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Teoria della crisi. 100 tesi

di Vladimiro Giacché

[Cinque anni fa, il 15 settembre 2008, il fallimento della Lehman Brothers ha reso visibile all'opinione pubblica mondiale la gravità della crisi economica che stiamo attraversando. Queste tesi sono apparse su «Democrazia e diritto», 3, 2012].

  1. 1. A oltre cinque anni dall’inizio della crisi, l’elenco delle sue presunte cause è sempre più lungo. Mutui subprime, obbligazioni strutturate, derivati sui crediti, avidità dei banchieri, società di rating, orientamento al profitto di breve termine, creazione di veicoli finanziari fuori bilancio, inefficacia del risk-management, lacune regolamentari, politica monetaria della Fed… Sono solo alcune delle cause tirate in ballo in questi anni. Più di recente all’elenco dei col­pevoli si sono uniti alcuni Stati: la Grecia (che ha taroccato i bilanci), l’Irlanda (che ha salvato le proprie banche private fi­nendo in bancarotta), la Spagna (che non ha impedito il formarsi di una gigantesca bolla immobiliare), il Portogallo (che non cresce abbastanza e ha una bilancia com­merciale molto squilibrata), e infine l’Italia (che ha un debito pubblico troppo eleva­to… da trent’anni).

  2. È fin troppo facile osservare che nessuno di questi presunti colpevoli è in grado di spiegare questa crisi: né il suo decorso, né la sua durata e gravi­tà, né le sue con­seguenze.

    Che sono drammaticamente evidenti dal 2009: l’entità della ricchezza distrutta (calcolata già nel marzo 2009 in 50 mila miliardi di dollari), la peggiore contrazione del commercio internazionale dal 1945 (-10,7% nel 2009), crollo dei profitti, crollo degli investimenti, e il maggior aumento della disoccupazione da decenni.

  3. Il presupposto sbagliato comune a queste spiegazioni consiste proprio nella ricerca di un “colpevole” della crisi. Questa ricerca riposa sulla convinzione che la crisi sia qualcosa di estraneo al normale funzionamento dell’economia capitalistica. La crisi viene sempre da fuori, è qualcosa di esogeno, una patologia esterna al sistema: quindi è dovuta a errori o colpe specifiche di qualcuno. Non di rado, nella pubblicistica corrente, questo ‘qualcuno’ è individuato negli “speculatori”. Già Marx a questo riguardo aveva facile gioco nell’osservare che “proprio il ripetuto insorgere di crisi a intervalli regolari nonostante tutti i moniti del passato smentisce l’idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui” (Marx 1855: 53-54).

  4. E se invece le crisi non fossero incidenti di percorso, ma qualcosa di necessario? Marx pensava precisamente questo: che le crisi sono necessarie. Necessarie in due sensi: in primo luogo perché sono inevitabili. L’impostazione di Marx rovescia qui quella della gran parte degli economisti: a suo avviso “l’equilibrio stesso – dato il carattere primitivo di questa produzione – è un caso” (Marx 1894: 515). Tra i teorici dell’economia, Marx è insomma un teorico non dell’equilibrio, ma del non-equilibrio. Il suo punto di vista è sempre rimasto minoritario tra gli economisti, e lo è tuttora (nel Novecento, soltanto Schumpeter e Minsky sembrano condividerlo, sia pure sulla base di presupposti diversi). Ma è di grande utilità per intendere le radici della crisi attuale. In secondo luogo, le crisi sono necessarie in quanto funzionali all’autoconservazione del modo di produzione capitalistico. Per Marx, insomma, le crisi non sono un infortunio (e neppure un problema per il capitalismo), ma sono lo strumento con cui l’economia capitalistica periodicamente risolve i propri problemi. Proviamo a seguire le linee essenziali del ragionamento marxiano.

  5. I problemi dell’economia capitalistica hanno la loro origine nella contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e il carattere privato dell’appropriazione dei prodotti del lavoro. Ossia nel fatto che la produzione non è regolata secondo un piano consapevole né finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani, ma soggetta all’“anarchia della produzione” (cioè alla competizione tra i singoli capitalisti) e finalizzata al profitto.

  6. Precisamente per questi motivi (che non sono contingenti, ma hanno a che fare con le regole stesse di funzionamento del capitalismo), nelle economie capitalistiche periodicamente si crea sovrapproduzione di capitale e di merci. Sovrapproduzione (o sovraccumulazione) di capitale è un accumulo di capitale che non riesce a valorizzarsi in misura soddisfacente, sovrapproduzione di merci è un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute a un prezzo sufficiente a remunerare il capitale investito per produrle. La sovrapproduzione di merci è aggravata dal fatto che i lavoratori hanno una capacità di spesa limitata: i loro salari non possono salire oltre un certo livello perché altrimenti verrebbero meno i profitti dei capitalisti, e questo limita strutturalmente la capacità di crescita dei consumi.

  7. Per questo Marx afferma: “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come fine della produzione” (Marx 1863-5: 155).

  8. La crisi è il momento in cui tali contraddizioni si manifestano e, al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: “le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato” (Marx 1963-5: 154).

  9. Profitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera. La sovrapproduzione viene smaltita dalle crisi, attraverso la distruzione del capitale e delle forze produttive in eccesso. La distruzione di capitale va avanti sino a quando il capitale residuo torna a generare una redditività soddisfacente. In concreto questo significa aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.

  10. Ovviamente, quanto più capitale in eccesso c’è, tanto più grave sarà la crisi e tanto maggiore la distruzione di capitale necessaria. Una crisi così grave e lunga come l’attuale, interpretata seguendo le categorie marxiane, presuppone pertanto una massa ingente di capitale in eccesso.

  11. Da questo punto di vista, come stavano le cose nel 2007, quando la crisi ha cominciato ad investire i mercati finanziari? Ce lo dice una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey: “nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al PIL, era del 356%” (Farrell 2008). La sovrapproduzione di capitale monetario era quindi inequivocabilmente presente.

  12. E quella di merci? Questo punto è molto importante, perché le spiegazioni tuttora prevalenti della crisi si fondano sull’assunzione che la sovrapproduzione di merci sia stata creata dalla crisi finanziaria (che ha ridotto la domanda), e non viceversa. Le cose, però, non stanno in questi termini. Lo dimostra una ricerca di J. Brackfield e J. Oliveira Martins pubblicata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel maggio del 2009, che mette in luce come la produttività del lavoro fosse in rallentamento un po’ dappertutto già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria. Ora, siccome la produttività viene calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavoratore, un suo calo (soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della produzione a seguito di sovrapproduzione, o – come oggi si preferisce dire – di excess supply, eccesso di offerta. In tal caso infatti le merci rimaste invendute costringono a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva e quindi la manodopera: pertanto la produttività cala, anche bruscamente.

  13. Secondo i dati forniti dall’OCSE, tra il 2006 e il 2007 vi è un stato chiaro rallentamento della produttività in Europa e in Giappone. Ma il fenomeno è stato macroscopico soprattutto negli Usa, e in particolare nel settore delle costruzioni, in cui il calo è iniziato tra i due e i quattro anni prima della crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in tale settore è crollata del 12%. Alla base di tutto c’è quindi, affermano gli autori della ricerca, “un problema di eccesso di offerta”. Per un certo periodo è sembrato che “una forte spinta alla domanda attraverso un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all’economia reale”. La conclusione: “rispetto all’assunto che il deterioramento dell’economia reale sia stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati danno sostegno ad una relazione più complessa” (OECD 2009). Un modo diplomatico per dire che il rapporto causa-effetto c’è, ma va nella direzione opposta.

  14. L’accenno alle “facilitazioni creditizie” contenuto nella ricerca dell’OCSE ci aiuta a inquadrare anche il ruolo giocato dalla finanza. L’esplosione della finanza e del credito, ben testimoniata dalle cifre di McKinsey viste sopra, ha svolto negli anni che hanno preceduto la crisi tre funzioni.

  15. In primo luogo, ha consentito di sostenere artificialmente i consumi pur in presenza di un’insufficiente capacità di spesa effettiva delle famiglie causata dal calo dei redditi da lavoro: i mutui subprime sono l’esempio migliore di queste facilitazioni creditizie, e non è un caso che l’innesco della crisi finanziaria sia stato rappresentato proprio da obbligazioni collegate a questi mutui.

  16.  In secondo luogo, ha sostenuto interi settori industriali già afflitti da un cronico eccesso di capacità produttiva: si pensi al ruolo giocato dal credito al consumo nel settore automobilistico.

  17.  Infine, ha offerto la via di fuga della speculazione a capitali che trovavano ormai poco redditizio l’impiego industriale: negli Usa negli anni precedenti la crisi il 40% dei profitti totali faceva capo al settore finanziario, e la stessa General Electric per anni ha visto oltre il 50% dei propri utili provenire da GE Capital, il suo ramo finanziario.

  18. La finanza, insomma, non è la malattia. Ma è stata la droga che ha permesso di non avvertirne i sintomi. Con il risultato di cronicizzarla e di renderla più acuta. Nel 2007 questo modello è saltato, e la crisi è esplosa in tutta la sua violenza.

  19.  È la fine di una storia iniziata molti anni prima: quando, all’inizio degli anni Settanta, termina il grande sviluppo economico del dopoguerra. Per capire la crisi odierna bisogna partire da lì. Negli anni Settanta crescita economica, profitti industriali e investimenti produttivi nei paesi più industrializzati cominciano a declinare, e continueranno a farlo nei decenni successivi. Questo perché la redditività del capitale, il saggio di profitto in questi paesi accusa una drastica diminuzione.

  20.  Secondo Marx la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione di questa profittabilità, ossia alla caduta del saggio di profitto.

  21. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è tra gli aspetti più dibattuti delle teorie di Marx. Una breve sintesi: per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che posseggono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione.

  22. Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore, Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro. Questo perché macchinari sempre più sofisticati e costosi aumentano la forza produttiva del lavoro e procurano al capitalista che li impiega per primo un vantaggio competitive sugli altri (vantaggio che poi viene perduto non appena l’uso delle nuove tecnologie si generalizza). In ogni caso, si verifica “una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento” (Marx 1863-5: 110). Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della “composizione organica del capitale”. Si tratta di “un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarievengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro” (ibidem). La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) – diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”.

  23. Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è riscontrabile oppure no? La risposta è senz’altro affermativa. Il saggio di profitto cala in misura significativa in tutti i paesi più industrializzati. Il suo calo si riflette anche sull’andamento del prodotto interno lordo. E infatti nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è stato di poco superiore alla metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi. E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni.

  24. Il risultato è che il tasso di investimento in rapporto al prodotto interno lordo a livello mondiale è sceso dal 26,1% nel 1970 sino a toccare il 20,8% nel 2002 (McKinsey 2010). Da quel momento il tasso di investimento ricomincia a crescere, ma soltanto perché trainato dalla crescita nei paesi emergenti e di nuova industrializzazione (mentre nei paesi più industrializzati non recede in misura proporzionale).

  25.  In parallelo al declino degli investimenti produttivi, i paesi più industrializzati vedono crescere la quota di capitale destinata a investimenti finanziari, come pure il ricorso al debito. Già in un testo del 1977, La fine della prosperità in America, Harry Magdoff e Paul Sweezy scrivevano che con la fine di quel periodo di grande crescita “l’economia degli Stati Uniti si è sempre più andata abituando ad un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano ad alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico all’altro. In misura sempre maggiore il livello generale di attività economica… viene sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati” (Magdoff, Sweezy 1977: 190). Questa affermazione fotografa i primi passi della finanziarizzazione dell’economia statunitense.

  26. In parallelo al rallentamento della crescita che si verifica nei principali Paesi occidentali e all’aumento del peso di credito e finanza, cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 1945-1971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie. Da allora le crisi finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 2010 si sono susseguite non meno di 160 crisi finanziarie e 54 crisi bancarie.

  27. Il 1971 è una data cruciale proprio perché quell’anno gli Stati Uniti decretano la fine del gold-exchange standard, ossia del sistema valutario internazionale imperniato sul dollaro e sulla sua convertibilità in oro, nonché sull’ancoraggio di tutte le altre monete al dollaro. Però non si va nella direzione che all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold standard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato direttamente all’oro. Si imbocca la strada opposta, quella del pure dollar standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiduciaria. Il dollaro diviene una fiat money, ossia una valuta il cui valore è ormai esplicitamente privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò nonostante, il perno del sistema monetario internazionale.

  28. Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo momento il dollaro diventa la valuta internazionale di riserva (ossia la valuta che tutti gli Stati che debbano acquistare materie prime energetiche devono avere nei loro forzieri) e assume anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che periodicamente scuotono altri paesi, ed in particolare i paesi del Terzo Mondo. Questo fa sì che per gli Stati Uniti – e solo per loro – “la possibilità di attingere alle risorse del resto del mondo mediante l’emissione della propria moneta” risulti “pressoché illimitata” (Parboni 1985: 22). In effetti negli anni tra il 1973 e il 1978 viene stampata una grande quantità di dollari: gli Stati Uniti attuano una politica monetaria espansiva e spingono sul prestito estero, che viene concesso in grande abbondanza e a tassi molto favorevoli. I paesi del terzo mondo, ma anche quelli del blocco socialista (Urss e paesi dell’Europa orientale), sono destinatari di ingenti finanziamenti.

  29. Se il decennio degli anni Settanta è il decennio della fine dei cambi valutari fissi, gli anni Ottanta vedono la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale e, a partire dagli Stati Uniti, l’inizio dello smantellamento del sistema normativo che era stato costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta).

  30. Ma gli anni Ottanta vedono anche il brusco passaggio dalle politiche monetarie estremamente espansive del decennio precedente a politiche fortemente restrittive. Sono gli anni del governatore della Fed Paul Volcker, che attua una restrizione monetaria portando alle stelle – e molto al di sopra dello stesso tasso di inflazione – i tassi di interesse (Arrighi 1994: 412-3, 421). A questo punto i paesi emergenti sono costretti, per competere con efficacia con gli Stati Uniti su mercati dei capitali, a portare anche i propri tassi d’interesse alle stelle, il che a sua volta rende onerosissimo il servizio del debito ed estremamente doloroso anche il ripagamento dei prestiti contratti in precedenza. Esplode la crisi del debito dei paesi del terzo mondo, peggiorata dal crollo del prezzo delle materie prime. Anche i paesi socialisti dell’Est europeo sono presi in contropiede dalla mutata situazione dei mercati monetari. I Paesi più nei guai sono quelli che negli anni precedenti si erano più fortemente indebitati. Non pochi sono colpiti – oltreché dall’impennata degli interessi – dall’instabilità dei cambi, soprattutto quando il loro export viene pagato in dollari e le loro importazioni sono pagate in altre valute. Tra il 1980 e il 1988 i prezzi reali delle esportazioni di merci prodotte nel Sud del mondo segnano un – 40%, e i prezzi del petrolio addirittura un – 50%.

  31. In molti paesi del terzo mondo scoppiano crisi del debito. A seguito di ciascuna di queste crisi gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale. Più in generale, da tutto il mondo ingenti capitali tornano ad affluire verso i paesi ad alto reddito, mentre negli anni Settanta si era avuto un processo contrario. Torna ad aumentare il divario di reddito tra paesi occidentali e resto del mondo.

  32. Ma non va dimenticato che l’impennata dei tassi d’interesse, unitamente al crollo del prezzo delle materie prime energetiche a metà degli anni Ottanta, contribuisce anche – e in misura probabilmente determinante – al crollo dell’Urss e dei paesi socialisti dell’est europeo. I tassi d’interesse infatti peggiorano la situazione debitoria dei paesi indebitati (e i paesi socialisti avevano ricevuto cospicui finanziamenti), a fronte di minori entroiti derivanti dall’esportazione di materie prime energetiche. Per di più la corsa al riarmo, che con la presidenza Reagan vede un’importante accelerazione, induce questi paesi a destinare alle spese per armamenti una quota elevata del prodotto interno lordo, il che comporta una riduzione della fetta della ricchezza nazionale che va ai consumi. Queste difficoltà economiche sono tra le cause principali – anche se tra le meno ricordate – della caduta del muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica.

  33. La fine dell’Urss segna uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo contemporaneo l’aura, più ancora che della superiorità, della definitività. Non è un caso il successo incontrato all’inizio degli anni Novanta dal mediocre libro di Francis Fukujama “La fine della storia”. A posteriori, è facile giudicare la situazione come molto più complessa di quanto lasciassero intendere i resoconti trionfalistici dell’epoca. Se l’ingresso dei paesi ex-socialisti europei nel mercato mondiale favorì la ripresa dei profitti di molte imprese occidentali (soprattutto di quelle che erano in grado di ampliare i mercati di sbocco delle proprie merci come pure di delocalizzare in quei paesi le proprie produzioni), il tasso degli investimenti industriali nei paesi occidentali (e per conseguenza anche l’occupazione) continuò a scemare. E lo stesso venir meno del “Nemico” esterno accentuò i conflitti latenti tra gli interessi economici degli Stati Uniti e quelli dell’Europa. Il caso più clamoroso è rappresentato dal varo, nel 1992, del progetto dell’euro, a tutt’oggi la maggiore sfida lanciata all’egemonia valutaria statunitense su scala mondiale.

  34. Né si può dire che in questo periodo manchino le crisi finanziarie. All’inizio degli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria del Giappone, che entra in una lunghissima fase di stagnazione. Nel 1997 è la volta dei Paesi del sud-est asiatico ad essere sconvolti dalla crisi; nel 1998 ad essere colpita è la Russia. In tutti questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla speculativa della new economy (1999-2000).

  35. Già in questi anni i più lungimiranti analisti finanziari lanciano segnali d’allarme riguardo a “un ciclo mondiale del credito le cui origini posso essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai prossimo alla maturità” (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la “eccessiva creazione di credito” a cui fanno riscontro “decisioni di investimento sbagliate”; si sostiene, in particolare, che “la spiegazione principale della rapida crescita del Pil e della produttività negli anni recenti, in particolare negli Stati Uniti, consiste nel parossistico ciclo del credito” (Warburton 1999). L’esaurirsi del “super-ciclo del debito” (Mauldin, Tepper 2011), la cui fine sarebbe stata decretata dalla crisi scoppiata nel 2007, è insomma già chiaramente percepibile nel tornante tra secondo e terzo millennio.

  36. Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. E questo nonostante il campanello d’allarme costituito dall’esplosione della bolla della new economy e dalla recessione che inizia nel marzo 2001 negli Stati Uniti. Il 10 settembre 2001 la Banca dei Regolamenti Internazionali pubblica il rapporto relativo al secondo trimestre del 2001. Da esso emerge un“colpo di freno dell’economia mondiale”, segnalato dal chiaro “rallentamento della domanda di prestiti per nuovi investimenti”. Negli Usa, però, la situazione appare particolarmente seria. I dati relativi alla produzione americana nel mese di agosto avevano battuto due record negativi: l’andamento peggiore della produzione industriale americana dal 1960 (undicesimo calo consecutivo), e il tasso di utilizzo degli impianti, tornato ai minimi del 1983 (tra le industrie manifatturiere la capacità produttiva inutilizzata era ormai superiore al 25% del totale). Ancora: i profitti delle 500 imprese dell’indice Standard & Poor’s nel secondo trimestre 2001 avevano segnato un calo medio del 60%, e si trovavano secondo l’Economist “al livello più basso da mezzo secolo a questa parte”. Ma questi problemi non riguardavano soltanto gli Stati Uniti: si era infatti in presenza di una crisi sincronizzata tra le principali economie mondiali, che evidenziavano tutte un eccesso di capacità produttiva “al suo livello massimo dagli anni Trenta” (Economist 2001).

  37. Con l’11 settembre, una crisi già in atto viene addebitata all’attentato. E, cosa più importante, vengono assunte contromisure di eccezionale ampiezza, tra cui incentivi diretti alle imprese di dimensioni che non si ricordavano dai tempi della crisi della Chrysler negli anni Settanta e riduzioni delle tasse (ai ricchi) per 100 miliardi di dollari (anche in questo caso, bisogna risalire al 1973 per trovare provvedimenti di entità comparabile). Il provvedimento più rilevante è però un altro: la Federal Reserve inonda il mondo di liquidità e porta i tassi di interesse ai minimi storici da 40 anni, rendendoli di fatto negativi (cioè inferiori al tasso d’inflazione).

  38. Nel 2001 la cura sembra funzionare: a novembre la recessione ha termine. Ma i bassi tassi d’interesse alimentano la finanza creativa e con essa la bolla del mercato immobiliare e dei titoli finanziari legati ad essa, che sarebbe scoppiata nel 2006 (sul piano dell’economia reale) e nel 2007 (sotto il profilo finanziario). L’utilizzo della finanza e del credito per spingere i consumi, sostenere settori industriali in affanno e ottenere profitti da attività speculative – in altre parole come droga contro la crisi – è insomma andato avanti per qualche altro anno. Ma in questo modo il risveglio è stato ancora più doloroso.

  39. Ricapitolando, la crisi che scoppia nel 2007 ha cause di breve, medio e lungo periodo, così sintetizzabili:

- nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni);

- nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.

- nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971 non è legata ad alcun sottostante).

  1. L’innesco della crisi è comunque rappresentato dal collasso del modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni (per i dati relativi vedi Giacché 2012: 29-30).
  1. Viene alla luce un “sistema bancario ombra”, che consentiva di occultare una leva finanziaria elevatissima (rapporto attività/mezzi propri pari o superiore a 30). In tal modo le perdite maturate in alcuni settori (mutui subprime e obbligazioni basate su di essi) si estendono a macchia d’olio agli altri, nel momento in cui le banche e le società finanziarie coinvolte sono costrette a vendere in perdita gli assets finanziati a leva. Il sistema finanziario è sconvolto dalla crisi e ne amplifica gli effetti. Quando nel settembre 2008 la banca d’investimento Lehman Brothers fallisce, la circolazione del capitale sembra per qualche tempo interrompersi su scala mondiale, si verificano corse agli sportelli e fenomeni di tesaurizzazione. Crollano produzione e commercio internazionale.
  1. Tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009 la bancarotta delle principali istituzioni finanziarie a livello mondiale, ma anche di molte grandi imprese manifatturiere (si pensi al settore automobilistico statunitense), fu sventata soltanto grazie a interventi pubblici di salvataggio senza precedenti: nel giugno 2009 la Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei paesi dell’Eurozona a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra di 14.000 miliardi di dollari. Si trattava – precisava lo stesso rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50% del prodotto interno lordo di quei paesi (Bank of England 2009). Si ebbe in tal modo una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico o, per essere più chiari, una gigantesca socializzazione delle perdite.
  1. Da allora il debito complessivo non è diminuito. L’unico risultato ottenuto dai salvataggi pubblici è stato quello di ridurre in proporzione (ma non in cifre assolute) la quota del debito privato aumentando quella del debito pubblico.
  1. La seconda fase della crisi investe quindi il debito pubblico. Era prevedibile. Come scrissi nell’estate 2009, “la gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un’ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato… sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private… Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco” (Giacché 2009: 49-50).
  1. In ogni caso, solo “l’incremento dell’indebitamento pubblico è stato ciò che ha fermato l’incremento dell’indebitamento privato” (Artus 2011). Per questo i sermoni di questi mesi sugli Stati spendaccioni sono profondamente mistificatori. La verità è che la dinamica di crescita del debito pubblico negli ultimi anni non ha nulla di autonomo. Essa, al contrario, è una derivata della crisi. In Europa più che altrove.
  1. Quando la crisi iniziata negli Stati Uniti attraversa l’Atlantico e si allarga all’Europa, emerge anche nel vecchio continente un eccesso di capacità produttiva mascherato dal ricorso all’indebitamento (anche in questo caso, soprattutto privato). A questo punto si innescano quattro processi molto importanti, che concorrono a gonfiare il debito pubblico e a metterne in questione la sostenibilità.
  1. 1) Gli Stati, l’abbiamo visto, mettono in gioco cifre ingentissime per impedire fallimenti su larga scala di grandi imprese private, soprattutto del settore finanziario. Questo ha conseguenze destabilizzanti soprattutto per Irlanda e Spagna. Nel caso dell’Irlanda, l’esplodere del deficit pubblico (giunto al 32% del pil) è dovuto praticamente solo all’assunzione dei debiti di due grandi banche sull’orlo del fallimento. Nel caso della Spagna, invece, i salvataggi riguardano numerose casse di risparmio in difficoltà. Ma gli effetti sono analoghi.
  1. 2) Diminuisce il prodotto interno lordo e quindi peggiora il rapporto debito/pil. Questo ha avuto gravi conseguenze soprattutto in Italia, vista l’entità del debito ereditato dai decenni passati.
  1. 3) A causa della crisi crollano le entrate fiscali dello Stato, aggravando anche per questo verso la situazione debitoria degli Stati. In questo caso le conseguenze sono state particolarmente gravi per la Grecia, dove le minori entrate fiscali hanno impedito di nascondere più a lungo la reale situazione dei conti pubblici, che era stata coperta con trucchi contabili dai tempi dell’ingresso nell’euro.
  1. 4) I flussi di capitali esteri diretti verso alcuni paesi cominciano a prosciugarsi: viene così in evidenza il deficit della bilancia commerciale di questi Paesi e più in generale l’insostenibilità del loro debito complessivo verso l’estero. Quest’ultimo aspetto ha giocato un ruolo importante soprattutto nelle crisi di Grecia, Portogallo e Spagna. I capitali esteri che vengono progressivamente rimpatriati sono in primo luogo quelli tedeschi. Si ripete così, con ruoli in parte rovesciati, quanto era accaduto con il rimpatrio dei capitali statunitensi dalla Germania dopo il 1929, elemento decisivo per l’aggravamento della crisi in Europa negli anni Trenta.
  1. Il problema del debito pubblico, insomma, esplode come conseguenza della crisi. Ma al tempo stesso rivela squilibri di fondo tra i paesi europei. Squilibri che l’euro non soltanto non ha sanato, ma ha addirittura accentuato. Paradossalmente, all’origine di buona parte dei problemi che oggi affliggono l’Europa ci sono proprio alcuni dei più grandi successi dell’euro: la convergenza dei tassi d’interesse all’interno dell’area valutaria e la fine dei rischi legati al tasso di cambio.
  1. In primo luogo, la moneta unica ha reso bassi e omogenei tra loro i tassi d’interesse in tutta l’Eurozona, portandoli al livello dei tassi tedeschi. Questo ha consentito di abbassare notevolmente gli interessi bancari e gli stessi rendimenti dei titoli di Stato. Ma ha rappresentato per molti paesi una politica monetaria eccessivamente espansiva, che ha favorito un rapido aumento dell’indebitamento privato (se indebitarsi costa meno, si fanno più debiti) e la formazione di vere e proprie bolle immobiliari. Questo è quanto è successo in Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.
  1. In secondo luogo, la moneta unica ha eliminato le diverse valute preesistenti, eliminando quindi i rischi di cambio all’interno dell’area valutaria. Questo ha aumentato i commerci all’interno dell’Eurozona, ma al tempo stesso ha impedito le svalutazioni competitive e spinto ciascun paese a rafforzare la propria specializzazione produttiva. Così la Germania ha rafforzato la propria vocazione di industria manifatturiera, mentre altri paesi si sono focalizzati maggiormente sul settore dei servizi. Va notato che molti di questi servizi (si pensi all’edilizia, o al commercio) non sono rivolti all’esportazione e quindi il loro sviluppo non comporta alcun beneficio per la bilancia commerciale. Alcuni paesi – gran parte di quelli che oggi sono in difficoltà – si sono progressivamente deindustrializzati e hanno cominciato a maturare deficit sempre più cronici nei confronti dell’estero.
  1. Questi deficit sono stati mascherati per diversi anni da un forte afflusso di capitali da parte dei paesi più forti dell’area valutaria, e da una crescita a debito, gonfiata da bolle creditizie e immobiliari (si pensi al caso della Spagna, ma anche all’Irlanda). In questo modo la polarizzazione tra paesi “neomercantilisti” (a crescita basata sulle esportazioni) e paesi “periferici” (importatori netti) si è accentuata, a tutto beneficio dei primi.
  1. La crisi ha rotto questo meccanismo, interrotto quell’afflusso di capitali e reso evidente che la convergenza tra le economie dell’eurozona era solo apparente e che la specializzazione produttiva di alcuni paesi in realtà comportava un deficit cronico della bilancia commerciale nei confronti dell’estero. Ora, se un paese ha un deficit strutturale di questo tipo verso l’estero – ossia se consuma più di quanto produce – è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o di entrambi. Tra fine 2008 e inizio 2009 il testimone del debito è passato dal settore privato a quello pubblico.
  1. Ma il problema di fondo è la divergenza tra le economie dell’eurozona, in assenza di meccanismi di riequilibrio. Tutto questo però non è casuale.
  1. Questo accumulo di debito da parte di determinati paesi, mentre altri accrescono la loro posizione creditoria, è un fattore distruttivo per un’area valutaria: non a caso una critica mossa a posteriori nei confronti dell’architettura dell’euro è quella di aver preso in considerazione, ai fini dei famosi parametri di Maastricht, i soli deficit pubblici, senza curarsi dei deficit delle partite correnti (Giavazzi, Spaventa 2010). È facile rintracciare la matrice ideologica di questa assenza: si tratta della convinzione che soltanto il settore pubblico possa produrre squilibri inaccettabili, mentre il mercato invece sarebbe in grado di correggere da solo i propri eccessi (è la stessa convinzione che negli Stati Uniti ha guidato la deregulation nel settore finanziario).
  1. Quanto sopra ha assunto caratteri dirompenti a causa dell’assenza di politiche integrate a livello europeo in grado di colmare gli squilibri all’interno dell’area valutaria, o almeno di evitare che essi si approfondiscano. Il problema è che l’architettura dell’Unione Europea prevede una moneta unica, ma non una politica economica unica: e questo rende impossibile in radice l’attuazione di politiche del genere. È questo il vero e proprio vizio di fondo dell’Unione Europea come la conosciamo oggi. Per questo motivo diversi economisti – tra loro il premio Nobel Robert Mundell – hanno detto sin da subito che l’eurozona non rappresentava “un’area valutaria ottimale”. Lo stesso Jacques Delors, uno dei padri dell’euro, oggi riconosce che l’Unione economica e monetaria è partita “su una gamba sola, quella monetaria” e che quindi, “fin dall’inizio, il sistema si è rivelato squilibrato” (Degli Esposti, Giacomin, Righi 2011: 139).
  1. Ma l’assenza di una politica economica comune ha a sua volta un’origine ben precisa: una politica economica comune è infatti impossibile in assenza di una politica fiscale comune (in presenza, cioè, di aliquote e meccanismi fiscali diversi nei differenti paesi europei). E le politiche fiscali dei Paesi dell’Unione sono tutt’altro che omogenee. Anche perché i Trattati oggi in vigore prevedono che sull’armonizzazione delle politiche fiscali l’Unione possa decidere soltanto all’unanimità. Conseguenza: è sufficiente che un solo paese sia contrario per impedire che l’Unione Europea armonizzi le diverse legislazioni fiscali.
  1. All’origine di questa situazione vi è, ancora una volta, un preciso presupposto ideologico: l’idea secondo cui il “libero agire delle forze di mercato”, unito al coordinamento delle politiche monetarie e di bilancio, sarebbe la ricetta giusta per conseguire la crescita economica. Su questa idea sono stati costruiti tutti i trattati, almeno dall’Atto Unico Europeo in poi.
  1. Un secondo motivo è molto più concreto, ed è rappresentato dagli interessi delle imprese: che, in assenza di regole fiscali comuni (ossia di soglie minime di tassazione e di aliquote fiscali uniformi nei diversi Stati dell’Unione), hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (come l’Irlanda, dove la tassazione sulle imprese è tuttora al 12,5%). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea (in qualche caso nella forma di aliquote più basse che in passato, in altri casi – come in Italia e in Grecia – di un ampio e tollerato ricorso all’evasione fiscale). L’ovvia conseguenza – siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie basse di deficit – è stata l’aggravio del carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori dipendenti) e una progressiva riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati.
  1. L’altro ambito cruciale in cui il meccanismo delle decisioni all’unanimità ha consentito di non uniformare le legislazioni è quelle delle politiche sociali e dell’impiego. Standard di protezione, livelli salariali, stipendi minimi: tutto questo non è stato comunitarizzato, ma è rimasto a livello nazionale. Ingenerando, anche in questo caso, una concorrenza al ribasso.
  1. Le conseguenze di tutto ciò sono di grande importanza, ma sono rimaste ingiustamente in ombra nell’analisi della crisi attuale e delle sue cause. Oggi in Europa nessuno Stato membro può mettere dazi all’importazione su prodotti di altri Paesi dell’Unione. Ma ogni impresa può migliorare la propria “competitività” facendo arbitraggio fiscale tra i diversi Paesi della stessa Unione Europea (l’hanno fatto praticamente tutte le grandi imprese). E ogni Stato membro può permettere che le proprie imprese abbassino gli standard di protezione dei lavoratori per abbassare i costi e vincere la competizione con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
  1. È quello che in questi anni è stato fatto in Germania, paese in cui nei dieci anni successivi all’introduzione dell’euro i salari non solo non hanno ricevuto che le briciole dell’aumento della produttività del lavoro, ma sono addirittura diminuiti del 4,5% in termini reali (cioè tenendo conto dell’inflazione). In nessun altro Paese dell’Eurozona vi è stata una diminuzione comparabile, e precisamente questo è uno dei motivi dell’avanzo commerciale maturato in questi anni dalla Germania nei confronti degli altri Paesi della zona euro (Schlecht 2011). In uno dei suoi ultimi rapporti, il Centro Europa Ricerche descrive la situazione in questi termini: “Dal 1997 a oggi, rispetto all’Eurozona, la Germania ha aumentato le proprie esportazioni del 30 per cento, mentre ha diminuito la propria domanda interna di 15 punti. Non sorprendentemente, la quota dell’avanzo commerciale tedesco generata dall’interscambio con l’area della moneta unica è salito, nello stesso periodo, dal 25 a oltre il 40 per cento del totale”. Ancora: “l’accresciuta penetrazione sul mercato europeo è in parte non trascurabile da ricondurre alla politica di deflazione salariale che la Germania ha seguito dopo l’adozione dell’euro. Dal 1998 i salari reali tedeschi diminuiscono, rispetto alla media dell’Eurozona, dell’uno per cento all’anno… Non si sono avuti, invece, significativi guadagni di produttività relativa”. Più precisamente, la produttività totale dei fattori in Germania dal 1997 a oggi è aumentata di un modesto 5%, pari all’aumento conseguito dalla Francia e ben al di sotto di quello statunitense (13%). Quanto al progresso tecnico in senso stretto, l’andamento della Germania è in linea con la media europea e non ha quindi nulla di straordinario. La conclusione è obbligata: “la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto al resto dei paesi europei, ossia il miglioramento della competitività di prezzo all’interno dell’Eurozona, è stata ottenuta insomma dalla Germania grazie al contenimento delle dinamiche salariali” (CER 2011). E anche grazie a un forte aumento del lavoro precario e sottopagato: basti dire che nel settembre 2012 si contavano in Germania oltre 6 milioni di “mini-jobber”, persone (soprattutto donne) che non guadagnano più di 400 euro al mese.
  1. Ma anche sul fronte fiscale la Germania ha usato gli spazi di manovra consentiti dalla (non) regolamentazione europea, se si pensa che nel 2010 le società tedesche hanno pagato in tasse 50 miliardi in meno di quello che avrebbero dovuto pagare – a parità di profitti – se fosse rimasta in vigore la normativa fiscale in essere sino al 1998.
  1. Poche cose dimostrano che la gestione di questa crisi ne ha eluso cause di fondo come il fatto che, tra i numerosi interventi imposti dall’Unione Europea all’Irlanda per risanare le sue disastrate finanze pubbliche (taglio di stipendi, pensioni et similia), brilli per la sua assenza la modifica dell’aliquota al 12,5% di tassazione delle imprese e come l’ostinato rifiuto, da parte del governo tedesco, di consentire una reflazione salariale.
  1. A quest’ultimo riguardo vale però è utile precisare che la strategia che impernia la competitività sulla deflazione salariale non è soltanto iniqua e classista, ma ha un ulteriore grave difetto: quello di non essere generalizzabile. E infatti, come osserva la ricerca già citata del Centro Europa Ricerche, “se tutti i paesi europei avessero seguito la strada della deflazione salariale, l’economia tedesca non avrebbe realizzato alcun guadagno di competitività” e l’esito sarebbe stato unicamente un generale abbassamento dei salari reali.
  1. Questo dato di fatto, però, ha due conseguenze molto importanti. La prima riguarda il passato, ed è che la “virtuosa” Germania avrebbe molto di cui ringraziare gli Stati “viziosi” dell’Unione Europea (più o meno tutti gli altri), che in questi anni hanno visto una minore diminuzione dei salari o addirittura un loro aumento (fenomeno del resto fisiologico all’interno di un’area valutaria per i paesi che avevano salari di partenza più bassi): infatti questo ha creato mercati di sbocco per le merci tedesche (mentre come abbiamo visto la domanda interna in Germania si comprimeva in misura significativa) e ha consentito il successo di una politica di export imperniata per l’appunto sulla deflazione salariale.
  1. La seconda riguarda il futuro prossimo, ed è questa: i margini per un successo di questa politica in Europa oggi vengono erosi proprio dalle politiche di austerity selvaggia, e conseguenti recessioni, che la stessa Germania sta imponendo ai propri partner. Infatti, come osserva ancora il CER, “nell’impossibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, molti paesi saranno costretti a ridurre il differenziale di domanda interna rispetto alla Germania attraverso una compressione dei redditi e dell’occupazione” (CER 2011). E questo, a sua volta, colpirà severamente le esportazioni tedesche (è quello che si sta verificando anche per quanto riguarda il nostro paese).
  1. Volendo indicare in sintesi l’atteggiamento delle autorità europee e nazionali nei confronti di questa crisi, si può affermare che, invece di affrontare con decisione gli squilibri tra i paesi europei, si sono indirizzati tutti gli sforzi verso politiche volte a ridurre il debito pubblico.
  1. La priorità assegnata alla riduzione del debito pubblico sembra qualcosa di ovvio. In effetti, politiche con quest’obiettivo sono state poste in essere un po’ ovunque in Europa in assenza di qualsivoglia dibattito pubblico degno di questo nome e come se si trattasse di un’assoluta necessità. Tant’è vero che esse sono state tranquillamente condivise tanto da tutti i partiti al potere, fossero essi socialdemocratici o popolari e conservatori. Mai come in questo caso la definizione di “pensiero unico” è sembrata assumere un significato concreto e tangibile.
  1. Ma se esaminiamo le cose più da vicino la priorità attribuita alla riduzione del debito pubblico non ha nulla di ovvio. Per almeno quattro motivi.
  1. a) In nessun paese europeo il debito pubblico è la componente principale del debito complessivo. Più in generale, nelle 10 maggiori economie capitalistiche avanzate del mondo il debito privato (ossia quello di famiglie, imprese non finanziarie e imprese finanziarie) è sempre la parte maggiore del debito complessivo. Nel caso della Gran Bretagna, il solo debito delle banche è quasi tre volte più grande del debito pubblico. Non solo: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha calcolato che nei prossimi 5 anni le imprese avranno bisogno a livello mondiale di qualcosa come 30.000 miliardi di dollari soltanto per rinnovare i debiti in scadenza. Questa è la vera emergenza del debito.
  1. b) È sbagliato affrontare il tema del debito pubblico di un paese senza considerare al tempo stesso la posizione complessiva (debitoria o creditoria) di questo paese nei confronti dell’estero. La solvibilità di un paese non va confusa con la scomparsa del deficit pubblico. Come ha osservato Patrick Artus, “un paese della zona euro con un debito pubblico significativo ma senza più un deficit complessivo nei confronti dell’estero, ben difficilmente sperimenterà una crisi finanziaria: infatti è molto improbabile che investitori e banche di un determinato paese si rifiutino di finanziare il debito pubblico del proprio paese” (questo è quello che in gergo di definisce home bias: a parità di condizioni, un investitore preferisce i titoli di Stato del proprio paese a quelli emessi da Stati esteri). “Per contro, un paese della zona euro che riduca il proprio debito pubblico ma continui ad avere un deficit nei confronti dell’estero può trovarsi nei guai. È infatti molto più difficile convincere investitori non residenti a finanziare il deficit estero di un paese in crescente disavanzo nei confronti dell’estero che convincere gli investitori di un paese a finanziare il debito pubblico del proprio paese” (Artus 2012). Morale della favola: la priorità non è il pareggio (o addirittura l’avanzo) di bilancio, ma una bilancia commerciale (e più in generale dei pagamenti) in attivo sull’estero. Se c’è quella, anche il problema del debito pubblico può essere risolto più facilmente. Mentre non vale il reciproco.
  1. c) Per quanto paradossale possa sembrare, spesso le manovre di riduzione del deficit pubblico hanno come risultato un aumento del peso del debito. Infatti politiche fiscali restrittive (taglio della spesa pubblica, aumento delle tasse) in genere causano una riduzione della domanda interna, con un conseguente calo dell’attività produttiva e del pil: e quindi il rapporto tra debito e pil peggiora anziché migliorare. Questo è precisamente quanto accaduto alla Grecia a seguito dell’attuazione delle misure di austerità imposte dalla troika (UE, BCE e FMI) a partire dal maggio 2010: l’impressionante peggioramento del rapporto debito/pil (passato dal 145% del 2010 al 162% del 2011 e al 180% stimato per il 2012) è infatti dovuto al crollo dell’attività produttiva causato dalle misure di austerity. In altri termini: la Grecia è in crisi nera proprio perché ha fatto i “compiti a casa”. Ma non si tratta di un caso isolato: le prospettive di crescita sono molto negative per tutti i paesi della zona euro che hanno posto in essere misure di austerity: Italia (2012: -2,6%; 2013: -2,9%), Spagna (2012: -1,5%; 2013: -1,7%), Grecia (2012: -6,7%; 2013: -6,2%), Portogallo (2012: -4,3%; 2013: -3,0%); Irlanda (2012: -1,3%; 2013: -1,3%); guarda caso, gli altri paesi dell’eurozona evidenziano tutti prospettive di crescita più favorevoli (IMK 2012). Anche per questa via, quindi, la divergenza tra le economie dell’Eurozona tende ad ampliarsi anziché ridursi. E infatti se nell’agosto del 2011 la crescita in Italia si discostava in negativo dalla media europea di appena uno 0,3%, un anno dopo, grazie alle misure di austerity, la distanza era cresciuta ad un preoccupante 2,1%.
  1. d) Infine, in concreto affrontare il problema del debito dal lato del debito pubblico comporta 3 importanti conseguenze:
  1. In primo luogo, minori investimenti pubblici (ad esempio in infrastrutture e in formazione e ricerca), con effetti negativi di lungo termine sulla produttività del lavoro e quindi sulla crescita e sulla bilancia commerciale.
  1. In secondo luogo, privatizzazioni e quindi un’ulteriore riduzione del ruolo pubblico nell’economia. Questo significa aprire al capitale (o, come si preferisce dire, al “mercato”) nuovi ambiti di valorizzazione, in linea con la tendenza a sussumere sotto il capitale l’intero ambito della vita associata che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Si dice spesso che questo favorirebbe la crescita, ma dopo le mega-privatizzazioni degli anni Novanta (110 miliardi di proprietà pubbliche privatizzate) l’Italia ha conosciuto il decennio di minore crescita dell’intera storia repubblicana.
  1. In terzo luogo, riduzione dei servizi sociali e delle prestazioni pensionistiche. Ogni taglio ai servizi sociali significa una riduzione dei salari indiretti, mentre ogni taglio alle pensioni significa riduzione dei salari differiti. Di fatto, parte dei costi di riproduzione sociale, che nel welfare state erano sopportati dallo Stato, vengono riportati in capo agli individui.
  1. A questo va aggiunto che i salari diretti sono già stati ridotti dalla crisi (che ha aumentato la disoccupazione e quindi diminuito la forza contrattuale dei lavoratori) e che le “riforme strutturali” che oggi vengono proposte consistono in una riduzione della garanzie contrattuali per i lavoratori (emblematica al riguardo, nel nostro paese, la manomissione dell’art. 18).
  1. Il risultato complessivo di tutto questo in termini economici è contraddittorio: con la riduzione dei salari (diretti, indiretti e differiti) i profitti aumentano, ma si aggrava la crisi della domanda interna che affligge i principali paesi capitalistici.
  1. Per quanto riguarda l’Europa, la crisi della domanda interna – essendo il mercato europeo fortemente integrato – diventa immediatamente crisi dell’export. Quanto poi, in particolare, ai paesi coinvolti dalla crisi del debito sovrano, le manovre economiche imposte da BCE e Unione Europea stanno conducendoli a una depressione economica che aumenta la divergenza rispetto ai paesi del “gruppo di testa” dell’Unione, rendendo di fatto sempre più insostenibile l’esistenza stessa di una moneta comune e sempre più probabile il default di questi paesi.
  1. Se la depressione economica in Grecia e altrove ha già impresso una forte accelerazione ai fallimenti e alle insolvenze delle imprese private non finanziarie, più in generale il peggioramento del servizio del debito di questi paesi (causato anche dalle indecisioni e dagli errori gravissimi – non sempre innocenti – dell’establishment europeo) sta già rendendo insostenibile il peso del debito pubblico e assestando un colpo formidabile alla stabilità stessa di un sistema bancario e finanziario europeo già traballante: la balcanizzazione finanziaria dell’Europa è sempre più una realtà, e sempre più spesso i titoli di Stato dei paesi in difficoltà sono acquistati dalle banche di quello stesso paese, con il concreto rischio che una svalorizzazione di quei titoli trascini con sé la perdita dei requisiti patrimoniali minimi per le banche che li hanno in portafoglio e quindi una crisi bancaria su scala nazionale.
  1. Noi oggi siamo qui. La strada che l’establishment europeo ha imboccato per uscire dalla crisi non fa che aggravarla, rendendo ancora più ingente la distruzione di capitale necessaria per far ripartire l’accumulazione. La stessa decisione, tardiva, della BCE di acquistare “illimitatamente” titoli di Stato di paesi in difficoltà, essendo tali acquisti condizionati a una richiesta di aiuto all’ESM (European Stability Mechanism) da parte degli Stati interessati, rischia di avere come prezzo un’accentuazione di misure di austerity già dimostratesi depressive sul piano economico. Col risultato di limitarsi ad allontanare nel tempo il momento del redde rationem, ma in fondo rendendolo ancora più certo.
  1. Qualcuno in Europa confida tuttora che la distruzione di capital possa essere circoscritta ai cosiddetti “paesi periferici”. Questo accentuerebbe ulteriormente la specializzazione produttiva già propiziata dall’introduzione dell’euro, dando così vita a due Europe: un’area continentale manifatturiera con tassi di sviluppo elevati e un Mezzogiorno d’Europa condannato a scivolare sempre più indietro nella divisione internazionale del lavoro. Ciò consentirebbe anche (per via della crisi del debito) di centralizzare capitali (tramite acquisizione di fabbriche, imprese nei paesi periferici a beneficio di imprese dei paesi più forti, a cominciare dalla Germania) facendo anche per questa via ripartire i profitti (delle aziende acquirenti).
  1. Ma l’ipotesi di una distruzione controllata di capacità produttiva non è lo scenario più probabile. Infatti, non soltanto è implausibile che in una regione economica così interconnessa come l’eurozona il crollo della domanda interna dei paesi in crisi non si ripercuota pesantemente sui paesi esportatori (Germania in primis: e infatti l’economia tedesca sta rallentando vistosamente, e la sua crescita a fine anno sarà di appena lo 0,6%). Ma c’è di più: sul piano valutario, se i processi oggi in corso (divergenza delle economie e balcanizzazione finanziaria) non saranno interrotti, l’eventualità più probabile è la fine dell’euro e forse della stessa Unione Europea.
  1. Anche questa volta, come già al culmine della prima fase della crisi (tra l’autunno del 2008 e i primi mesi del 2009), l’aggravarsi della crisi in Europa è accompagnato da un revival di Marx. Questa volta però il fenomeno non riguarda politici in vena di battute, ma alcuni dei più rispettati analisti finanziari del mondo. Se n’è accorto anche il Financial Times, che ha così commentato la cosa nella sua edizione online: “è interessante notare che mentre la politica si fa sempre più cauta e – diciamolo – reazionaria, alcuni tra i personaggi più influenti del mondo economico e finanziario se ne escono con proposte che li fanno sembrare dei comunisti rispetto alla maggior parte degli uomini di governo” (Mackenzie 2011). Il Financial Times esagera, ma sino a un certo punto.
  1. Quando ad esempio leggiamo che “quasi tutti i rimedi contro la crisi proposti sino ad oggi dalle autorità di tutto il mondo hanno affrontato il problema con l’obiettivo di favorire il capitale contro il lavoro”, facciamo fatica a credere che queste parole siano state scritte da Bill Gross, fondatore e direttore generale di Pimco, il più grande fondo di investimento mondiale in obbligazioni (Gross 2011).
  1. Ma prendiamo Nouriel Roubini, famoso per essere stato tra i pochi a prevedere l’evolvere della crisi dei mutui subprime a crisi sistemica. In un’intervista ha affermato testualmente: “Karl Marx aveva ragione. A un certo punto il capitalismo può autodistruggersi” (Roubini 2011 a). Si è poi soffermato sul circolo vizioso innescato dall’attuale “redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale”: “le imprese stanno tagliando posti di lavoro perché non c’è abbastanza domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce i redditi da lavoro, aumenta la disuguaglianza e riduce la domanda finale” (Roubini 2011 b). Si tratta precisamente di una delle contraddizioni del capitale di cui abbiamo parlato all’inizio.
  1. La soluzione suggerita da Roubini è il ritorno “a un corretto bilanciamento tra mercati e fornitura di beni pubblici”. Una soluzione che comprende tra l’altro stimoli fiscali per investimenti infrastrutturali, tasse più progressive, una migliore regolamentazione del sistema bancario e anche lo spezzettamento delle banche “troppo grandi per fallire” e dei trust oligopolistici. Inoltre le economie avanzate dovranno “investire in capitale umano e in reti di sicurezza sociale” per migliorare la produttività. Altrimenti, dovremo aspettarci un remake degli anni Trenta (Roubini 2011 b).
  1. Il riferimento agli anni Trenta del secolo scorso non deve sembrare eccessivo o fuori luogo. È ben difficile considerare lontani da noi anni dei quali Karl Polanyi poté scrivere: “Il pagamento dei prestiti esteri e il ritorno alla stabilità delle valute erano considerati il simbolo della razionalità politica e nessuna sofferenza dei singoli, nessuna violazione di sovranità erano considerati un sacrificio troppo grande per riacquistare l’integrità monetaria. Le privazioni di coloro che per la deflazione rimanevano disoccupati, la miseria di pubblici impiegati licenziati senza un soldo di liquidazione e anche l’abbandono di diritti nazionali e la perdita di libertà costituzionali, erano considerati un buon prezzo da pagare per soddisfare i requisiti di bilanci solidi e di valute altrettanto solide, questi apriori del liberalismo economico” (Polanyi 1944: 182).
  1. Il ricordo di quanto accadde a seguito di quelle politiche dovrebbe rappresentare un motivo sufficiente per imboccare oggi una strada diversa. Ma affinché questo possa avvenire occorre acquisire piena consapevolezza di un limite strutturale dell’architettura europea attuale e delle sue conseguenze: la struttura sbilanciata dei Trattati europei, come codificata da ultimo nel Trattato di Lisbona ma già ben presente almeno dall’Atto Unico Europeo del 1986, e in particolare la comunitarizzazione asimmetrica delle politiche economiche (voto a maggioranza per le politiche della concorrenza, voto all’unanimità per le politiche fiscali e di protezione del lavoro, e quindi assenza di una politica economica comune pur in presenza di una moneta unica), determina necessariamente due conseguenze.
  1. In primo luogo il fatto che la competizione tra le economie dei paesi dell’Unione Europea avviene sul terreno del dumping fiscale e del dumping sociale, facendo dell’assetto attuale dell’Unione una perfetta macchina per la deflazione salariale.
  1. In secondo luogo, l’impossibilità di governare una situazione di shock asimmetrico come l’attuale (con i paesi dell’Eurozona diversamente investiti dalla crisi), avendo bloccato il timone della politica monetaria (necessariamente uniforme tra i paesi, e quindi in ultima analisi inadeguata per tutti) e non disponendo della funzione riequilibratrice di una politica economica comune.
  1. Se quanto precede è vero, non si può ritenere sufficiente una risposta all’empasse attuale delle politiche europee incentrata soltanto sul superamento dell’asimmetria tra l’istituzione dell’unione monetaria e l’assenza di un’unione politica. Non si può perché, dietro la stessa assenza di unione politica, vi è l’impossibilità – sulla base dei Trattati attuali – di una politica economica comune; impossibilità la quale a sua volta, come abbiamo visto, rinvia a precisi presupposti sociali che informano la costruzione europea quale si è sinora storicamente determinata. Se non si cambiano questi presupposti, anche un eventuale passo avanti verso l’unione politica non sarebbe un passo nella giusta direzione, e anzi potrebbe costituire un’ulteriore pericolosa fuga in avanti. “Più Europa” – se significa “di più di questa Europa” – non è una risposta ai nostri problemi. Ma significa più ingiustizia, più squilibri, più ingovernabilità.
  1. Del resto, l’insostenibilità del modello mercantilistico che la Germania vorrebbe imporre all’intera Europa è evidente non appena si getti lo sguardo verso il resto del mondo, dove secondo quel modello si dovrebbe esportare. Olivier Blanchard ha affermato di recente che “ci vorrà senz’altro almeno un decennio dall’inizio della crisi perché l’economia mondiale torni a una situazione decente”. Com’è stato osservato, se Blanchard ha ragione, questa è la definizione di una lunga depressione (Roberts 2012). Non solo: quest’anno il commercio internazionale crescerà meno del prodotto interno lordo mondiale (cosa assai rara in tempi di globalizzazione). E la crescita dello stesso prodotto interno lordo mondiale sarà quasi esclusivamente dovuta ai paesi emergenti e di nuova industrializzazione, essi stessi peraltro in marcato rallentamento.
  1. Se esaminiamo più da vicino paesi quali il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone, il panorama è decisamente cupo. Il Regno Unito è alle prese con la peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione, e grazie a manovre di austerity molto simili a quelle intraprese nel continente si sta avvitando nella spirale austerity-recessione-calo delle entrate fiscali-nuova austerity. E questo avviene in un paese che ha la sovranità monetaria, la cui Banca Centrale ha acquistato il 60% dei nuovi titoli di Stato emessi dal marzo 2009 in poi, e i cui tassi di interesse sono da ormai quattro anni ai minimi dal 1694. Se c’è un paese che dimostra, in un colpo solo, l’inanità delle politiche monetarie espansive e delle politiche di austerity recessive, questo è il Regno Unito. Gli Stati Uniti, grazie al fatto di aver spinto l’acceleratore su politiche monetarie espansive e sul riacquisto di titoli di Stato da parte della Federal Reserve (il 60% delle nuove emissioni dal 2008 in poi), sono nella situazione relativamente migliore. Ma il tasso di recupero dei disoccupati è più lento di quello registrato durante la Grande Depressione, oltre 50 milioni di cittadini statunitensi dipendono dai “Food Stamps” per nutrirsi, e la pacchia rappresentata dalla crisi europea (che spinge gli investitori nelle braccia del dollaro e dei T-bonds) non può durare all’infinito. Quanto al Giappone, il suo tasso di caduta degli investimenti dall’inizio della crisi è del 15% (come nell’Eurozona e nel Regno Unito), il debito pubblico ha superato il 220% del pil e i tassi di crescita del pil sono stati sostenuti temporaneamente soltanto dalle spese per riparare ai danni del terremoto.
  1. Siamo insomma alle prese con una vera e propria crisi di sistema. Cui si tenta di correre ai ripari, essendo improponibili ulteriori alleggerimenti della politica monetaria (con i tassi a zero o quasi praticamente ovunque c’è poco da fare…), con gli stessi metodi adoperati negli anni Trenta: deflazione salariale, svalutazioni competitive (ossia guerre valutarie: e così in effetti il governo brasiliano ha giudicato le più recenti manovre monetarie espansive intraprese dal governo statunitense) e protezionismo. Non mancano segnali di preoccupante escalation militare in una zona chiave per l’approvvigionamento energetico mondiale quale il Medio Oriente.
  1. Sotto un profilo strategico siamo al punto di partenza: il “super-ciclo del debito” sembra esaurito, il modello della crescita imperniata sulla finanza e sul debito è finito senza aver ceduto il posto ad alcun serio sostituto. Anche perché, e qui si può notare una cruciale differenza rispetto a quanto accadde negli anni Trenta, il modello del mercato autoregolato e onnipervasivo è tuttora largamente egemone, e impedisce ogni sperimentazione di nuovi equilibri sociali e nuovi percorsi di sviluppo. Giungendo, in particolare in Europa, a imporre, quale presunto rimedio alla crisi, dosi più massicce di deregulation, di polarizzazione sociale, di anarchia della produzione.
  1. È fin troppo facile prevedere che tutto questo non rappresenta la strada per uscire dalla crisi, ma un modo per chiudere definitivamente la pagina del welfare State, scritta per la gran parte in un dopoguerra caratterizzato dall’interiorizzazione della lezione della Grande Depressione, dall’esistenza di un temibile modello sociale concorrente e da tassi di espansione economica che rendevano possibili misure significative di redistribuzione della ricchezza. Nessuna di queste condizioni è oggi presente. E anche laddove la realtà mostra in tutta evidenza modelli di sviluppo di successo imperniati su un più equilibrato rapporto tra produttori privati indipendenti e proprietà pubblica (come nel caso della Cina), prevale la tentazione della lettura più facile, che riconduce la rapidità dei tassi di sviluppo vuoi alle condizioni arretrate di partenza, vuoi a un inesistente turbo-capitalismo. Dimenticando il rilievo delle imprese statali, il nocciolo duro rappresentato da quelle cooperative, la non liberalizzazione dei flussi di capitali e la non convertibilità della moneta. O identificandoli con residui dirigistici destinati ad essere spazzati via dal movimento unilineare che condurrebbe al capitalismo anglosassone, télos realizzato della storia umana. E invece va riaffermata la liceità, e anzi la necessità, di riprendere i grandi temi della programmazione dello sviluppo e della pianificazione della produzione. Si tratta di un’esigenza che può essere variamente declinata. Il modo più garbato per farlo è proporre, secondo la formulazione di Nouriel Roubini citata più sopra, il ritorno «a un corretto bilanciamento tra mercati e fornitura di beni pubblici». Ipotesi che secondo lo stesso autore ha una sola alternativa: «come negli anni Trenta, sta­gnazione prolungata, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capi­tali, crisi finanziaria, insolvenze dei debiti sovrani e grande instabilità sociale e poli­tica» (Roubini 2011 b). Se si eccettuano i controlli sui capitali, è il film che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
 
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