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La crisi capitalistica e le sue ricorrenze

Una lettura a partire da Marx

Riccardo Bellofiore

escher scaleIntroduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di metateoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.

In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto. Questo discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei processi immediati della valorizzazione degli anni SessantaSettanta. Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di individuare le novità più significative nella morfologia del sistema economico e sociale.

 

Le teorie marxiane della crisi

La teoria della crisi marxiana è da sempre un terreno accidentato e controverso. L'accumulazione la conversione del plusvalore in capitale costante e variabile aggiuntivo al fine di produrre plusvalore è un processo contraddittorio. Di tali contraddizioni le crisi sono l'espressione necessaria e, ad un tempo, la soluzione temporanea. La tendenza alla instabilità del capitalismo discende innanzi tutto dal fatto che il capitalismo è una economia di mercato e monetaria. Sul mercato, nella divisione sociale del lavoro, vige una anarchia che può condurre a una realizzazione incompleta del plusvalore prodotto in potenza nel processo immediato di valorizzazione. La presenza della moneta dissocia le vendite dai successivi acquisti, e il tesoreggiamento può interrompere la sequenza per cui l'offerta trova il proprio sbocco sul mercato quando i redditi pagati ai 'fattori' della produzione vengono spesi. Ciò non di meno, la maggior parte della indagine marxiana nei tre libri del Capitale è svolta sul presupposto che le merci siano vendute sul mercato al loro valore sociale o al loro prezzo di produzione (qualcosa di non troppo lontano dalla assunzione di Keynes secondo cui le aspettative di breve periodo delle imprese sono date per pienamente realizzate). Di più, sviluppando uno spunto prezioso di Quesnay poi dimenticato dalla economia politica classica, nel secondo libro Marx costruisce degli 'schemi di riproduzione', sia semplice che allargata ,dove si dimostra che un sentiero di crescita in equilibrio delle economie capitalistiche 'pure' è una 'possibilità'.

Marx divide il prodotto sociale in due settori, il primo che produce beni capitali e il secondo che produce beni di consumo (si potrebbe procedere ad uno schema a tre settori suddividendo questi ultimi in beni salario e beni di lusso). Il valore prodotto da entrambi i settori viene scomposto nelle somma delle sue tre parti componenti, capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Nella riproduzione 'semplice', del tutto astratta e irrealistica, i capitalisti consumano improduttivamente l'intero plusvalore, sicché il sistema si riproduce sulla medesima scala, senza crescita. Nella riproduzione 'allargata', invece, essi investono in parte o del tutto il plusvalore in nuovo capitale costante e variabile, il che consente l'accumulazione. L'acquisizione teorica significativa degli schemi è quella di far vedere molto nitidamente che ogni componente di valore della produzione, e quindi ogni componente dell'offerta, è anche una componente della domanda. E' per questo che vi è sempre l'eventualità che si dia un equilibrio se si rispettano alcuni rapporti intersettoriali.

Contro Malthus e Sismondi, Marx afferma quindi che il capitale può crescere nel tempo senza necessariamente incontrare una barriera nella domanda effettiva, perché quest'ultima in fondo è una domanda che sgorga dal proprio seno. Al tempo stesso, contro Ricardo e Say, Marx mostra che una accumulazione 'bilanciata' nel lungo periodo tutto è meno che garantita, visto che l'equilibrio impone che gli scambi abbiano luogo rispettando definite proporzioni, non soltanto in valore, ma anche in valore d'uso e in moneta. L'equilibrio è dunque sì una possibilità, ma anche un 'caso'. E' questo un punto che verrà ripreso molti decenni dopo nei modelli keynesiani di crescita di Harrod e Domar.

D'altra parte, la probabilità che l'equilibrio venga infranto a causa dell'assenza di un piano apre soltanto alla 'possibilità' della crisi, non dimostra affatto la sua 'necessità'. Marx è alla ricerca di una spiegazione della crisi che sgorghi dall'interno del capitale. In effetti, sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli investimenti, e questa deriva da una crisi della profittabilità. La questione, dunque, si trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto, e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro unitario e coerente. Di seguito considereremo ne alcune.

 

La crisi ciclica da esaurimento dell'esercito industriale di riserva

Una prima argomentazione è quella che viene descritta nella legge generale della accumulazione esposta alla fine del primo libro. Se si assume una composizione del capitale costante, una crescita sufficientemente rapida del valore investito finirà con il premere sull'offerta di forzalavoro, rendendo il c.d. mercato del lavoro più favorevole all'offerta. Crescono di conseguenza i salari, sino ad eccedere la crescita della forza produttiva del lavoro. Tutto il resto rimanendo eguale, cade il saggio di profitto, l'accumulazione rallenta, e con essa si riduce anche la domanda di forzalavoro. Una risposta a questa difficoltà sta evidentemente nella introduzione di metodi di produzione risparmiatori di lavoro: una risposta che finisce con l'incidere sulla distribuzione del nuovo valore prodotto. Per un dato capitale anticipato, la meccanizzazione riduce la quota del capitale variabile, e perciò della domanda di forzalavoro: i lavoratori vengono rimpiazzati da macchine, a parità di prodotto. In teoria, l'aumento del saggio di accumulazione può espandere o ridurre l'occupazione effettiva a seconda della forza relativa delle due spinte, quella derivante dall'incremento della dimensione del capitale e quella derivante dal mutamento della sua composizione.

Nel ciclo, il ritmo e la struttura dell'accumulazione del capitale, che è la variabile indipendente, variano continuamente al fine di riprodurre un 'esercito industriale di riserva' di lavoratori che possono essere in potenza immessi nel processo immediato di valorizzazione. Si esercita così una pressione al ribasso sul salario, che è la variabile dipendente. Una riduzione del salario reale darebbe vita ad un impoverimento 'assoluto': ed è questo, senz'altro, uno dei possibili esiti. Peraltro, la situazione 'normale' che ha in testa Marx è diversa. L'accumulazione capitalistica si accompagna essenzialmente ad una produzione di plusvalore relativo, fondata a sua volta su una dinamica positiva della forza produttiva del lavoro, il che è del tutto compatibile con una crescita del salario reale. In queste condizioni, infatti, un incremento del salario reale non è in contraddizione con l'espansione della quota del nuovo valore che va alla classe capitalistica: un aumento del consumo reale della classe dei lavoratori proveniente dal loro reddito può ben esprimersi in un valore della forza-lavoro declinante.

Abbiamo qui a che fare con quella che Rosa Luxemburg definì la legge della caduta tendenziale del salario relativo, connessa evidentemente con una contrazione del salario come quota del reddito: un impoverimento, appunto, 'relativo', niente affatto assoluto. E' vero però che si possono dare situazioni nelle quali le lotte salariali possono farsi relativamente indipendenti dal mercato del lavoro, infrangendo la tendenza alla compressione del salario relativo. In questo caso, il conflitto salariale si muta in antagonismo contro il modo di produzione presente, e può divenire una causa indipendente della crisi capitalistica.

La meccanizzazione della produzione non va però vista soltanto, e neanche prevalentemente, come una risposta alla compressione dei profitti dovuta allo svuotamento dell'esercito industriale di riserva, o al limite al salario che si fa variabile indipendente. Essa è invece, e in primo luogo, la materializzazione di una spinta autonoma del capitale a controllare i lavoratori nel luogo di produzione, in modo da garantirsi l'erogazione di lavoro vivo in eccesso al lavoro necessario. Si dà luogo così ad un aumento del saggio di plusvalore che è logicamente coevo all'espulsione di forzalavoro dal luogo centrale della valorizzazione. Come Marx chiarisce molto bene, l'estrazione di plusvalore relativo connessa al rivoluzionamento dei mezzi di produzione e alla introduzione delle macchine non si incarna peraltro esclusivamente in una spinta verso l'alto della 'forza produttiva' del lavoro. Essa si accompagna anche ad una più elevata intensità del lavoro nell'unità di tempo, e si tira spesso dietro una contemporanea estrazione di plusvalore assoluto, con il prolungamento massimo possibile del tempo di lavoro Ciò avviene perché i nuovi metodi vengono introdotti in una 'lotta di concorrenza che garantisce temporaneamente agli innovatori un plusvalore extra a danno degli altri produttori: questi ultimi devono dunque sfruttare di più la propria forzalavoro, ma gli stessi innovatori cercano a loro volta di realizzare il massimo vantaggio dai nuovi metodi che hanno introdotto. In forza di ciò, la meccanizzazione è una leva potente nella regolazione del valore di scambio e del valore d'uso della forzalavoro da parte del capitale ai fini della massima estrazione possibile di lavoro vivo.

E però qui si fa avanti un'altra difficoltà. Si è detto che una più elevata composizione tecnica del capitale in breve, del rapporto 'fisico' mezzi di produzionelavoratori, è un fattore che contribusice all'espulsione di lavoratori, e dunque di forzalavoro, dai processi di lavoro. Ma il lavoro vivo, che è la 'sorgente' del valore e del plusvalore, scaturisce proprio dall' 'uso' della forzalavoro, proviene dunque dagli esseri umani, in quanto lavoratori in carne ed ossa e cervello. Esso è 'attaccato' ed inseparabile dal loro corpo, che va a sua volta 'incorporato' al capitale: va reso in altri termini parte del corpo materiale di quest'ultimo, di quel mostro meccanico che è la 'fabbrica' capitalistica. La dilatazione del lavoro morto corrisponde ad una progressiva penuria del lavoro vivo nel lungo periodo, pur in un maggiore sfruttamento della forzalavoro. Quando la crescita della composizione 'tecnica' del capitale si traduce nell'aumento della composizione in 'valore' quando cioè, secondo le definizioni di Marx, un incremento della composizione 'organica' del capitale si concretizza davvero: il che corrisponde, secondo l'autore del Capitale, alla tendenza prevalente nella dinamica capitalistica si mette in moto una vera e propria tendenza alla caduta del saggio di profitto. La crisi è ora dovuta ad una composizione in valore che cresce più rapidamente del saggio di plusvalore.

 

La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto è stata interpretata da alcuni autori non soltanto come ragione della crisi ciclica del capitale, ma anche come causa di una caduta 'secolare ' della profittabilità, magari all'interno di una visione del capitalismo come caratterizzato da 'onde lunghe'. Una tesi del genere è controversa dal punto di vista testuale: ma difficilmente argomentazioni di tipo testuale sono dirimenti nel discorso marxiano sulla crisi, che è rimasto sempre ad uno stadio incompiuto, soggetto a tensioni anche contraddittorie, nel tempo ma persino all'interno dello stesso manoscritto Conta di più il fatto che una lettura di lungo periodo della caduta tendenziale del saggio di profitto non pare essere del tutto priva di fondamento.

Il perché è presto detto. L'applicazione di dosi maggiori di capitale costante, ancor più quando quest'ultimo sia costituito da capitale fisso, è per Marx un mezzo particolarmente efficace per accelerare l'estrazione di pluslavoro e plusvalore nell'unità di tempo. D'altra parte è vero che in alcune parti dell'opera di Marx il conseguente incremento del saggio di plusvalore non è in grado di compensare, nel lungo periodo l'effetto depressivo della composizione del capitale sul saggio del profitto, e viene dunque degradato a mera 'controtendenza'. A questo proposito, l'argomento più forte a favore di una conclusione del genere è la tesi che vi sarebbe un limite assoluto al pluslavoro che può essere attivato da una popolazione lavorativa data.

Per comprendere di cosa si tratta, è bene guardare alla composizione del capitale come un indice del rapporto tra, da un lato, il lavoro morto contenuto nei mezzi di produzione e, dall'altro lato, il lavoro vivo speso nel periodo. Questo rapporto viene approssimato dal rapporto tra capitale costante al numeratore e la somma di capitale variabile e plusvalore al denominatore. Se si fa l'assunzione eroica che il capitale variabile tenda ad annullarsi, e che dunque l'intera giornata lavorativa si traduca in pluslavoro che si oggettiva in plusvalore, la composizione 'in valore' del capitale può essere vista come il reciproco del saggio massimo di profitto. Marx potrebbe essere letto come colui che suggerisce in sostanza che il numeratore del saggio massimo di profitto avrebbe una sorta di limite insuperabile e naturale, una sorta di tetto dei movimenti del saggio effettivo del profitto. Il denominatore, al contrario, può espandersi illimitatamente.

Marx propone un fondamento microeconomico (nel comportamento individuale) a questo risultato macroeconomico (di sistema), che altrimente parrebbe contraddittorio. Vi abbiamo già alluso. I capitalisti individuali introducono, o sono comunque costretti ad introdurre, metodi a più elevata 'intensità di capitale', al fine di abbassare i costi per unità di prodotto: guadagnano così grazie a queste innovazioni un sovraplusvalore (e un sovraprofitto), ed evitano a loro volta di essere espulsi dal mercato dai competitori. Si tratta di una concezione 'dinamica' della concorrenza, che tende a differenziare il saggio del profitto all'interno del settore, e che verrà ripresa da Joseph Schumpeter: una visione della concorrenza, si può aggiungere, che rompe alla radice con la visione della concorrenza classicoricardiana e neoclassicawalrasiana. E' una impostazione che, oltre ad un riferimento forte alle classi sociali, mette moneta e squilibrio nelle fondamenta su cui si costruisce il discorso economico.

Si deve però osservare che non è possibile dedurre da tutto ciò una 'legge' della caduta del saggio del profitto, secondo la quale le controtendenze verrebbero sistematicamente battute dalla tendenza, come talora pare pensare Marx. Una accelerazione della forza produttiva del lavoro in forza della meccanizzazione spinge infatti alla riduzione dei valori (e dei prezzi) di tutte le merci, e dunque anche degli elementi del capitale costante, dei mezzi di produzione. Non è possibile perciò escludere a priori che la svalorizzazione degli elementi del capitale costante sia così accentuata da aumentare lo stesso saggio massimo del profitto, rimuovendo la presunta barriera posta da Marx. Se invece si guarda al saggio effettivo del profitto, esso dipende positivamente dal saggio di plusvalore e negativamente dalla composizione in valore del capitale. La svalorizzazione degli elementi del capitale variabile contribuisce evidentemente all'aumento del saggio di plusvalore, e la svalorizzazione degli elementi del capitale costante può invertire la tendenza all'aumento della composizione del capitale in valore. La critica alla caduta del saggio di profitto argomentata da Marx può essere in questo caso riformulata sostenendo che non vi è alcuna ragione per negare che l'aumento del saggio di plusvalore può più che controbilanciare il (possibile, non necessario) aumento della composizione in valore del capitale.

Peraltro, va anche considerato che Marx non formula la legge con riferimento alla composizione 'in valore' del capitale (la grandezza rilevante per la valorizzazione del capitale), ma con riferimento a quella che definisce la composizione 'organica' del capitale. La composizione in valore riflette pienamente la rivoluzione di valore che continuamente sconvolge l'espressione di valore degli elementi del capitale costante e variabile in forza della meccanizzazione. La composizione organica misura invece quegli input ai loro valori (o prezzi) precedenti l'innovazione. Registra dunque in modo pieno l'incremento della composizione 'tecnica' del capitale, del rapporto tra mezzi di produzione (e per Marx, in primis, il capitale fisso) e il lavoro, nel mondo del valore, neutralizzando la controtendenza della svalorizzazione tanto del costante costante quanto del capitale variabile. Vista l'importanza sempre più estesa del capitale fisso nell'accumulazione, lo scarto tra le due stime della composizioni del capitale segnala anche un divario crescente tra il saggio del profitto in termini di flusso e il saggio del profitto in termini di fondi, un divario che può accrescersi nel tempo e che impone prima o poi un drammatico e improvviso riaggiustamento attraverso la crisi periodica.

 

La crisi da realizzazione

E' di un certo interesse rilevare che più si accresce il saggio del plusvalore, e dunque più si rafforza per questa via una forza che reprime la tendenza alla crisi del saggio di profitto e la trasforma anzi nel suo contrario, più il sistema potrebbe scivolare in un terzo tipo di crisi: la crisi da realizzazione. Alcuni marxisti hanno in effetti sostenuto che, se il saggio del profitto cade, il responsabile primo è la domanda di merci, effettiva o anche solo attesa, in quanto si riveli insufficiente a garantire a livello di sistema uno sbocco finale in forza del quale le merci possano essere vendute a prezzi tali da coprire i costi e il saggio normale del profitto.

Sul terreno della crisi da realizzo, due posizioni si sono contese il campo. Un approccio (p.es., Hilferding) ha sottolineato le 'sproporzioni', cioè gli squilibri settoriali tra offerta e domanda, appellandosi alla natura anarchica e caotica delle economie di mercato. Se un eccesso di offerta si verifica in importanti rami di produzione, può aver luogo un diffondersi di questo tipo di squilibrio ad altri settori, che infine degenererà in un blocco dello smercio a livello globale. Questo tipo di difficoltà dipende dalla velocità con cui il sistema dei prezzi e delle quantità reagisce allo squilibrio, e (come sosteneva appunto l'ultimo Hilferding) può tendere a scomparire in forme più 'organizzate' del capitalismo. Alcuni dei suoi propositori (p. es., Tugan Baranovski) hanno finito addirittura con il sostenere che il sistema capitalistico, non essendo in fondo altro che una 'produzione per la produzione', non troverebbe un ostacolo autentico nel declino relativo della domanda di consumi, e potrebbe procedere in linea di principio secondo un sentiero stabile di crescita.

La linea alternativa (la cui fautrice principale è Rosa Luxemburg) viene spesso erroneamente qualificata come 'sottoconsumista'. Adottando la terminologia contemporanea, ed esponendo il nocciolo razionale di questa impostazione, quello che in realtà si sostiene è che l'investimento netto non può controbilanciare per sempre un consumo in riduzione, dal momento che la profittabilità dei nuovi macchinari nel lungo periodo dipende dalle vendite future, e queste ultime sarebbero sempre meno prevedibili quando decresce la quota dei consumi nel nuovo valore.

Si tratta di un argomento che ha una sua forza. Pure, esso sembra in contrasto con gli schemi di riproduzione, che mostrano come la domanda al capitale provenga dallo stesso capitale, direttamente o indirettamente. Non si può di qui concluderne per un necessario bilanciamento tra offerta e domanda aggregate, nello spirito della legge di Say. Gli stessi schemi mostrano infatti, e lo abbiamo ricordato, come le proporzioni di scambio intersettoriali di equilibrio, per la riproduzione semplice e ancor di più per la riproduzione allargata, siano casuali, precari e instabili. Ciò è in particolare vero per la riproduzione allargata, e per una ragione molto semplice. Una estrazione di plusvalore relativo che si approfondisce, con un sempre più elevato saggio di plusvalore, può temporaneamente sconfiggere la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma, facendo ciò, simultaneamente si rafforzano la tendenza alla caduta del salario relativo (un tema, di nuovo, caro alla Luxemburg), e si modificano i rapporti di scambio necessari allo stabilirsi e al riprodursi dell'equilibrio, sicchè la possibilità della crisi si tramuta sempre più in una sua probabilità.

Abbiamo qui a che fare, si badi, con l'opposto di una prospettiva 'circolazionista'. La tendenza alla sovrapproduzione di merci si innesta su delle sproporzioni che vengono attivate dalla dinamica dello sfruttamento nei processi immediati di valorizzazione.

Per alcuni dei suoi fautori, le crisi da realizzo per insufficienza sistemica di domanda effettiva si farebbero progressivamente sempre più severe, sino a condurre ad un crollo finale. E' questa in effetti l'opinione della stessa Luxemburg, che fa dipendere l'accumulazione del capitale dalle 'esportazioni nette' verso le aree noncapitalistiche. Quando la globalizzazione del capitale si compie e il mercato mondiale è interamente sussunto alla produzione per il (plus)valore, il meccanismo strettamente economico si inceppa. E' però vero che altri autori che perseguono un filo di ragionamento molto simile hanno obiettato che l'esaurimento dei mercati 'esterni' può venire sostituito dall'emergere di una sorta di esportazioni 'interne': così si esprime Michal Kalecki, con riferimento a disavanzi nel bilancio dello stato finanziati monetariamente. Qualcosa del genere, peraltro, era stato intuito dalla stessa Luxemburg nella sua analisi del militarismo come controtendenza all'esaurimento degli sbocchi nel corso del processo accumulativo.

Un ruolo simile, secondo altri autori, lo potrebbe svolgere il consumo improduttivo di parte del plusvalore da parte di terze persone (l'estensione di aree di "rendita", o lo stesso spreco tipico del capitalismo monopolistico). Alcuni autori oggi innestano la espansione del lavoro improduttivo dentro il discorso sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. Per chi considera il ruolo del consumo improduttivo dentro la crisi da realizzo, si tratta di deduzioni dal plusvalore che riducono il tasso di accumulazione potenziale, ma che possono garantire un più tranquillo decorso della riproduzione, senza scivolare nell'instabilità, se non addirittura nella recessione e deflazione. In ogni caso, per essere compatibili con il proseguire indisturbato della spirale della valorizzazione capitalistica, tutte queste soluzioni richiedono che continui e anzi si approfondisca lo sfruttamento e la pressione sul lavoro vivo dei lavoratori produttivi di valore. Il che conferma che la variabile centrale del discorso marxiano è il saggio del plusvalore. Sono i cambiamenti e gli antagonismi all'interno dei processi di lavoro la "lotta di classe nella produzione", dai due versanti a essere la determinante cruciale della dinamica capitalistica. A ben vedere, l'unico limite ultimo all'espansione del capitale alla sua pretesa di porsi come totalità in grado di porre continuamente i propri presupposti è l'opposizione della classe dei lavoratori dentro i processi di valorizzazione.

 

Verso una lettura unitaria e diacronica della teoria marxiana della crisi

E' possibile forse, oggi, proporre una visione unitaria delle teorie delle crisi, all'interno di un intento non puramente filologico e marxologico, ma ricostruttivo. Si tratta di leggere la caduta tendenziale del saggio di profitto come una sorta di metateoria delle crisi, che include al suo interno non soltanto l'integrazione tra il c.d. sottoconsumo e le c.d. sproporzioni lungo le linee che si sono già illustrate, ma anche una crisi che origina direttamente dal rapporto sociale di produzione dentro il processo immediato di valorizzazione; e di qui muovere poi ad una analisi delle novità della dinamica capitalistica di fine Novecento, e alla nuova forma della crisi che stiamo sperimentando. Si vedrà come questa linea interpretativa si prolunghi in una ricostruzione della evoluzione del capitale per onde lunghe, che segue i movimenti 'secolari' delle forme della accumulazione e dell'antagonismo.

Partiamo dalla caduta tendenziale del saggio di profitto intesa come lo sfondo su cui inquadrare l'intero insieme delle crisi capitalistiche nelle loro diverse modalità. Il discorso critico che abbiamo svolto, se nega una caduta 'meccanica' e necessaria del saggio di profitto, non nega affatto che sia possibile che la crescita del saggio del plusvalore sia di fatto inferiore alla crescita della composizione in valore del capitale. In quel caso si avrà effettivamente una caduta del saggio di profitto. E' qualcosa che secondo molti interpreti pare essersi dato storicamente, nella Grande Depressione di fine Ottocento. Il capitalismo reagì, secondo quella che è poi diventata una vulgata, un po' troppo facile con il taylorismo prolungatosi nel fordismo.

Nella forma in cui questa lettura si è poi affermata quella di una sequenza storica precisa; e di una continuità non problematica tra organizzazione scientifica del lavoro, prima, e catena di montaggio dopo vi è una discutibile semplificazione, un appiattimento di un processo ben più articolato. Il taylorismo fu solo una tra molte innovazioni organizzative negli Stati Uniti nei decenni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale. In quanto incremento della intensità del lavoro su base tecnica data, esso, nella sua forma pura, fece fallimento, e venne implementato con efficacia solo quando la guerra consentì una sorta di 'solidarietà nazionale' repressiva. Fu semmai il fordismo a risultare vincente, incorporando molte delle innovazioni e dei principi organizzativi dei decenni precedenti, compresi certamente significativi aspetti del taylorismo. Vinse però proprio perché ritmi e modi del lavoro parevano, ed in parte effettivamente erano, dettati da una diversa base tecnica, sconvolta in profondità dall'innovazione. Lo stesso fordismo ben presto si trasformò in sloanismo, coniugando già allora le economie della produzione massificata con la necessità di differenziare il prodotto, anticipando molti di quegli aspetti che vengono oggi erroneamente ritenuti una novità assoluta portata dal c.d. postfordismo.

Quello che qui più mi interessa sottolineare è che all'inizio del Novecento la composizione di classe dell'operaio di mestiere viene attaccata e destrutturata mediante l'introduzione della catena di montaggio e di nuove modalità di organizzazione del lavoro. Si riesce in questo modo a spingere verso l'alto il saggio del plusvalore, per il tramite dell'aumento della forza produttiva del lavoro ma anche di una superiore intensità del lavoro; mentre la caccia all'extraplusvalore si porta dietro una contemporanea estrazione di plusvalore assoluto. Si controbatte così l'effetto depressivo sul saggio del profitto della più elevata composizione in valore del capitale. In questo modo, però, se il capitale sfugge alla crisi da caduta tendenziale del saggio del profitto, vede materializzarsi al suo posto la crisi da realizzazione. Si è visto infatti che l'estrazione accelerata del plusvalore relativo significa sia riduzione della quota dei consumi dei lavoratori sia cambiamento continuo dei rapporti di scambio equilibrio intersettoriali. Ciò rende sempre più probabili quelle sproporzioni che a un certo punto raggiungeranno una massa critica, e daranno quindi luogo ad una caduta della produzione e dell’occupazione nei settori con eccesso di offerta, che poi si generalizza all'intero sistema.

La sovrapproduzione di merci può essere allontanata nel tempo dal credito e dalla finanza, che stimolano tanto l'investimento che il consumo. In una prima fase, il capitale produttivo di interesse e il capitale fittizio accelerano la riproduzione capitalistica. Liberano infatti l’accumulazione dalla sanzione immediata della validazione del valore prodotto sul mercato finale delle merci. Possono inoltre stimolare bolle speculative che si autoalimentano e producono effetti reali di sprone all'economia reale. Ma prima o poi l'insufficienza di domanda effettiva che si diffonde in tutto il sistema si fa valere. L'investimento non è più in grado di compensare lo scarto tra produzione e domanda: anche se, si deve aggiungere, la crisi si annuncia in prima battuta come crisi finanziaria, e solo in una seconda fase si manifesta come crisi reale. E' quanto avviene con la Grande Crisi degli anni Trenta del Novecento. La crisi da realizzo va cioè analizzata non soltanto connettendo strettamente sproporzioni e caduta del salario relativo, ma anche dentro una visione da subito monetaria e finanziaria del processo capitalistico.

Vale qui la pena di accennare soltanto al fatto che una analisi di questo genere equivale in realtà a sostenere che tra fine Ottocento e metà Novecento la teoria marxiana deve confrontarsi non solo con una metamorfosi del capitalismo ma anche della riflessione economica. L' 'economia politica' di cui occorre fare la 'critica' non è più a questo punto da rinvenirsi principalmente in Ricardo, quanto piuttosto nell'eterodossia monetaria di Schumpeter e di Keynes.

 

La crisi sociale nella valorizzazione

Dalla Grande Crisi se ne uscì non tanto con il New Deal che non fu affatto, come recita un'altra vulgata, 'keynesiano' ma con una nuova ancora più devastante grande guerra, il secondo conflitto mondiale. Vi fece seguito, nel mondo diviso in due dalla 'cortina di ferro', la gestione apertamente politica della domanda effettiva. Si trattò di un 'keynesismo' alquanto bastardo, caratterizzato dal traino di una forte componente di spesa militare, e per il resto da un sostegno generico alla domanda aggregata. Esso dette luogo, nel tempo, ad aumenti salariali, al consumo dal reddito come elemento di amplificazione della spesa autonoma (per l'effetto del c.d. moltiplicatore), e ad una sostanziale espansione del welfare, in un contesto che fu definito di 'pieno impiego'. Una situazione dunque eccezionale nella storia del capitalismo, caratterizzata da lavoro 'stabile' e, si disse, da 'alti salari', tanto che talora viene definita l' 'età d'oro'. Si deve però ricordare che la piena occupazione seguiva alle conseguenze devastanti della disoccupazione di massa tra le due guerre, e che essa va collocata nel contesto della competizione del capitalismo con un sistema che si diceva alternativo e socialista: l'una e l'altra circostanza fecero del pieno impiego un obiettivo tanto dei governi moderati quanto di quelli progressisti. E si deve ancora sottolineare con forza che salario e welfare crebbero i modo sostanziale solo a partire dagli anni Sessanta, sulla spinta di un conflitto sociale sempre più acceso, in quello che fu la fase finale di quella 'parentesi'. L'era c.d. fordistakeynesiana i 'trent'anni gloriosi' di cui parla Jean Fourastié potè in ogni caso essere capitalisticamente sostenibile soltanto per la crescente pressione sui lavoratori 'produttivi', e la conseguente, continua spinta verso l'alto del saggio di plusvalore.

La crisi di questa forma del capitalismo, che matura dalla seconda metà degli anni Sessanta ed esplode nel corso degli anni Settanta, ebbe molte cause, tra cui il riemergere del conflitto interimperialistico, la guerra del Vietnam, l'aumento del prezzo delle materie prime (e in particolare del petrolio), ed altro ancora. Al suo centro vi fu però, a mio parere, innanzi tutto una ragione 'sociale', irriducibile tanto alla caduta del saggio del profitto in senso stretto quanto alla crisi da realizzo. Si trattò della presenza di un antagonismo sull'estrazione del plusvalore che originava direttamente sul terreno del rapporto capitalelavoro nella produzione, e che fu in grado di dar luogo alla compressione del salario relativo almeno per qualche anno. Ciò avveniva non esclusivamente, e nemmeno prevalentemente, nel senso caro al filone neoricardiano o a buona parte del primo operaismo: due correnti che sostenevano allora, l'uno e l'altro, come le lotte operaie avessero fatto del valore della forzalavoro una variabile 'indipendente'. Il punto cruciale fu semmai il controllo che i lavoratori riuscirono a conquistare sulla prestazione di lavoro ovvero, marxianamente, sull'erogazione del 'lavoro vivo'.

Si tratta di una realtà che può essere compresa appieno solo se si guarda alla teoria marxiana del valore da un 'punto di vista' ben diverso da quello consueto, e si è dunque in grado di intendere in che senso la teoria del valore è la teoria della crisi. Ma si tratta anche, corrispettivamente, di una realtà che ha aiutato a comprendere meglio il senso più profondo della 'critica dell'economia politica'. E' a questo tema che, prima di procedere oltre con un discorso sulla crisi attuale, dobbiamo volgerci.

 

Una nuova lettura del lavoro astratto e della teoria marxiana del valore

Il lavoro astratto attività non immediatamente sociale, lavoro immediatamente privato che diviene sociale nello scambio contro il denaro, ovvero contro quello che è il prodotto dell'unico lavoro immediatamente sociale ha come suo risultato il valore. Il valore, a sua volta, è nient'altro che un cristallo di lavoro oggettivato contenuto nella merce, che deve autonomizzarsi ed assumere necessariamente forma monetaria. 'Sostanza' e 'forma' del valore sono di conseguenza inseparabili. Il valore si costituisce all'incrocio tra produzione e circolazione (finale) delle merci: meglio, si costituisce nel movimento che va dalla produzione immediata allo scambio universale e monetario, dove l'astrazione del lavoro, latente già nei processi capitalistici di lavoro, si perfeziona. Sbaglia chi appiattisce valore (e lavoro astratto) sulla sola produzione, come sbaglia chi lo confina alla sola circolazione; e sbaglia ancora chi non vede in quell'incrocio il movimento che va dall' 'interno' verso l' 'esterno'; e sbaglia infine chi separa 'analisi reale' e 'analisi monetaria'. Quelle categorie hanno una essenziale dimensione processuale, dentro una analisi della totalità capitalistica che è però 'centrata' sul momento della produzione.

Entrando, come è a questo punto inevitabile, nel 'laboratorio segreto' della produzione, si vede quanto nella circolazione non soltanto è distorto e dissimulato (è questo ciò che Marx definisce il 'feticismo' che fa scambiare per naturale ciò che è invece specificamente sociale) ma è anche nascosto e opacizzato in un reificato che fa svanire del tutto le tracce del processo di reificazione (è questo ciò che Marx definisce il 'carattere di feticcio' per cui il processo di oggettivazione si fa cosale ed estraneo nel risultato oggettivato). Si può a questo punto accedere a quel processo di 'costituzione' dell'oggettualità astratta ed alienata del capitale in forza del quale quest'ultimo ha la sua origine nel 'lavoro': categoria articolata quant'altre mai. Più precisamente, l'indagine della produzione mostra che il 'lavoro vivo', la sorgente del valore, è estratto dalla 'forzalavoro' di lavoratori salariati, sullo sfondo di una sempre possibile conflittualità, che assume talora il carattere dell'antagonismo. Quella forzalavoro deve essere acquistata da denaro sul mercato del lavoro, e gli esseri umani che ne sono ineluttabilmente i portatori viventi devono essere portati dentro i processi capitalistici di lavoro, dentro il corpo della fabbrica capitalistica: quel mostro meccanico che, scrive Marx, solo dopo avere incluso questa alterità può iniziare a lavorare “come se avesse amore in corpo”.

La generazione del valore non si limita a dover trovare una validazione finale nella vendita delle merci contro il denaro quale equivalente generale; essa deve anche partire da una antevalidazione monetaria nel denaro quale finanziamento alla produzione (riducibile, in una analisi macrosociale, al montesalari che acquista la capacità di lavoro dei lavoratori salariati). E' evidentemente in questa natura 'circolare' del ciclo del capitale che si radica in ultima istanza la valorizzazione come produzione di (plus)denaro a mezzo di denaro; come è anche qui che trova la sua lontana origine la stessa possibilità di una 'finanziarizzazione' dell'economia.

Se lo sguardo non coglie il processo di costituzione del 'feticcio' capitale, quest'ultimo – che è valore, denaro, che figlia plusvalore, e dunque plusdenaro si presenta come una totalità chiusa in se stessa, che pone ‘automaticamente’ i propri presupposti, in un movimento a spirale, ciclo dopo ciclo. E’ qui che Marx può sembrare nient’altro che l’applicazione del circolo, epistemologico ed ontologico, hegeliano alla realtà capitalistica. Ma dove è massima la tangenza con il filosofo di Stoccarda, maggiore è anche la divaricazione. Il valore e il denaro non si accrescono per partenogenesi ideale, ma solo perché, in quanto lavoro morto, riescono a includere ‘materialmente’ dentro di sé, e a comandare dentro una particolare forma della messa al lavoro degli esseri umani, quella alterità radicale al lavoro morto e al denaro che è la forzalavoro, ‘appicicata’ ai lavoratori in carne ed ossa. Questi ultimi sono dunque nient'altro che 'forzalavoro vivente': acquistati dal montesalari, divengono una parte (variabile) del capitale. Messa in movimento, come lavoro vivo, la capacità di lavoro non solo riproduce il valore passato ma origina il neovalore, e dunque quel plusvalore che ne è parte, e che investito dà origine a tutto il capitale. E' in questo senso che il 'lavoro' è sia la 'parte' che il 'tutto' del capitale.

Sta qui il vero 'scandalo' del capitale quello scandalo che sfugge totalmente a chi ragiona in termini di 'diritto', 'etica' o 'giustizia'; e che sfugge anche alla Caritas in veritate di Benedetto XVI. La merce non è solo inseparabile dal denaro, e quest'ultimo dal capitale. Vi è di più: il capitale è fondato proprio su quello 'spostamento' inversione e follia, insieme per cui il lavoratore vivente è realmente diventato appendice della propria forzalavoro, e conta ormai solo come prestatore di lavoro vivo.

Se le cose stanno così, la totalità del capitale esiste nella misura in cui si costituisce uno specifico rapporto sociale di produzione, che non può essere dato per riprodotto meccanicamente dalla totalità stessa ma che anzi la ‘apre’, e in una certa misura la ‘infrange’. La valorizzazione viene spiegata da Marx ‘rompendo’ la chiusura della totalità capitalistica, rivelando l’impossibilità della pretesa che ha il capitale di porsi come Soggetto autosufficiente. Lo si capisce bene se si tiene a mente la metafora insistita, da prendere tremendamente sul serio, del capitale come ‘vampiro’. Dal punto di vista del capitale, non vi è ricchezza se non si fa ‘lavorare’ la forzalavoro, unico fattore a sé esterno oltre la natura. Per mettere al lavoro i lavoratori occorre fornirgli i mezzi di produzione. Vi è, d’altra parte, una differenza sostanziale tra forzalavoro e mezzi di produzione. Le tecniche fissano i metodi di produzione, e dunque la forza produttiva del lavoro per ora lavorata. Il salario reale per la classe operaia viene fissato dal conflitto, ed è traducibile nel lavoro necessario a produrre i beni che lo compongono. Non è però determinato dalla tecnica il quanto di lavoro che si estrae, in quanto quest'ultimo dipende dai rapporti sociali: perciò anche dalla tecnologia e dall’organizzazione del lavoro che il capitale disegna a sua immagine e somiglianza, secondo una volontà ed una conoscenza estranee ai lavoratori.

Solo grazie alla propria natura di vampiro il capitale trasforma la 'crisalide' l’incarnazione del 'fantasma' del valore nel corpo del denaro – in 'farfalla': valore che figlia più valore; lavoro morto che torna alla vita, e ammassa sempre più lavoro morto, denaro che produce più denaro. Il punto da intendere bene è però che dire vampiro significa dire non soltanto inclusione nel capitale del lavoro ma anche dipendenza del capitale dal lavoro. Che tipo di dipendenza? Il capitale ha bisogno, dentro la produzione immediata, del ‘fluido’ vivificante del lavoro come attività: movimento che toglie il valore/denaro dalla sua fissità, e dà vita appunto mostruosa al capitale. Per ottenere lavoro nella produzione il capitale deve prima, sul mercato del lavoro, acquistare la capacità lavorativa. Ma, lo abbiamo già ricordato, il capitale non può davvero ‘staccare’ né la forzalavoro né il lavoro vivo dai lavoratori. Il capitale esiste in forza di quello che i filosofi chiamano una ‘ipostasi reale’, una sostantificazione dell’astratto e una inversione di soggetto e predicato. La forzalavoro, inglobata come parte nel capitale, e il lavoro vivo, come attività che produce tutto il capitale, sono a questo punto il soggetto, di cui i lavoratori sono davvero nient’altro che il predicato, una appendice. Il capitale ha acquistato la forzalavoro dai lavoratori, ha perciò il pieno diritto di usarla, come Marx non si stanca di ripetere. D’altronde, in un senso del tutto trasparente, la forzalavoro e il suo uso sono, al tempo stesso, dei lavoratori, come Marx altrettanto insistentemente lascia intuire.

Non è affatto scontato che il lavoro ottenuto nella produzione corrisponda a quello atteso dal capitale nel mercato del lavoro. Il capitale deve vincere la 'lotta di classe nella produzione'. Tenere a bada un possibile antagonismo; conquistare l’egemonia, la cooperazione, il consenso. Lo fa controllando i lavoratori, e pervertendo la natura stessa del lavoro. Impossibile, in questo modo di vedere le cose, separare estrazione di plusvalore assoluto e relativo, non vedere la simultaneità dei tempi dello sfruttamento. A partire dal lavoro vivo come sorgente del neovalore, una lettura del genere radicalizza lo scandalo della ‘ipostasi reale' nella sussunzione del lavoro al capitale, che da formale si fa reale, quando la prestazione lavorativa non solo 'conta' ma 'è' ormai propriamente 'senza qualità'. Priva non di di qualità tout court, ma di qualità proprie: nel senso, più precisamente, che le proprietà concrete gli vengono dal capitale. E' questo punto di vista sulla teoria del valore e sul lavoro astratto che ci ha consentito di formulare un approccio alla crisi 'sistemica' fuori da un’ottica crollista, puramente oggettivista. Ed è questo punto di vista che ci ha consentito di andare oltre la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi da realizzo nel disegnare i contorni generalissimi di quella vera e propria 'crisi sociale' che segnò il termine della 'età d'oro' (ma in realtà di ferro) del trentennio postbellico.

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