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Stato e mercato, un rapporto da ripensare

 

Felice Roberto Pizzuti

Evitare anche fughe oniriche in altri mondi indefiniti, ma anche i complessi che hanno portato una parte della sinistra ad essere più “realista del re” in tema di liberismo. Nessuno sa ancora come si evolverà la crisi, ma questi problemi devono essere al centro del dibattito

Per le dimensioni qualitative e quantitative che la crisi finanziaria ed economica in corso ha già assunto finora (non sappiamo come andrà a finire) possiamo dire che questa è la terza grande crisi degli ultimi ottant’anni, dopo quella del ’29 e quella degli anni ’70 normalmente associata agli shock petroliferi. Non sarà la fine del capitalismo (anche perché non si vede da cosa e ad opera di chi oggi sarebbe sostituito), ma sicuramente sta crollando la forma che era andato assumendo negli ultimi tre-quattro decenni.

Così come si sta manifestando, la crisi attuale ha origine nella vorticosa moltiplicazione delle attività finanziarie avvenuta negli ultimi decenni, nel loro collegamento sempre più flebile con la base patrimoniale su cui si regge la “leva” di creazione delle attività creditizie che è fortemente cresciuta, sulla riduzione delle garanzie richieste per la concessione dei crediti e sul progressivo allentamento delle regolamentazioni e della vigilanza delle imprese operanti nel settore. Si può pensare ad una piramide rovesciata in continua espansione, poggiata su una base relativamente sempre più ristretta e con strutture interne sempre meno adeguate ed affidabili.

La crescente fragilità di questa costruzione, per quanto evidente a chi solo voleva vedere, si è manifestata a tutti quando contemporaneamente si è sgonfiata la bolla immobiliare (riducendo ulteriormente la base patrimoniale della piramide delle attività finanziarie) ed è stata “scoperta” la vasta e (ciò che è peggio) l’imprecisata diffusione dei mutui subprime e di altri titoli creditizi fondati su garanzie inadeguate. Si è così determinata quella di cui adesso tutti parlano come il male estremo, la crisi di fiducia dei e nei mercati, che prima ha messo in sofferenza anche mortale gli istituti finanziari e poi inevitabilmente si è trasferita al settore reale dell’economia, peraltro già sofferente e avviato alla recessione per conto suo.

A questo punto, l’incertezza è diventata sovrana, generando il panico; i mercati non funzionano secondo le regole che gli sono attribuite dalle teorie economiche dominanti; in alcuni casi i mercati non funzionano affatto, “si ritirano”. I corsi azionari crollano e rimbalzano diventando “volatili” come non avveniva dal ’29. L’unica via di salvezza viene unanimemente individuata nell’intervento pubblico che, anche se per somma di richieste diverse e non sempre concordanti, viene complessivamente auspicato ed effettivamente praticato a 360 gradi: ingentissime iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, acquisto dei titoli “tossici”, nazionalizzazione degli istituti finanziari e sostegno alla necessità di ripatrimonializzarli , erogazione diretta di finanziamenti alle imprese del settore reale, garanzie sui depositi dei clienti delle banche e assicurazione del loro salvataggio dal fallimento, nuove e più stringenti regolamentazioni e forme di vigilanza del settore finanziario.

A riprova della combinazione di cattiva coscienza ideologica e della confusione mentale imperante, nonostante l’entità, la molteplicità di forme e l’urgenza con cui vengono unanimemente richiesti gli interventi pubblici, abbondano le precisazioni di commentatori e responsabili economici che quegli interventi debbano essere solo momentanei (anche se nessuno può prevederne la durata) e non invasivi rispetto alla logica di mercato (le istituzioni pubbliche e la collettività pagano le perdite generate dalle imprese private, ma i loro proprietari – se non anche i loro managers - mantengono il loro ruolo).

Se dall’analisi delle cause scatenanti e più visibili della crisi in corso se ne ricerca qualche radice più profonda, emergono altre considerazioni.

1. La crescente finanziarizzazione dell’economia - che non è certo una novità recente – da un lato segnala la necessità di affidarsi alla creazione di “castelli di carta”  per sostenere l’accumulazione dei profitti che, evidentemente, fa fatica a realizzarsi (almeno con la stessa velocità e facilità) nella produzione di beni e servizi reali. D’altro lato, la ricchezza d’origine finanziaria interagisce con il settore produttivo, con le grandezze reali dell’economia e, in particolare, con la distribuzione del reddito che negli ultimi decenni è divenuta molto più sperequata. Quella ricchezza, oltre a riprodurre se stessa, genera anche domanda di beni e servizi reali, sia per consumi (prevalentemente di lusso) sia per investimenti nelle attività produttive.

L’intreccio tra il castello della ricchezza finanziaria e il resto dell’economia fa sì che l’intero sistema acquisisca gli elementi di fragilità del mondo della finanza, generando malessere e instabilità sociale.

La crisi finanziaria odierna non può dunque essere derubricata a crisi settoriale del sistema economico capitalistico o ad una passeggera crisi di fiducia per ristabilire la quale si accetta anche un momentaneo ricorso all’intervento pubblico. E’ il meccanismo di accumulazione del capitale affermatosi negli ultimi decenni ad essere in crisi. D’altra parte, finora il capitalismo ha dato prova più volte di sapersi rinnovare, e se non emergono le forme di un suo più sostanziale e positivo superamento, non sono affatto indifferenti le modalità del suo rinnovamento.

2. Il processo – di finanziarizzazione dell’economia – pur non essendo una novità recente - è andato crescendo vorticosamente negli ultimi anni, anche in corrispondenza alla globalizzazione dei mercati che ha riguardato in misura più profonda, per l’appunto, i mercati finanziari. Più in generale, con la globalizzazione, i mercati hanno allargato la loro sfera d’azione territoriale oltre i confini nazionali che invece continuano a delimitare i poteri delle istituzioni pubbliche. Questa asimmetria – i cui effetti potevano essere almeno attenuati se la politica avesse fatto la sua parte (si pensi invece alle deregolamentazioni decise anche in ambito nazionale) -  ha contribuito fortemente alla modifica dei rapporti tra Stato e mercato teorizzati dalla teoria economica neoliberista.

3. La grande attenzione innescata dalla crisi attuale per il ruolo della fiducia nei rapporti economici  dovrebbe richiamare analoga attenzione all’altra faccia della medaglia, cioè al ruolo dell’incertezza. Nonostante le teorie liberiste abbiano cercato di esorcizzarla – immaginando ipotetici mercati perfettamente concorrenziali e armonici, operatori pienamente informati e a conoscenza delle regole di funzionamento del sistema economico (naturalmente quelle liberiste)  nonché dotati di aspettative razionali capaci di non farli sorprendere dagli eventi (tranne eccezioni irrilevanti) – l’incertezza rimane il male oscuro stabilmente presente nei mercati e può essere affrontato con efficacia solo con una adeguata presenza dall’intervento pubblico.

In sintesi, la ricerca spasmodica del profitto indirizzata verso il settore finanziario  - dove è meno diretto e percepibile lo scontro redistributivo con i salariati  - e lo squilibrio intervenuto nei rapporti tra Stato e mercato sono tra le cause retrostanti delle vicende che hanno alimentato la crisi attuale.  Questa crisi, come quella del ’29, non nasce dalla spinta di forze antagonistiche al capitalismo, ma da contraddizioni interne non previste dalle teorie economiche dominanti.

Dalla crisi del ’29 si uscì con il contributo della forte crescita dell’intervento pubblico, specialmente in campo sociale. Dopo la seconda guerra mondiale, lo sviluppo del ruolo pubblico nelle economie capitalistiche più avanzate, coniugato con la democrazia, determinò tre decenni di grande crescita economica accompagnata da una riduzione della povertà e delle disuguaglianze e da un accresciuto ruolo sociale e politico dei lavoratori.

Questo periodo ebbe fine con l’altra importante crisi degli anni ’70, che fu innescata dagli shock petroliferi e dall’aumento delle materie prime, ma fu preceduta anche da un forte processo di rivendicazioni salariali, sociali e politiche. Da essa però si uscì con la sconfitta progressiva (ancora in corso) della sinistra e con l’affermazione delle politiche neoliberiste; queste, nell’epoca della globalizzazione (non governata), hanno rilanciato il mercato senza regole, hanno ridimensionato il ruolo dell’intervento pubblico e quello dei lavoratori, hanno arrestato e invertito il trend di riduzione delle disuguaglianze, ma non hanno generato un rilancio della crescita e della stabilità paragonabile a quelle del periodo precedente. Anzi, come si è visto, è proprio in quelle politiche funzionalizzate alla ricerca facile del profitto finanziario disgiunta dalla crescita dell’economia reale che vanno rintracciati i motivi determinanti delle crisi sempre più frequenti e profonde degli ultimi anni, fino a quella attuale.

Della quale ancora non sappiamo come si evolverà, e meno ancora come se ne uscirà: dipende naturalmente dalle scelte che si faranno e da chi le eseguirà. Tuttavia, ancora una volta saranno centrali i rapporti tra Stato e mercato che anche la Sinistra farebbe bene a mettere al centro della sua analisi; ma senza i complessi da sensi di colpa che hanno portato una sua parte ad essere più “realista del re” e a confondere quell’atteggiamento con la modernità e il riformismo (per esempio: sempre sicuri che l’unica possibilità offerta ai nostri lavoratori per aumentare l’insufficiente copertura pensionistica debba essere la sottrazione del Tfr alle nostre imprese per investirlo in mercati finanziari altamente instabili che lo convogliano all’estero?). Ma la Sinistra dovrebbe evitare anche fughe oniriche in altri mondi di cui ciò che conta non è solo se siano possibili, ma come e quando, avendo ben in mente che qualsiasi percorso parte comunque dalla realtà attuale e dalla gente che ci vive, realtà con la quale bisogna fare i conti governandola nei suoi aspetti concreti, condizione indispensabile per migliorala e cercare di dirigerla nella direzione voluta (e possibile).

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