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manifesto

La ricetta contro il «crack dei crack»? Un new deal europeo, puntato sul sociale

Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi

La lezione più profonda del New Deal è un'altra rispetto a quella ripresa dal «keynesimo reale» o dall'attuale salvataggio di emergenza. E' la possibilità di cogliere l'occasione della nazionalizzazione della finanza per promuovere un intervento strutturale diretto dello Stato, mobilitando un «esercito del lavoro». Una sfida che ci piomba addosso, ma non è inattesa. Chi riteneva prematuro porsi i problemi di una più alta e produttiva spesa pubblica è costretto a ricredersi: ci obbliga la devastazione della crisi - sociale, ambientale, energetica. Dalla crisi non si esce se non si trova un nuovo traino di domanda effettiva, e una alternativa di politica economica richiede un diverso Stato, un diverso lavoro, la costruzione di contropoteri. Così fu, per quanto contraddittoriamente, con Roosevelt. Bisogna avere il coraggio di riprendere a pensare in grande: con i piedi per terra, e la testa ben alta, ricollocarsi a quel livello dello scontro, dentro una più netta rottura con la logica capitalistica.

Non potrà essere la svalutazione del dollaro a far ripartire la congiuntura mondiale. Si richiederebbe piuttosto una espansione coordinata della domanda interna nelle varie aree, il cui perno siano una spesa pubblica riqualificata e alti salari: il «ritorno dello Stato» va da un'altra parte. La ricerca parossistica di un «pavimento» alla crisi finanziaria non sta infatti rispondendo alla carenza di domanda. E le misure che eventualmente saranno prese arriveranno fuori tempo massimo per evitare una grave recessione, e il rischio concreto di una successiva prolungata stagnazione.

Scrivemmo che le banche centrali erano arrivate al capolinea. Ci sono rimaste, continuando a lanciare soldi alle private senza successo. Il dogma dominante è non mettere soldi in mano alle persone che devono spenderli per consumi, o alle istituzioni pubbliche che possono spenderli dentro un disegno di modifica della qualità di produzione e occupazione. Tutto ciò chiarisce l'improrogabilità di massicci provvedimenti di sostegno ai debitori ultimi e compratori primi, con rilevanti riduzioni di tasse su bassi e medi salari, sostegni sui mutui, e così via. Ma non ci si può fermare lì: si deve procedere non verso una spesa pubblica anticiclica «generica», ma verso una spesa diretta e «mirata» dello Stato.

La dimensione europea è quella adeguata. Qui, dentro una segmentazione valutaria che può rendere credibile una politica di controlli di capitale, molte cose sarebbero possibili. Sta saltando di nuovo il Patto di Stabilità: si deve chiedere che le spese in conto capitale (in senso ampio) vengano escluse dai parametri, e così quella spesa statale che sostiene l'attivazione di uno sviluppo diverso. Si può pensare, in modalità tecniche da definire, a una sorta di «consolidamento» dei debiti pubblici dell'area, trasformandoli in proprietà, mentre contemporaneamente si lancia un finanziamento per programmi di intervento infrastrutturale: siamo in un momento in cui lo Stato è il solo garante della «fiducia». A questo scopo si possono mobilitare anche le riserve auree dell'Unione, senza aver paura di rimuovere il tabù del finanziamento monetario del disavanzo.

E' possibile l'istituzione di una banca europea di finanziamento che si articoli nei vari paesi dell'Unione. Ancora su scala europea, è necessario impedire che gli squilibri delle bilance dei pagamenti diventino un vincolo implicito operativo, con impatto reale. Quella banca deve poter allora agire da clearing union, «riciclando» gli avanzi di parte corrente intraeuropei. Si romperebbe così con il miope neomercantilismo che frantuma il vecchio continente e rende miopi e contrastanti le politiche economiche. Da tempo avvertiamo che una crisi dal lato del debito pubblico o dal lato degli squilibri commerciali si può materializzare, non autonomamente ma di rimbalzo: per l'impatto asimmetrico sull'Unione della crisi finanziaria globale derivante dall'insostenibilità reale del «nuovo capitalismo». La probabilità ora è aumentata.

Una strategia d'urto sull'architettura istituzionale europea è propedeutica a una politica della spesa pubblica aggressiva non solo nella entità ma soprattutto nei contenuti. L'idea di partenza è elementare. Un diverso profilo strutturale delle economie europee, in primis l'Italia, richiede un impegno finanziario forte e compresso nel tempo per cambiare il «paradigma» delle economie. Solo lo Stato può promuoverlo, e la crisi ha ricreato una «finestra» in cui l'azione pubblica può sfruttare, o produrre cooperativamente, bassi tassi di interesse a suo favore. Occorre però individuare le grandi questioni inevase della società: partire dalle domande dove massima è l'interconnessione tra le problematiche economiche, ecologiche, e di genere, e dove la risposta passa per la promozione di attività ad alta intensità di lavoro e alta tecnologia.

Ci limiteremo a pochi cenni, del tutto insufficienti e preliminari. Un ente energetico europeo può definire politiche industriali e rapporti con i paesi produttori, dentro un grande piano ambientale a livello micro e mesoeconomico: il che richiede finanziamenti delle trasformazioni a livello delle imprese, usando leggi e incentivi come anche penalizzazioni. Garibaldo ricorda da tempo un altro tema, la mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via ICT del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbane. Va poi rivisto radicalmente il sistema dei trasporti, privilegiando quello su rotaia rispetto a quello su gomma, o quello aereo low cost. E' urgente la risistemazione dei bacini idrici e delle coste. In tutti questi casi, una vera «emergenza», si deve poter accedere ai fondi strutturali, applicando una legislazione di protezione e di sussidio analoga a quella degli Stati Uniti verso le industrie militari. Discorsi che possono essere estesi all'acqua, all'istruzione, alla sanità: a tutti quei bisogni pubblici o semi-pubblici che devono diventare il riferimento di una nuova classe di prodotti e servizi. In un'ottica del genere, il lavoro non può essere precario o mal pagato.

Solo la lotta può spostare gli assi di priorità, non gli schemi astratti di politica economica. Un «programma» non si improvvisa, è frutto di un lavoro collettivo. Non si parte però se non si hanno le idee chiare sul come stanno le cose e sul come iniziare il cammino: se non si attivano, insieme, lotte e immaginazione programmatica. Ma i più atterriti e ammutoliti sono proprio i sindacati, gli unici che potrebbero fare qualcosa vista l'attuale inesistenza della sinistra sul piano europeo.

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