nuove tecnologie di produzione. A questo punto si stabilisce un meccanismo che ridefinisce la logica interna del modo di produzione, pur lasciandone intatta la finalità: per conquistare nuove quote di mercato, i capitali devono accettare il vincolo esterno del credito, che progressivamente stritola i lavoratori non solo in termini di sfruttamento, ma anche attraverso le speculazioni finanziarie dalle quali tale capacità di sfruttamento viene a dipendere. E mentre il capitale fatica a riprodursi attraverso investimenti reali, la dipendenza dal credito si cronicizza.

Il capitalismo contemporaneo si muove tra i vasi comunicanti del credito compensativo e della massa decrescente di plusvalore. Mentre i singoli capitali devono continuare ad appropriarsi di una quota di plusvalore per il servizio del debito, buona parte di questo plusvalore è già colonizzata dalla massa di credito in continua espansione. Così, il capitalismo finisce preda di un’illusione ottica: ogni aumento nella creazione di plusvalore non è altro che il riflesso di espansioni monetarie esponenzialmente maggiori. L’allargamento della forbice tra credito inconsistente e valorizzazione reale significa che la stessa società del lavoro finisce inondata di liquidità senza sostanza. L’apparente valorizzazione dei singoli capitali corrisponde infatti ad una contrazione del valore complessivo rispetto all’offerta di moneta circolante – una situazione di squilibrio sistemico che, dopo un periodo di incubazione, scatena oggi il terremoto svalutativo. Un’economia cannibalizzata dal credito può solo distruggere la residua base valoriale della moneta fiat.

Con l’aumentare del divario tra capitale reale e credito fittizio aumentano dunque le probabilità di collasso sistemico. Allo stesso tempo, il capitale transnazionale non ha altra scelta che cercare di controllare le narrazioni che garantiscono un gettito continuo di credito – dal Covid, alla guerra, al cambiamento climatico antropico. Ecco allora il paradosso che ci proietta necessariamente nell’epoca del capitalismo totalitario: affinché le catene del credito possano continuare ad allungarsi nel futuro, l’economia reale dev’essere attivamente ridimensionata. Per sopravvivere alla propria devastante contraddizione svalutativa (oggi, un’inflazione strutturale) il capitalismo finanziarizzato deve limitare, regolare, e finanche distruggere parte della domanda reale, mettendo ulteriormente in ginocchio le società del lavoro e del consumo.

Rispetto a questo quadro d’insieme, il feticcio del lavoro salariato continua a rappresentare l’errore storico della sinistra (compresa la sinistra marxista), come se le lotte dei lavoratori possano salvare il capitalismo da sé stesso – o, più radicalmente, condurci oltre il capitalismo. La questione dovrebbe essere posta in modo diverso: non come salvare o superare il capitalismo attraverso il lavoro salariato, ma come superare sia il capitalismo che il lavoro salariato, poiché quest’ultimo è da sempre non solo l’avversario dialettico del capitale, ma anche e soprattutto la sua condizione di possibilità. Il lavoro produttivo di valore è ciò che ha reso possibile il capitale socializzandolo nel capitalismo. È, suo malgrado, l’elemento formativo di quella forma-valore in cui siamo immersi fino al collo, e nella quale ora rischiamo di annegare.

La contraddizione che oggi definisce la forza-lavoro è che ce n’è troppo poca per il processo di valorizzazione, ma troppa per la capacità di assorbimento del sistema. Per questo il nuovo centro di produzione di ricchezza è la simulazione finanziaria della crescita, che è priva di sostanza reale, ovvero sempre più autonoma rispetto al lavoro produttivo impiegato nell’economia reale. La moltiplicazione finanziaria dei pani e dei pesci procede speditamente per automatismi algoritmici legati, per esempio, a strumenti “a gestione passiva” come gli ETF (Exchange-Traded Funds) – sorta di cloni finanziari il cui rendimento riflette passivamente le quotazioni di determinati indici borsistici, senza dunque dipendere da meccanismi tradizionali di price discovery, ovvero dall’abilità dell’investitore. In tale contesto – che com’è ormai arcinoto è dominato da tre potentissimi fondi d’investimento (BlackRock, Vanguard e State Street), i quali controllano circa il 90% del maggiore azionariato USA (le 500 società quotate nell’indice S&P) – il credito funge da surrogato del capitale reale in relazione sia alla domanda che ai costi dei cicli produttivi reali.

Se da una parte tutto ciò che concerne la nostra vita sociale, politica, e culturale è già condizionato (eufemismo) dalla cupola finanziaria, dall’altro l’intero sistema capitalistico è ostaggio di un futuro in cui la massa del plusvalore si assottiglia rispetto alla massa del credito necessaria a mantenerlo in vita. Ciò significa che la stessa temporalità del capitale si è spostata dal passato (riproduzione attraverso profitti già accumulati) al futuro (riproduzione attraverso profitti virtuali, non ancora realizzati e a tutti gli effetti irrealizzabili). Per quanto le due temporalità si intreccino continuamente, l’incremento vertiginoso del credito ha favorito una mutazione qualitativa nella composizione del capitale, che è causa degli attuali corto-circuiti non solo economici ma anche geopolitici e culturali.

 

Perversioni geopolitiche

Se “globalizzazione” vuol essere un significante ideologicamente neutro, oggi però fatica a nascondere il fatto che la produzione globale è legata a cicli di deficit sempre più ingestibili, e alla conseguente economia di bolla. L’attuale declino socioeconomico, ottimisticamente chiamato de-globalizzazione, è il motore principale del conflitto militare. Dal 2001, gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra senza sosta, che secondo una stima prudente di un progetto di ricerca presso la Brown University, ha causato (direttamente e indirettamente) circa 4,5 milioni di morti nelle zone di guerra post-11 settembre, tra cui Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, e Yemen. Se la dimensione di questo sterminio fa notizia, è solo per suscitare un vago senso di colpa profondamente ipocrita. Ciò che non viene mai messo in discussione è il nesso causale che lega il dominio economico globale degli Stati Uniti al suo complesso militare-industriale, un’idra a più teste che continuerà a scatenare il caos per ritardare la fine dell’egemonia economica made in USA.

Nel momento in cui la supremazia globale basata sul dollaro è a rischio di fallimento, gli Stati Uniti continuano a fare affidamento sul complesso militare-industriale quale spina dorsale della loro valuta. E più l’economia s’indebita, più l’industria bellica troverà “ragionevoli motivi” per allungare i propri tentacoli. Al fine di mantenere l’egemonia, insomma, il modello economico basato sul debito deve seguitare a pompare miliardi di dollari nella macchina militare. L’espansione del tetto del debito consente agli Stati Uniti di finanziare il mastodontico comparto militare in patria e soprattutto all’estero, cosa che a sua volta sostiene il dollaro come valuta di riserva mondiale. Occorre aggiungere che, al netto delle attuali contrapposizioni multipolari, non si possono dare vincitori nella competizione geopolitica: si tratta di una resa dei conti a bordo del Titanic, con declino e autoritarismo quali unici risultati condivisi.

È oggettivamente difficile vedere come lo yuan – o una nuova valuta BRICS+ – possa sostituire il dollaro. La recente crescita dell’economia cinese è stata caratterizzata dal monopolio sulla produzione manifatturiera. Si è svolta nel quadro dei circuiti globali del debito e del deficit: le dinamiche del debito in Occidente hanno generato la domanda di esportazioni cinesi, che hanno inondato i mercati occidentali di merci a buon mercato. Tuttavia, questo equilibrio si è rotto con la crisi finanziaria globale del 2008, che ha inferto un duro colpo al surplus cinese basato sulle esportazioni. Da allora, la crescita della Cina – trainata principalmente dalla bolla immobiliare – è stata sostenuta dal credito, seguendo la ricetta dei “partner globali” occidentali. La Cina, quindi, non sembra in grado di ripetere quanto fatto dagli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale, dal momento che la sua industria ad alta intensità lavorativa è già ostaggio di eccessi finanziari paragonabili a quelli occidentali. La “Nuova via della seta” difficilmente potrà fungere da nuovo Piano Marshall. Piuttosto, l’ordine mondiale multipolare in fieri condivide lo stesso disordine compulsivo: la tendenza autodistruttiva del modo di produzione capitalistico. Ciò suggerisce che una grande guerra è ora tanto possibile quanto un tacito accordo tra nemici geopolitici accomunati sia da destini economici molto simili, che dalla medesima necessità di imporre un modello di capitalismo particolarmente repressivo.

Le guerre moderne sono indissolubilmente legate all’economia creditizia. Nel corso della recente storia del capitalismo, esse hanno legittimato la creazione di credito per finanziare eserciti, armi, e nuove tecnologie. A questo proposito, le due guerre mondiali del XX secolo avevano già messo in luce la dipendenza dello Stato dal capitale, e del capitale da una massiccia creazione di moneta. Soprattutto a partire dalla Terza Rivoluzione Industriale degli anni ’70, gli enormi investimenti in capitale costante imposti dalla competizione tecnologica hanno schiacciato il lavoro (capitale variabile) e le sue lotte, e dunque compromesso la capacità di creazione di plusvalore reale, trasformando il credito nel nuovo oro. Da qui la progressiva finanziarizzazione dell’economia e privatizzazione delle banche centrali.

Non stupisce dunque che la recente “emergenza pandemica” sia stata subito etichettata come “guerra al virus”. Come non stupisce che dopo due anni sia stata sostituita da una vera guerra militare, che oggi viene assurdamente prolungata con tipico disprezzo capitalista per la vita umana. Come ho sostenuto altrove, la “guerra al Covid” ha permesso creazione e immissione di colossali somme di liquidità nel sistema (la strategia del going direct dettata da BlackRock), condensando in un lasso di tempo molto più ristretto la logica perversa dei due precedenti decenni di “guerra al terrore”. Mai come ora il capitale ha bisogno di nemici globali per soddisfare la propria fame di credito. Con l’intensificarsi della narrazione sul cambiamento climatico antropico, per la prima volta nella storia dell’umanità il nemico pubblico numero uno diventa l’essere umano in quanto tale. È evidente che ciò non possa essere di buon auspicio.


Note
[1] Walter Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927 (Torino: Einaudi), 2006.
[2] Si veda per esempio il lavoro dell’economista americano John Williams sui cambiamenti introdotti nel calcolo del CPI nel corso degli ultimi decenni.
[3] Alfred Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale (Milano: Feltrinelli), 1977.
[4] Su questo punto si veda soprattutto l’analisi di Robert Kurz in Geld ohne Wert: Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie (Horlemann Verlag, 2012).
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