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La cultura economica e la crisi (1)

di Roberto Artoni

scienza econ1. In questa nota tenterò di leggere la crisi attuale, finanziaria e reale, come il risultato in buona misura anticipabile dell’applicazione di un modello economico caratterizzato da elementi precisamente identificabili. Dalla lettura e dall’interpretazione critica di questo modello, altri, più attrezzati di chi scrive, dovrebbero delineare gli elementi costituivi di una nuova cultura politica ed economica.

 

2. Il modello di teoria e di politica economica dominante negli ultimi 25 anni ha alla sua base una fortissima fiducia nella capacità di autoregolamentazione dei mercati secondo modalità probabilmente mai riscontrate nella storia del mondo economicamente sviluppato. Sono state riprese e applicate, in altri termini, le indicazioni più elementari della teoria economica sull’ottimalità del meccanismo concorrenziale.

 

3. Con particolare riferimento alla teoria macroeconomica, e quindi alla più generale impostazione di politica economica il punto di partenza è costituito da modelli che abbiano un fondamento microeconomico, siano microfondati nel gergo degli economisti [Solow 2008]. Tuttavia ciò è avvenuto a costo di semplificazioni non innocue: la teoria macroeconomica, nella versione dominante di questi anni deriva da un modello nel quale agenti (consumatori, lavoratori e titolari di fattori produttivi) massimizzano la propria funzione di utilità su un orizzonte infinito in mercati perfettamente concorrenziali (caratterizzati da assenza di potere di mercato e da prezzi dei beni e dei fattori flessibili) e in un contesto di previsione perfetta o di aspettative razionali.

L’aggregazione dei comportamenti individuali in relazioni macroeconomiche solleva numerose difficoltà tecniche, risolte spesso facendo ricorso alla finzione dell’agente rappresentativo o imponendo stringenti ipotesi sulle funzioni individuali [Kirman 1992]. Sono stati altresì ignorati i problemi di stabilità dei modelli caratterizzati da flessibilità di prezzi e salari che la teoria economica più consapevole ha affrontato in questi ultimi decenni [Hahn e Solow 1995].

Questo modello (che ripete al di là di tutte le elaborazioni tecniche il modello walrasiano formulato circa 130 anni fa) è stato assunto per le sue caratteristiche di ottimalità (paretiana) come riferimento normativo cui far tendere i concreti assetti economici e sociali. Il modello di base è stato infatti integrato e articolato con l’introduzione di rigidità nominali, asimmetrie informative, forme di concorrenza imperfetta e altri elementi “realistici”: tutto ciò al fine di consentire, da un lato, la riproduzione, a partire dal modello, degli andamenti di alcune serie storiche e, dall’altro, di individuare gli strumenti di politica economica meglio capaci di avvicinare il funzionamento del sistema economico a quello implicito nel modello walrasiano ottimale.

 

4. Sono molte, e formulate da tempo, le perplessità che un simile modo di procedere suscita. Qui possiamo solo accennare ad alcuni contributi analitici a nostro giudizio rilevanti.

Solow [2008] si è chiesto se l’introduzione di spunti realistici, quali rigidità nominali o potere di mercato, in un modello assolutamente irrealistico non finisca per comprometterne ulteriormente le capacità interpretative.

Buiter [2009] è ancora più esplicito: “the typical graduate macroeconomics and monetary economics training received at Anglo- American universities during the past 30 years or so, may have set back by decades serious investigations of aggregate economic behaviour and economic policy-relevant understanding. It was a privately and socially costly waste of time and other resources”. In particolare l’assunzione di mercati completi per tutti i possibili stati del mondo presenti e futuri, nei quali i vincoli intertemporali di bilancio sono sempre soddisfatti, esclude la possibilità di profondi squilibri sul fronte finanziario, quali si sono manifestati nella crisi in corso. “Both the New Classic and New Keynesian complete markets macroeconomic theories not only did not allow questions about insolvency and illiquidity to be answered : they did non allow such questions to be asked”.

Akerlof [2007] stabilisce un nesso stringente fra l’accettazione della microfondazione adottata dalla teoria macroeconomica e la dimostrazione di alcune neutralità, peraltro difficilmente verificabili sul piano empirico: dall’indipendenza del consumo dal reddito corrente, alla teoria del tasso naturale di disoccupazione, alla equivalenza ricardiana. “Radically antikeynesian conclusions were the logical outcome of such seemingly innocuous assumptions”, quali la massimizzazione dell’utilità e la massimizzazione dei profitti in un contesto intertemporale.

E’ infine rilevante, in questo breve richiamo della letteratura, un saggio di un esponente probabilmente moderato fra i moderni macroeconomisti, quale è Blanchard [2008]. Dopo aver affermato che lo stato della teoria macroeconomica è “good”, riconosce che nel modello neokeynesiano ampiamente utilizzato esistono perlomeno due componenti (su tre) “patently false” (i forti effetti di sostituzione intertemporale nel consumo indotti da variazioni del saggio di interesse reale e il fatto che l’inflazione corrente dipenda esclusivamente dalle attese d’inflazione, con un’implicita sopravalutazione del ruolo delle aspettative e una corrispondente sottovalutazione dei vincoli correnti alle scelte degli operatori). Nello stesso articolo si legge poi che “one striking (and unpleasant) characteristic of the basic NK model is that there is no unemployment”; di qui la necessità d’introdurre frizioni nel mercato del lavoro al fine di avvicinare in qualche modo il modello alla realtà.

Rimane il fatto che in questi modelli non esistono problemi di domanda aggregata nel senso tradizionale del termine: la politica economica è sostanzialmente politica monetaria, che opera attraverso le variazioni del tasso di interesse reale (anche se l’evidenza empirica sull’efficacia di questo strumento, come sottolinea lo stesso Blanchard, è perlomeno dubbia). In tutti i casi in cui il tasso di interesse nominale non è ulteriormente riducibile (e quindi il tasso di interesse reale è eccessivamente elevato) “although monetary policy has lost its standard instrument, it can still lower the real interest rate to stimulate consumption by creating inflationary expectations” [Benigno 2009]. Nella precedente citazione deve essere sottolineato il riferimento alle aspettative d’inflazione, e non all’inflazione: l’inflazione corrente in questi modelli produce, per effetto delle assunzioni che collegano il breve ed il lungo periodo in un contesto di ottimizzazione intertemporale, un aumento del risparmio e quindi una riduzione della domanda.

 

5. In questa sede, più che soffermarsi sulle elaborazioni analitiche, è opportuno sottolineare le implicazioni di politica economica che discendono dal modello macroeconomico dominante e delineare gli effetti che ne sono derivati su tre aspetti essenziali del funzionamento del sistema economico: la distribuzione funzionale e personale del reddito, l’importanza delle aspettative, con la connessa attribuzione di un ruolo centrale ai mercati finanziari, ed infine la definizione dei compiti dell’operatore pubblico.

 

6. Gli effetti sulla distribuzione del reddito sono immediatamente riconducibili al riconoscimento del carattere di ottimalità del modello walrasiano, caratterizzato da perfetta flessibilità di prezzi e, soprattutto, di salari. Le politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro trovano in questo contesto sostanziale giustificazione teorica e piena legittimazione applicativa.

Le conseguenze di questa linea di politica economica possono essere oggi lette con una certa precisione. L’indebolimento dei meccanismi contrattuali di tutela del lavoro ha determinato effetti molto forti, nel senso della concentrazione, sulla distribuzione funzionale e personale del reddito.

Questi effetti sono stati particolarmente accentuati nei paesi in cui la cosiddetta rigidità del mercato del lavoro è stata combattuta con più determinazione: in Europa, Italia e Regno Unito. Secondo la valutazione di un autorevole economista, Blanchard [2005], sono stati ottenuti dubbi, e comunque modesti, risultati dal punto di vista del livello occupazionale. Certamente, è stato creato un mercato del lavoro duale con una consistente fascia di lavoratori precari.

 

7. Gli andamenti distributivi e la precarizzazione del rapporto di lavoro hanno avuto peraltro rilevanti effetti macroeconomici sulla dinamica del prodotto interno, smentendo sul piano fattuale la legittimità dell’espunzione dal quadro analitico dei problemi di domanda aggregata, così come sono tradizionalmente intesi.

Alla stagnazione dei salari ha infatti corrisposto, salvo l’attivazione di meccanismi compensativi di cui diremo, una modesta crescita della domanda e quindi del prodotto. L’Italia è il paese che più degli altri si è trovato in questa situazione.

Solo i paesi, fra quelli sviluppati, che hanno compensato la stagnazione dei salari con l’indebitamento delle famiglie hanno ottenuto tassi di crescita sostenuti. La crisi attuale dimostra tuttavia che la possibilità di circoscrivere gli effetti di una cattiva distribuzione del reddito con il debito non può essere estesa al di là del ragionevole. Al riguardo possiamo citare alcuni dati riferiti agli Stati Uniti. Fra il 1980 e il 2005 per le famiglie statunitensi il rapporto fra l’ammontare del credito al consumo e la mediana del reddito è passato dal 3 al 13%; il debito ipotecario dal 57 al 156%. Negli ultimi anni poi il debito ha consentito l’accesso a vasti strati della popolazione a servizi essenziali quali sanità e istruzione.

 

8. Il secondo elemento importante della teoria economica dominante riguarda l’enfasi posta sul ruolo delle aspettative nella determinazione degli andamenti reali e finanziari del sistema economico. Le aspettative razionali (in altri termini, aspettative coerenti con gli esiti desumibili dal modello “vero” e condiviso di funzionamento del sistema economico), associate al fatto che i comportamenti degli operatori non sono invarianti alle scelte di politica economica sulla base della critica di Lucas, fa sì le autorità siano fortemente vincolate nei loro interventi, dovendo in sostanza adeguarsi alle opinioni prevalenti nel cosiddetto mercato.

Le aree privilegiate in cui si formano le aspettative più rilevanti sono quelle finanziarie, con riferimento a inflazione e a tassi d’interesse, dove i grandi intermediari finanziari (tradizionalmente anglosassoni) agiscono determinando le grandezze fondamentali.

Non credo di deformare la realtà sottolineando l’importanza della sequenza che va dall’attribuzione di un ruolo essenziale alle aspettative per definizione corrette (ad esclusione del contesto passato e presente), alla delimitazione delle possibilità di orientamento delle autorità di politica economica, alla centralità dei mercati finanziari nel valutare le prospettive di sviluppo dei singoli paesi nelle componenti reali e finanziarie, all’importanza di fatto attribuita ai grandi operatori finanziari (da cui sono venuti fra l’altro numerosi ministri dell’economia di importanti paesi).

Più specificamente, e in coerenza con le indicazioni dei modelli dominanti, è stato creato un sistema profondamente deregolamentato, associato ad una pressoché totale libertà di movimento dei capitali.

Gli effetti delle liberalizzazioni (o più propriamente dell’assenza di controlli) sull’attività degli intermediari finanziari sono ormai del tutto evidenti: straordinario sviluppo degli attivi e dei passivi bancari, scarsissima trasparenza dell’oggetto delle transazioni, mistificazioni di fatto dei bilanci con l’utilizzo di strutture extracontabili, inadeguatezza dei controlli delle autorità di vigilanza, affidamento di funzioni pubbliche ad istituzioni private quali le agenzie di rating, sono le manifestazioni patologiche più evidenti di un sistema in parte collassato, in parte salvato da finanziamenti pubblici di straordinarie dimensioni. Certamente non è stata dimostrata la capacità divinatoria o la correttezza delle aspettative dei mercati finanziari.

 

9. Più che soffermarmi su vicende note, vorrei sottolineare due aspetti. Il primo riguarda il fatto che in questi anni tutte le autorità di politica economica hanno prestato esclusiva attenzione all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni, ignorando le dinamiche molto più preoccupanti che si manifestavano in altri settori dell’economia. Questo atteggiamento ha natura profondamente ideologica: in un sistema liberista l’unico possibile fattore di squilibrio o di disordine può venire dall’azione dell’operatore pubblico.

La seconda osservazione verte sull’assenza in questi ultimi decenni di un sistema monetario internazionale anche vagamente regolato. E’ stato abbandonato l’oro; il FMI è stato progressivamente trasformato in una sorta di guardiano a tutela dei prestiti fatti dalle grandi banche americane; siamo quindi entrati in un incontrollato regime di dollar standard in cui il sistema internazionale è stato ed è alimentato dagli enormi disavanzi di parte corrente degli Stati Uniti.

Anche in questo caso è banale osservare che meccanismi privi di ogni sistema di regolazione e autocontrollo sono destinati a bloccarsi.

Oggi si parla di una nuova Bretton Woods. Basti qui solo osservare che una nuova Bretton Woods richiederà comunque un riequilibrio dei rapporti politici far le diverse aree economiche, come presupposto di assetti finanziari capaci di garantire uno sviluppo equilibrato a livello globale.

 

10. Venendo al terzo elemento essenziale, il modello liberista è contraddistinto da un sistematico atteggiamento negativo nei confronti dell’operatore pubblico, visto come causa di inefficienze e di sprechi. I presupposti analitici (cui conviene accennare in via preliminare) di questa visione sono facilmente identificabili.

Si afferma che nel mondo moderno i due più importanti fattori di distorsione sono riconducibili all’esistenza di un cuneo fiscale che impedisce l’uguaglianza fra saggio salariale e produttività marginale del lavoro (scoraggiando l’offerta di lavoro) e la doppia tassazione del risparmio, che impedisce l’uguaglianza fra tasso d’interesse reale e saggio marginale di sostituzione intertemporale, che scoraggia l’investimento e quindi la crescita del sistema. Al di là di verifiche empiriche molto dubbie (che attribuiscono a questi fattori buona parte della differenza nel reddito procapite fra i diversi paesi), si suggerisce di mantenere ai livelli attuali la tassazione dei salari (per non peggiorare le distorsioni) e di azzerare (al di là di quanto si è già verificato) la tassazione dei redditi di capitale [Chari e Kehoe 2006].

Prescindendo da ogni valutazione di merito, comunque legata alle specifiche circostanze, sull’opportunità di aumentare o diminuire la pressione fiscale, è certo che in ogni paese l’ingessamento delle capacità operative delle pubbliche amministrazioni su premesse puramente ideologiche ha contribuito a esasperare molti problemi di carattere sociale, oggi resi meno trattabili dalla crisi in corso. Ad ulteriore giustificazione della delimitazione del ruolo dell’operatore pubblico, in tutta la letteratura ortodossa emerge una straordinaria fiducia nella funzionalità dei meccanismi assicurativi privati, cui si attribuisce la capacità di assicurare anche i rischi sociali tipicamente rientranti nella sfera del welfare state.

 

11. La valutazione negativa della funzionalità dell’operatore pubblico ha innescato fra l’altro processi di privatizzazione molto estesi (di cui si potrà fra alcuni anni giudicare se hanno prodotto i risultati attesi o se hanno portato di fatto all’indebolimento delle strutture produttive e alla formazione di rendite private).

Non è inopportuno soffermarsi a questo punto, in un ambito più vasto, sul concetto di concorrenza. La concorrenza, cui si fa correntemente riferimento, è una situazione statica caratterizzata da una pluralità di imprese prive di potere di mercato.

La concorrenza riscontrabile nella realtà è invece contrassegnata da una sorta di distruzione creatrice che determina forti processi di concentrazione delle imprese e, quindi, di potere di mercato. La conseguenza è una tendenza dei più forti o dei più protetti a diventare sempre più dominanti; in alternativa possono affermarsi nei settori emergenti nuove imprese, alimentate in genere da un rilevante patrimonio di conoscenze scientifiche e tecnologiche.

Può essere colta un’evidente implicazione, che pone in discussione l’adesione a semplicistici modelli liberisti. Le situazioni di crisi non portano universalmente alle stesse conseguenze una volta che si guardi all’economia reale, dipendendo dalla forza intrinseca dell’apparato produttivo. In altri termini, una qualche forma di politica industriale, intendendo il termine nel senso più ampio, è necessaria se si vogliono limitare le conseguenze negative, in termini di deterioramento permanente del sistema, dei periodi di contrazione economica.

 

12. Sempre in quest’ambito e come manifestazione della fiducia nei meccanismi assicurativi privati, è stato poi avviato (o tentato di avviare) un drastico ridimensionamento del welfare state.

Conviene qui richiamare le principali tipologie di stato sociale. Il primo è quello pubblico, tipico della realtà europea caratterizzato dall’universalismo delle prestazioni. Il secondo è quello aziendale, tipico degli Stati Uniti, dove pensioni e sanità sono strettamente collegati al rapporto di lavoro. La crisi della Corporate America, accentuatasi nell’ultimo periodo, ha dimostrato la fragilità di questo sistema, peraltro caratterizzato da due elementi: la copertura parziale della popolazione e il costo estremamente elevato, in particolare delle assicurazioni sanitarie. Tutti i progetti di riforma della sanità, attualmente in discussione negli Stati Uniti, sembrano assumere a riferimento il modello europeo. Si riconosce, in altri termini, che i modelli assicurativi a base limitata, anche se relativamente estesa, vanno incontro necessariamente a difficoltà insormontabili, quando la platea degli assicurati attivi si riduce o aumenta la quota di popolazione assistita. Questi problemi diventano trattabili solo in un contesto universalistico.

Infine esiste il modello assicurativo-individualistico, in cui il compito dello Stato è quello di facilitare l’acquisto di copertura assicurativa attraverso agevolazioni fiscali. E’ il modello che è stato perseguito con tenacia, anche se con modesti risultati, dall’Amministrazione Bush. Fondamentalmente, questo modello implica che il rischio sia collocato in capo all’individuo (e non alla collettività nel suo complesso o all’impresa come nelle due ipotesi precedenti). Il sistema italiano di previdenza integrativa si pone in questa linea. [Artoni e Casarico 2008].

Il crollo dei mercati finanziari di questi mesi dimostra quanto sia pericolosa questa attribuzione di rischi sia nel campo sanitario (in quanto scattano molto presto limiti alla copertura) sia in campo previdenziale (in quanto la volatilità dei mercati finanziari può portare a rendimenti dei contributi totalmente inadeguati). Non siamo ancora in grado di valutare gli effetti del crollo dei mercati finanziari sui fondi pensione americani: temo che siano molto pesanti.

 

13. Abbiamo, credo, indicato i limiti della teoria economica dominante, che possono essere sinteticamente riformulati richiamando alcuni contributi fondamentali di altre impostazioni teoriche che sono stati colpevolmente dimenticati in questi anni.

Polanyi [1944] ha sostenuto che era improponibile l’equiparazione concettuale di tutti mercati, non riconoscendosi caratteristiche specifiche al lavoro, al capitale finanziario e alle risorse naturali. Per quel che riguarda il lavoro, abbiamo già osservato che l’indebolimento delle salvaguardie contrattuali ha portato ad una rilevante concentrazione nella distribuzione del reddito con effetti non positivi sulla coesione sociale. Si può aggiungere, citando Polanyi, che la presunta “forza-lavoro” non può essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva d’impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare.

L’assenza di regolazione dei mercati finanziari ha portato ai fenomeni d’instabilità finanziaria cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio. In questo contesto specifico è oggi luogo comune il richiamo ai contributi di Minski [1975].

L’uso indiscriminato delle risorse naturali ha conseguenze di lungo periodo, sulle quali non ci siamo soffermati, ma di cui tutti siamo consapevoli.

Kalecki [1979] ha fortemente sottolineato l’importanza di un’equilibrata distribuzione del reddito per il mantenimento della piena occupazione nel lungo periodo, cui peraltro dovevano essere associati appropriati meccanismi di determinazione delle dinamiche delle retribuzioni monetarie.

Keynes [1936] ha dimostrato che le forze che muovono la domanda aggregata sono indipendenti da quelle che definiscono l’offerta aggregata, risultando quindi la totale inadeguatezza di tutta la modellistica che esclude a priori la possibilità di uno squilibrio rilevante e persistente fra domanda e offerta a livello aggregato. Più in generale, nel contesto attuale, in cui molte certezze analitiche e interpretative dovrebbero essere venute meno, tutti i contributi della scuola postkeynesiana meriterebbero una riconsiderazione filologicamente corretta [Pasinetti 2007].

Arrow [1963] ha dimostrato che l’inesistenza di mercati effettivamente funzionanti capaci di garantire la copertura contro i grandi rischi sociali ha portato, a livello collettivo, alla creazione di istituzioni non di mercato finalizzate al superamento delle inefficienze connesse all’incompletezza dei mercati del rischio.

Infine, non sembra inutile, con un generico richiamo a Colbert, riaffermare l’importanza di politiche industriali consapevoli a livello o nazionale, o sovranazionale, come dovrebbe essere all’interno dell’Unione europea.

Sarebbe in conclusione ed in estrema sintesi auspicabile un atteggiamento culturale correttamente pluralistico, evitando i dogmatismi o le rappresentazioni puramente ideologiche della realtà che hanno caratterizzato gli ultimi anni [Pasinetti 2008].

 

14. La letteratura cui abbiamo fatto riferimento è certamente datata, ma non meno rilevante nelle sue indicazioni essenziali: non la considererei in ogni caso superata.

Ovviamente le esperienze del passato non possono essere acriticamente riproposte. Molti fatti nuovi, probabilmente irreversibili, si sono verificati, dall’integrazione economica internazionale, alla creazione di aree economiche sovranazionali, ai problemi connessi alla gestione qualitativamente soddisfacente e dimensionalmente controllata di importanti servizi sociali estesi all’intera popolazione in un contesto di aumento dell’età media, alla centralità dei beni posizionali nei moderni assetti sociali. Questi fatti nuovi impongono analisi adeguate e aggiornate.

Rimane tuttavia il fatto che i problemi di distribuzione funzionale e personale del reddito, di gestione della domanda aggregata e di ripartizione dei rischi sociali o di rafforzamento dell’apparato produttivo, oltre che quelli di coesione delle diverse componenti di una società sviluppata, non possono essere ignorati o completamente rimossi dal quadro interpretativo.

 

15. A titolo di conclusione deve essere sottolineato il pericolo di letture errate della situazione attuale, che potrebbero essere il presupposto per la ripetizione degli stessi errori dell’ultimo periodo. Sulla scorta dell’infaticabile attività pubblicistica di commentatori formatisi negli anni della presidenza Reagan, il modello ortodosso, di cui abbiamo tentato di delineare gli aspetti essenziali, è stato proposto come termine di riferimento per le scelte di politica economica di tutti i paesi, sviluppati e non. La giustificazione stava nel successo relativo dell’economia americana, misurata da un tasso di crescita del Pil procapite superiore di circa 1,5 punti rispetto a quello europeo e dai buoni risultati occupazionali. E’ stata poi dichiarata con grande convinzione la morte del modello europeo, con forti influenze sulle impostazioni programmatiche anche dei partiti europei di sinistra. Oggi la crisi economica permette letture certamente più meditate. Le ragioni dell’apparente successo stavano in primo luogo nell’assenza di vincolo estero per l’economia americana. Le autorità di quel paese hanno potuto espandere la domanda interna anche con un disavanzo di parte corrente costante nell’ultimo periodo dell’ordine del 5%: la ragione sta nel fatto, già rilevato, che il mondo ha vissuto in un regime di dollar standard.

In secondo luogo, il forte indebitamento delle famiglie ha consentito di più che compensare gli effetti depressivi della progressiva diminuzione della quota di reddito destinata ai redditi medio bassi. Si deve qui osservare che l’esplosione dei costi di servizi sociali essenziali ha finito per coinvolgere anche le classi medie.

Ovviamente, l’assenza di controlli sugli intermediari ha consentito modalità di finanziamento molto permissive.

L’irresponsabilità complessiva delle politiche americane, derivata anche da una teoria economica irrealistica e ideologica al tempo stesso, ha prodotto la crisi attuale. Questa crisi, collocatasi dapprima sul versante finanziario, si è progressivamente estesa a quello reale, e per l’interdipendenza delle economie, a molti paesi.

 

NOTE
(1)Relazione tenuta al convegno Uno sguardo oltre la crisi promosso da NENS (Nuova economia nuova società), Roma 23 aprile 1909

 

BIBLIOGRAFIA
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