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Capitalismo 2009: la via verso il crollo

Antonio Carlo

tela di penelope1) 2009 l’anno orribile dell’economia mondiale; 2) L’inutile balletto dei G. I problemi insolubili del capitalismo; 3) La politica economica di Obama. Attivismo ed impotenza; 4) La risposta europea, ovvero l’Europa che non c’è; 5) La risposta italiana: galleggiare sulla crisi in attesa del miracolo-ripresa; 6) Cina e India: la fine del miracolo straccione. Giappone: l’impossibile “exit strategy”; 7) Prospettiva 2010: una ripresa inconsistente (o inesistente?); 8) La politica estera americana: di disastro in disastro; 9) Crisi economica insolubile e crescenti tensioni sociali. Verso la tempesta perfetta.

 

1) 2009 l’anno orribile dell’economia mondiale.

Il 2009, anno orribile del capitalismo mondiale, si apre con una notizia emblematica: nel primo trimestre dell’anno le 390 più grandi IM al mondo vedono calare i profitti del 75% e il fatturato del 26% su base annua1. L’OCSE e l’ONU ci fanno sapere che avremo nel corso dell’anno 40 milioni di nuovi disoccupati, prodotti dalla crisi a livello mondiale2, mentre l’esercito dei lavoratori che vivono già nel 2005 con uno-due dollari al giorno e che sono il 49,7% della forza lavoro mondiale3, crescerà di altri 200 milioni4.

L’OCSE altresì evidenzia come 1,8 miliardi di lavoratori (il 60% della forza lavoro mondiale) vive in condizioni subumane (lavoro nero)5, ed inoltre anche nei paesi ricchi i poveri cresceranno notevolmente6. È chiaro che, in simile contesto, salari e consumi non possono che calare (una forza lavoro “esuberante”, e sottoutilizzata è debole contrattualmente), sicché l’osservatorio europeo sui mercati di energia rileva che i consumi di elettricità caleranno del 3,5% e quelli del gas del 3%, mentre il commercio mondiale calerà del 13,5% per avere un rimbalzino del 7,4% nel 2010. All’inizio dell’anno in USA 32,2 milioni di persone fanno la spesa con i buoni governativi7,a fine anno siamo a 36 milioni che comprendono il 25% dei bambini americani8.Se poi si prendono in esame i consumi più indicativi (case e auto) si scopre che in USA 12 milioni di persone vivono in coabitazione e le richieste in tal senso crescono, mentre 14 milioni di abitazioni sono vuote9. Ciò che in URSS era prodotto dallo Stato (la coabitazione forzosa) qui è prodotto dal mercato e dalla povertà nel paese più ricco al mondo. Durante l’anno, su base mensile, si ha qualche timido ed asfittico rimbalzino del mercato delle case ma le tendenze di medio periodo, o anche solo quelle annuali, sono chiarissime: nel 2006 si vendono 1,3 milioni di case, che diventano 495 mila nel 2008 e 294 mila a fine 200910; il 31% delle case vendute deriva da pignoramenti e a ottobre 2009 cresce, per l’undicesimo mese consecutivo, il tasso di insolvenza dei mutui11. Ancora a fine anno crolla del 16% il livello dei compromessi per l’acquisto di nuove case12 e questo malgrado che la crisi abbia drasticamente abbassato i loro prezzi13. Quanto all’auto essa ha goduto di diversi sostegni ad opera di vari governi, ma la più grande fabbrica russa licenzia, a metà anno, 27 mila dipendenti14, la FIAT nel terzo trimestre del 2009 accusa, su base annua, un calo del 15,9% del proprio fatturato, e lo stesso avviene per il gruppo PSA francese, sia pure in maniera più contenuta15.

In USA Chrysler e GM sono decotte e l’industria dell’auto lavora al 51,2% delle proprie capacità produttive contro il 54,5% del 200816, siamo cioè a livelli sottomarini (malgrado aiuti e stampelle varie), ma è tutta l’industria che in USA, come negli altri paesi avanzati, lavora con una capacità utilizzata attorno al 70%17 e cioè decisamente bassa18.

Le banche sono in ginocchio: le perdite ufficiali sono di 1717,4 miliardi di dollari (1167,5 America, 567,1 Europa, 48,2 Asia), cui corrispondono 343623 posti di lavoro distrutti (183668 America, 154485 Europa, 5470 Asia), tuttavia il FMI ammonisce che la metà delle perdite bancarie sono occultate con giochi di bilancio19, il che significa che le cifre prima indicate vanno raddoppiate, sfiorando i 3500 miliardi di dollari.

Non meno mostruosa è la crescita dell’indebitamento pubblico: durante l’anno si accavallano cifre l’una più disastrosa dell’altra20, ma a fine anno si tirano le somme: nel 2010 gli USA saranno al 97,5% (rapporto debito federale-PIL), il Giappone al 199,8% (ma nei prossimi anni si prevede un picco del 238%), il Brasile sarà al 65,4%, il Regno Unito all’89,3%21, ancora le stime della commissione europea danno l’Italia nel 2010 al 116,7%, contro l’82,5% della Francia, il 76,7% della Germania, il 63,3% della Spagna. Il FMI ci permette di fare il punto sulla situazione globale dei paesi del G 20 e fornisce queste cifre: 2007, 62,4%; 2009, 76,1%; 2010, 82,1%; 2014, 86,6%; per i paesi sviluppati del G20 il trend è ancora più impressionante: 2009, 100,6%; 2010, 109,7%; 2014, 119,7%22, per quella data la situazione italiana non sarà l’eccezione ma la regola tra i grandi della terra.

Ma qual è il volume dell’indebitamento totale (Stato, PA, famiglie, imprese, debito estero) che grava sull’economia globale? La valutazione più modesta che io conosca (in alcuni punti chiaramente errata per difetto) è quella di Marco Panara, che parla di 80-90 mila miliardi di dollari di indebitamento mondiale, che egli definisce uno “tsunami” che si sta abbattendo sull’economia mondiale23. Ora a parte la evidente sottostima del debito USA (33 mila miliardi contro i 50 mila e più di fine 2008 e i 57 mila del 2009)24 è chiaro comunque che anche per questa stima, relativamente modesta, ci troviamo in presenza di un problema enorme; il guaio però è che Panara è incredibilmente ottimista (sic) in quanto i suoi calcoli escludono un enorme volume di titoli di credito sviluppatosi dopo il 2000, i c.d. titoli derivati25, che nessuno sa con precisione quanti siano: le valutazioni si susseguono nevroticamente nel 2009 ed è un crescendo rossiniano. Uno dei più noti economisti francesi, Attali, arriva a proporre una cifra, comprensiva dei derivati, pari a 250 trilioni di dollari26 quasi 4 volte il PIL mondiale; la nostra Confindustria produce uno studio che sposta l’indebitamento globale a 531 trilioni di dollari27, il prof. Gallino parla, solo per i derivati, di 700 trilioni di dollari28; ad un convengo tenuto a Torino nel marzo del 2009, uno dei convegnisti esibì una valutazione della BRI, sui derivati in circolazione, di un quadrilione di dollari e cioè di un milione di miliardi di dollari, cifra che si fa fatica a scrivere e anche solo a pronunciare. Tali cifre rendono superata anche una valutazione da me riportata nel mio precedente articolo sulla crisi, di 60 mila miliardi di dollari di derivati, relativa però al 2007 e alla sola economia USA29, che oggi è tra 1/5 e 1/4 dell’economia mondiale30.

La confusione è grande ma con un punto in comune: le cifre in materia sono enormi e da capogiro, si tratta di capire se siamo in presenza di uno, due o tre capogiri, ferma rimanendo la considerazione che, per cadere nel baratro e sfracellarsi, un capogiro è più che sufficiente. Ciò premesso sembra a me che le cifre più catastrofiche (ad es. quella di Gallino) siano vicine alla realtà: nel 2008 l’AIG americana viene dichiarata decotta sotto il peso di 60.000 miliardi di dollari di derivati31, cui segue un’altra grande istituzione finanziaria che cade sotto il peso di 13400 miliardi di derivati32, due sole istituzioni americane accusano un peso pari ad oltre 5 volte il PIL USA; ma non basta: il 12/10/08 c’è nervosismo alla borsa di New York, sono in scadenza 450 miliardi di titoli derivati33; 400 miliardi in un solo giorno sui 250 giorni di borsa attiva, ad una media di appena 300 miliardi di dollari sono 75 mila miliardi in un anno, in una sola grande borsa americana e ve ne sono altre, in un paese che è meno di 1/4 dell’economia mondiale, quanti ne scadranno in tutte le borse del mondo? Ed ancora, i titoli che scadono sono solo una frazione relativamente modesta di tutti i titoli in circolazione. Ciò premesso le cifre più folli diventano realistiche, e però anche accettando la valutazione globale più modesta, quella di Attali, siamo a 4 volte il PIL mondiale, la conclusione è ovvia, l’economia mondiale è stracotta. Appare evidente, inoltre, alla luce di queste cifre, come sia ottimistica la valutazione del FMI su un volume di 4000 miliardi di titoli tossici a livello mondiale34, poiché lo sbilancio tra volume globale del debito e volume del PIL ci fa supporre che la tossicità sia ben superiore, comunque il volume dei titoli poco garantiti e del debito pubblico fa sostenere a Draghi (in qualità di Presidente del FSB) che i prossimo 4-5 anni saranno caratterizzati da una forte instabilità dei mercati finanziari35. Al di là, però, delle opinioni anche autorevoli di Draghi, ci sono i dati prima illustrati ed alcuni eventi recenti: nel corso del 2009 prima la bancarotta delle finanze pubbliche in Ungheria, poi quella delle finanze greche ed infine il crack del fondo pubblico World Dubai, hanno mando in fibrillazione i mercati ed è appena il caso di notare che Ungheria e Grecia sono due paesi relativamente piccoli (per economia non certo per storia), mentre il crack del fondo Dubai si aggirava su 50-60 miliardi, il che vuol dire che basta poco a mettere in difficoltà un mercato che si regge sulle capocchie di spillo36. Ciò posto il problema che sta davanti all’economia mondiale è di una semplicità brutale: chi pagherà questa massa enorme di debiti che sta franando? Esiste una consistente riserva inutilizzata: i capitali in giacenza presso i paradisi fiscali, che secondo alcune stime sarebbero qualcosa come 33 mila miliardi di dollari la metà circa del PIL mondiale37. Ora facciamo il caso che, convertiti dalla predicazione di un nuovo S. Francesco, gli evasori (capitalisti che falsano bilanci, politici corrotti, esponenti delle varie mafie, etc.) diano i loro capitali occultati per riparare il buco nero che sta divorando l’economia mondiale, otterremo così una cifra pari a 1/7 del volume del debito globale stimato da Attali, la cui stima, come si è visto, è molto prudenziale e inferiore alla realtà. Relativamente poco, dunque, e però non credo che oggi esista un S. Francesco che possa fare simili miracoli, più logico è attendersi, dagli evasori professionali, un contegno ispirato al loro vecchio e noto egoismo e cioè un atteggiamento del tipo: sottoscrivo i bonds del debito pubblico in cambio di tassi di interesse favorevoli e di benevolenza verso l’evasione fiscale, altrimenti nulla38. E i governi lo sanno assai bene, posto che le recenti prese di posizione contro i paradisi fiscali sono, come vedremo, fumo negli occhi39 . Il capitalismo, dunque è in un culo di sacco, da cui non si può uscire con una politica di iperinflazione che distrugga il debito poiché, dato il volume del debito stesso cui si è pervenuti, per ottenere un simile risultato ci vorrebbe un’inflazione modello Germania 1923, quando i prezzi crescevano di ora in ora, se non di minuto in minuto, un fascio di broccoli costava 50 milioni di marchi, e il cambio sul dollaro del 23/11/1923 arrivò a 4.200 miliardi di marchi per dollaro (avete letto bene)40. Ciò permise di azzerare i vecchi debiti: si poteva rimborsare il mutuo fatto per acquistare una casa con una somma che, al momento dell’estinzione, bastava ad acquistare un paio di scarpe41, così il problema del debito era risolto. L’economia tedesca, però, era ferma: industrie e consumatori erano distrutti e la moneta non valeva più nulla (si ritornava allo scambio in natura), sicché il governo dovè radicalmente cambiare la politica della stampa selvaggia di carta moneta; i vecchi marchi vennero ritirati dal mercato con questo tasso di cambio: una monetina d’oro da un marco contro mille miliardi di carta straccia42.

In altre parole se per distruggere il debito si distrugge l’apparato produttivo, si fa il deserto e dal deserto non si riparte43.

Il volume “monstre” dell’indebitamento globale, che grava sull’economia mondiale, richiederebbe un’inflazione alla tedesca, estesa però a livello mondiale e con ciò si distruggerebbe il debito ma con esso l’economia tutta. A tale situazione ingovernabile non si è giunti per gli eccessi speculativi di qualche anno, ma per il lento deteriorarsi della situazione dalla metà degli anni ’70. Da allora infatti, per l’indebolirsi della posizione dei lavoratori sul mercato del lavoro44, si assiste ad una continua discesa dei salari come quota del PIL, per cui per consumare occorre indebitarsi sempre più e lo Stato è costretto ad indebitarsi anch’esso per sostenere un’economia che non ha più i ritmi miracolosi degli anni ’50 e ’60; già negli anni ’80 un noto economista americano (consigliere di Reagan e poi in rottura con lui) metteva in luce come il cumularsi di debito pubblico e privato poneva in essere un peso insostenibile per l’economia USA45 architrave dell’economia mondiale. Cassandra inascoltata poiché l’indebitamento continuerà a crescere (il miracolo del secondo mandato di Clinton è poca cosa e non muta il quadro)46 e si arriva ad usare la casa come bancomat per ottenere liquidità: il punto di arrivo di questo processo trentennale ce lo fornisce la Banca d’Italia, il debito del consumatore è il 93% del reddito disponibile nell’eurozona (100% in Francia e in Germania), il 180% in Inghilterra, il 130% in USA e il 140% in Canada, cifre da brividi ma il guaio è che ormai non si può più neanche consumare indebitandosi: in Giappone la più grossa compagnia specializzata nel credito a consumo, licenzia nel 2009 6.800 dei suoi 14 mila dipendenti47, in USA nella seconda metà del 2009 il credito a consumo ha uno scivolone, per trovarne uno simile bisogna risalire al 194348, dei mutui insoluti si è detto ed inoltre a fine anno, quando si tirano le somme, risulta che 1,4 milioni di americani è in bancarotta individuale, una bancarotta diversa da quella societaria, peraltro anch’essa in fortissima crescita.

La crisi inoltre colpisce anche i Paperoni, che vedono i loro patrimoni (formati n larga parte da azioni e titoli finanziari in caduta libera) ridursi in modo consistente49 sicché devono (poveracci!) ridurre i loro consumi di lusso50. L’esplosione dell’indebitamento, sia pubblico che privato ha radici strutturali e lontane51, è un effetto non una causa, ma è un effetto quantomai invasivo, nel senso che ha raggiunto proporzioni tali da minacciare la vita del paziente (il capitalismo). Se un malato di AIDS è colpito da una polmonite virale galoppante la causa di quest’ultima sarà l’indebolimento delle difese organiche dovute all’AIDS, ma a quel punto se la polmonite non è risolta il malato muore, così è per la montagna di debiti che sta franando sul capitalismo globale. Ma non è tutto. C’è un’altra conseguenza della crisi che sta soffocando l’economia: la mancanza di un governo mondiale della stessa. Da Bretton Woods in poi l’America ha imposto i suoi interessi alla guida del mondo capitalistico, grazie alla forza dell’economia e del dollaro ed alla sua potenza militare. Oggi però l’America non è più il 50% dell’economia mondiale come nel 1945, ma è solo poco più del 20% della stessa, il dollaro è una moneta debole tra le altre (inconvertibile dal 1971) e dal punto di vista politico-militare l’America rimedia sconfitte su sconfitte52. È chiaro che in una simile situazione il governo mondiale sull’economia non possa essere imposto ma debba essere contrattato. All’orizzonte, però, progressi nel senso del contratto non se ne vedono, ed è sintomatico quello che dice Attali, sostenendo che solo un cataclisma come una guerra mondiale potrà spingere l’umanità ad una svolta in senso solidale, poiché quello che occorre è un fisco mondiale, un Welfare mondiale etc.

Leggere per credere: “Per stabilire l’equilibrio del mercato e della democrazia, condizione per uno sviluppo armonioso su scala planetaria, occorrerebbe evidentemente creare gli strumenti necessari all’esercizio di una sovranità globale: un parlamento (un uomo, una voce) un governo, un’applicazione planetaria della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo … una polizia e una giustizia planetarie, un reddito minimo planetario, agenzie di rating planetarie, un controllo globale dei mercati finanziari. Chiaramente tutto ciò è inattuabile e così sarà per molto tempo ancora come lo era stata la creazione delle Nazioni Unite alla vigilia della seconda guerra mondiale. E probabilmente occorrerà attendere una guerra ancora più terribile perché la prospettiva di tali riforme sia presa seriamente in considerazione)53.

La cosa divertente è che il libro di Attali viene presentato come un libro ottimista, che saranno allora i pessimisti? La speranza di Attali, che una guerra mondiale renda gli uomini solidali, è da ridere, una guerra mondiale distruggerebbe l’umanità ed i pochi superstiti sopravviverebbero con livelli di vita da età della pietra con in più radiazioni, avvelenamento chimico e fall out atomico. Né mi risulta che la seconda guerra mondiale abbia generato grandi soprassalti di solidarietà54, per contro abbiamo avuto la guerra fredda, un corteggio infinito di conflitti locali con decine di milioni di morti (Corea, Vietnam, Biafra, Congo etc.) l’impoverimento del Terzo Mondo55 ed il problema crescente della fame nel mondo (oltre un miliardo di affamati per comune ammissione) etc.56 . La posizione di Attali è inconsistente ma alla base di questa c’è una disperata constatazione: la fine dell’egemonia americana ha prodotto enormi forze centrifughe che la crisi acuisce: in altre parole i potenziali componenti di un Direttorio per l’economia mondiale (USA, UE, Cina, Giappone) sono sempre più in rotta di collisione, per cui attendersi un accordo contrattuale tra loro è fuori dalla realtà.

Prendiamo, ad esempio, il caso del rapporto USA-Cina, un asse in cui molti vedono il futuro del mondo, per altri invece “Chimerica” è una chimera57. I cinesi sono infuriati per la debolezza del dollaro, su cui investono i surplus della loro bilancia commerciale acquistando i titoli del tesoro USA, e che potrebbe polverizzare i loro guadagni, per cui chiedono una politica di bilancio americana più severa58. Risposta americana: nel decennio 2010-2019 il debito federale americano crescerà a ritmo di 900 miliardi l’anno, 9000 miliardi in un decennio59, più che una risposta è un pugno in bocca. E però gli USA non possono fare a meno di sostenere la loro economia che affonda, se togli le stampelle l’economia crolla e con essa anche le esportazioni cinesi in USA che erano, nel 2007, il 19,1% del totale pari a oltre 7 punti del PIL cinese. In altre parole, quale che sia la scelta americana, la Cina subirà conseguenze negative: in un sistema impazzito ed in crisi, ogni scelta presenta pochi pro e molti contro. Analogamente per le esportazioni di tecnologia dagli USA alla Cina, che l’America ostacola pesantemente per chiari motivi politici, una Cina tecnologicamente forte non è gradita agli USA. I cinesi si infuriano ed hanno ragione, ma la situazione per loro sarebbe, forse, peggiore se l’America aprisse i suoi forzieri tecnologici: la tecnologia costa e molto, per cui mantenere elevato il surplus della bilancia commerciale cinese sarebbe problematico per Pechino, ma la cosa più grave è un’altra: uno sviluppo labour saving e capital intensive è diventato un problema insolubile anche nei paesi avanzati dove una disoccupazione al 10% dà solo una pallida idea di quello che è il problema reale sul tappeto60.

In Cina, però, la forza lavoro in eccesso è enorme poiché il paese ha dei livelli di produttività bassissima che oscillano da 1/10 (di quella dei paesi ricchi) nell’industria ad 1/4061 nell’agricoltura: se razionalizzi, secondo i criteri della tecnologia occidentale, questi settori, ti trovi di fronte a 700 milioni di disoccupati, più o meno, in altre parole l’embargo USA sulla tecnologia è un guaio per la Cina, un’eventuale apertura nel settore sarebbe un doppio guaio. Ancora: la Cina sostiene da tempo la necessità di superare il dollaro come valuta di riferimento nel commercio internazionale62, in questo è seguita dagli altri tre paesi del c.d. BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e naturalmente gli USA rispondono picche. Ora è indubbio che il dollaro, inconvertibile e svalutato, non può svolgere adeguatamente il ruolo di valuta di riferimento internazionale, ma è anche vero che non c’è alcuna valuta in grado di sostituirlo e di svolgere il ruolo che la moneta USA ha svolto prima del 1971 (anno dell’inconvertibilità). Tutte le valute in campo sono ormai inconvertibili e tutte sono deboli a partire dall’euro che vale, mentre scrivo, 1,40-1,50 sul dollaro, ma che negli ultimi anni ha oscillato paurosamente (da 0,82 a 1,60 sul dollaro) e l’instabilità è un chiaro indice di debolezza che nel caso dell’euro è dovuto a due fattori: a) l’economia europea non è meno in crisi di quella USA; b) l’euro non è una moneta di uno Stato ma di un complesso di paesi che sono poco più di un’unione doganale, che davanti alla crisi sono totalmente latitanti, nel senso che una politica europea non esiste63.

I  superamenti reciproci tra dollaro ed euro negli ultimi anni sono scavalcamenti tra due monete deboli, espressione molto più di rapporti di debolezza che non di forza. Discorso in parte diverso, ma confluente, è da fare per lo yuan cinese, che è in apparenza una moneta forte e finanche sottovalutata, avendo alle spalle una bilancia commerciale largamente in attivo. Ma la competitività cinese si fonda su salari da fame e sulla sottovalutazione dello yuan, non sull’alta produttività e la tecnologia dell’industria e dell’economica cinese, che invece è bassissima; la competitività cinese è una competitività da sottosviluppati e da affamati ed il PIL procapite cinese nel 2007, al culmine del “miracolo”, era di 2430 $ a testa (Canada 40330 $, USA 45592 $, Italia 35400$, Giappone 36310 $, Germania 40320 $, Francia 41970 $, Regno Unito 45440 $) un livello umiliante pari ad 1/15 dell’Italia e ad 1/9 (più o meno) delle nostre province più arretrate (tipo Crotone, Vibo Valentia, Enna, etc). La moneta di un paese di questo genere non può sostituire il dollaro, come non può sostituirlo lo yen giapponese con un bilancio statale sull’orlo della bancarotta, o la sterlina inglese con un’economia in crisi che è 1/6 di quella USA.

Il problema del dollaro esiste ma è insolubile e dà luogo ad un dialogo tra sordi, in cui gli uni accusano gli USA di godere di un immeritato privilegio e gli USA rispondono che, piaccia o no, nessuno è in grado di sostituirli. Una sintesi della situazione può essere in una battuta attribuita ad uno dei massimi dirigenti cinesi (Lou Peng): “Vi odiamo ma abbiamo bisogno di voi”64. Come dire ci serve esportare nel vostro mercato, vorremmo la vostra tecnologia, senza il vostro debito pubblico avremmo difficoltà ad investire gli attivi della bilancia commerciale, vogliamo che le vostre IM investano da noi etc. Affermazione grave ed ingenua, mai un Andreotti avrebbe commesso una simile ingenuità perché avrebbe ammesso la propria estrema debolezza nei confronti del partner-nemico. La crisi poi ha acuito i conflitti tra i due partners rivali: la clausola “buy american” colpisce anche le merci cinesi indirettamente ma in modo più diretto esse sono colpite dai dazi (sui tubi, i pneumatici, i polli)65 e anche la Cina risponde esortando a consumare cinese66 .

Diversamente, ma non meno conflittuali, sono i rapporti USA - UE: qui la posta in gioco è il mercato dei capitali, gli USA hanno finanziato negli anni passati il loro deficit con 6500 miliardi di dollari di capitali importati, ma ormai anche in Europa esplode il deficit e la fame di capitali, che la crisi rende scarsi e comunque inferiori ai bisogni crescenti e famelici del sistema sia a livello pubblico che privato. Ha un bel dire Trichet che l’euro non è nato contro il dollaro: la concorrenza è nei fatti e se la proposta di lanciare bonds europei (accanto a quelli dei singoli paesi) dovesse passare la guerra economica sarebbe patente e non più latente. Ma anche così il conflitto c’è ed è pesante: capitali che si rarefanno e domanda che cresce contemporaneamente, una volta sarebbe scoppiato una guerra mondiale, oggi questo non accadrà (deludendo le attese del signor Attali), ma sull’Atlantico e nei mercati finanziari voleranno pugnali. Del resto la clausola “buy american” è volta contro europei e giapponesi e non solo contro la Cina, ed analogamente avviene anche per le altre misure protezionistiche, che anche i paesi europei pongono in essere67, come dire tutti sono in guerra contro tutti.

E l’UE è in guerra anche contro la Cina: il governo italiano ha ottenuto dall’UE la proroga delle misure protezionistiche contro le scarpe cinesi68, inoltre nel 2008 la Cina ha realizzato in sede UE il record per le infrazioni agli standards di qualità europei69; le auto cinesi non sono ammesse in Europa proprio per questi motivi (lo stesso dicasi per gli altri paesi avanzati), e la Daimler cita in giudizio una grande casa cinese dell’auto accusandola di plagio70, mentre Shanghai è la capitale mondiale dell’industria del falso71.

In altre parole gli uni (nella specie l’UE) accusano la Cina di produrre beni impresentabili e copiati e gli altri (i cinesi) pretendono di prosperare producendo scarti industriali e falsi marchiani.

Anche i rapporti tra il Giappone, l’UE e gli USA sono rapporti altamente competitivi: il Giappone naviga verso uno sbilancio pubblico pari a circa il 240% del PIL il che significa che questo paese si presenterà sul mercato dei capitali letteralmente affamato ed in concorrenza con americani ed europei. Sembra proprio che siamo in presenza di conflitti di interesse insanabili; questo è il quadro dell’economia mondiale alla fine del 2009 e sembra Coventry dopo il passaggio dell’aviazione tedesca.

 

2) L’inutile balletto dei G. I problemi insolubili del capitalismo.

Davanti ad un simile disastro le classi dirigenti dei vari paesi rispondono, nel corso del 2009 con un estenuante balletto di G (G 20, G8 mentre si prospetta anche un inedito G14)72. I più importanti sono stati i G20 di Londra (aprile 2009) e di Pittsburg (ottobre 2009) ed il G8 intermedio di l’Aquila (luglio 2009). Nessuno si aspetta miracoli dai vari G ed il sentimento comune verso di essi è espresso bene da una vignetta di Giannelli sul “Corriere della Sera” in cui il G 20 di Londra, che inizia il 1° aprile, è così illustrato: un enorme G che finisce in un pesce, sotto la dicitura “pesce di aprile”.

In realtà i G mascherano il balletto delle reciproche impotenze73, molte dichiarazioni di principio e di intenti ma provvedimenti concreti zero. Eppure qualcuno nota che a Londra i governanti del mondo hanno messo sul piatto della bilancia 5000 miliardi di dollari di interventi, ma al TG2 della sera del 2/4/09 Federico Rampini di “Repubblica”, nota che questa è solo la somma dei diversi provvedimenti decisi dai singoli governi, senza alcun coordinamento globale, ognuno agisce per proprio conto, ma una politica mondiale organica dei G non esiste. Sintomatico è quello che avviene nel campo degli ammortizzatori sociali: USA e Canada lasciano scoperti (senza alcuna tutela cioè) il 57% dei lavoratori, che diventano il 93% in Brasile, l’84% in Cina, il 77% in Giappone, il 40% nel Regno Unito, il 18% in Francia, ed il 13% in Germania (fonte ILO)74; come si vede si va da una copertura quasi totale in Francia ed in Germania ad una marginale o pressoché assente in Cina, Giappone e Brasile. Lo stesso dicasi per le banche: un enorme sforzo in USA e in Europa, in Cile, Indonesia e Argentina si impegna sino al 40% del PIL75, mentre un paese come l’Italia non fa nulla o quasi76.

Ma è poi vero che i miliardi impegnati sono 5000? Proprio nei giorni del G20 di Londra il giornale della nostra Confindustria pubblica una mappa analitica e aggiornata degli interventi compiuti dai vari governi dal settembre 2008 al marzo 2009 e la cifra finale è sconcertante: 22-23 mila miliardi di dollari, contro gli 80 che costò il new deal ed i 500 del costo della seconda guerra mondiale77, la metà di questa cifra o quasi è impegnata solo dal governo USA (amministrazioni Bush ed Obama) e larghissima parte di essi, in USA e nel mondo, è destinato alle banche. Né questa è l’unica valutazione in materia, altri esperti stimano in 8,5 trilioni di dollari gli impegni del governo USA78, che non sono tutti interventi “pronta cassa” ma di garanzia, tuttavia lo sforzo è semplicemente immane. Fa spavento anche il raffronto con la seconda guerra mondiale, anche tenendo conto della svalutazione del dollaro rispetto al 1945, il raffronto è agghiacciante per due motivi: a) la spesa per la seconda guerra mondiale abbraccia un arco di 6 anni, qui siamo in presenza di 6-7 mesi; b) la spesa militare nella seconda guerra mondiale rilanciò l’economia USA, infatti nel 1941 il PIL era di poco superiore al 1929 e si impenna negli anni susseguenti raddoppiando quasi mentre nel 1943-44 la percentuale di PIL della spesa militare era pari al 44,6%79. Nel nostro caso invece si spende molto di più ma l’economia non sembra reagire positivamente. È da notare che la cifra che troviamo nel giornale confindustriale non è arrivata alla stampa c.d. “popolare” ed il motivo credo è facilmente intuibile: l’enormità della cifra significa che siamo vicini al “si salvi chi può”. Ciò premesso analizziamo da vicino, per capitoli, tutte le decisioni che i vari G (non) hanno preso.

A) Lotta al protezionismo

In questo campo solo dichiarazioni di principio del tutto vaghe. Ad es. la clausola “buy american” dell’amministrazione Obama viene ignorata, malgrado il suo chiaro significato protezionistico80. Intendiamoci non sempre le misure protezionistiche messe in opera dai singoli governi sono quelle classiche (dazi doganali) ma sono misure indirettamente e concretamente protezionistiche81 e sono molto numerose (sostegni fiscali a chi non delocalizzi, favori alle aziende domestiche nell’assegnazione delle commesse pubbliche, invito a comprare i beni nazionali etc.). Al consuntivo la Banca Mondiale stima che 17 dei 20 governi del G20 adottino misure protezionistiche82, mentre il world trade alert ci fa sapere che si procede a ritmo di 60 misure protezionistiche al mese83. È evidente che si fanno dichiarazioni di principio smentite ogni giorno dai fatti.

B) Politica attiva per la difesa e la creazione di nuovi posti di lavoro

Assolutamente nulla di concreto, neanche la politica degli ammortizzatori sociali è minimamente coordinata.

C) Nuove regole per la finanza internazionale

Queste ultime sembrano essere assolutamente necessarie poiché “la nuova peste del secolo” e cioè la speculazione (il 2008 è stato l’anno del famoso boom dei prezzi delle materie prime, boom a carattere del tutto speculativo)84 minaccia ogni giorno la stabilità dei mercati, molti temono che una timida ripresina produttiva sia stroncata sul nascere da impennate dei prezzi a carattere speculativo85: basta che si accenni all’ipotesi di una ripresina asfittica ed incerta per il 2010 che il petrolio si impenna a 75-80 $ al barile.

Bisognerebbe regolare in modo stringente i mercati mondiali e sottoporre a controllo i grandi centri finanziari che li dominano, le IM giganti. In passato (anni ’70) il problema del codice di comportamento internazionale per le IM fu molto dibattuto, ma solo un piccolo paese, (il Portogallo della rivoluzione dei garofani) osò varare nel 1976 una legge in materia molto incisiva86, peraltro l’involuzione e la fine della rivoluzione dei garofani impedì a questa legge di avere risultati concreti. Poi il silenzio: l’argomento non è più di moda negli anni (o decenni) del liberismo più selvaggio ed imbecille. Riemergerà improvvisamente alla conferenza FAO sulla fame nel mondo di Roma (fine 2009), dove si chiederà di imporre delle regole, un codice, ai predoni delle risorse della terra, le IM che la saccheggiano (a cominciare dall’acqua), ma a quella conferenza tra i grandi del mondo è presente solo il padrone di casa (Berlusconi) gli altri neanche vengono per non sentirsi rinfacciare le promesse (non mantenute) per la lotta alla fame nel mondo; come è noto a tutti la conferenza finirà con un nulla di fatto87. Del resto essendo sfumato (per ora) il pericolo di un crollo immediato e generale che tutti o quasi temevano nell’ottobre 2008, nessuno vuole, a Wall Street e dintorni, il varo di regole che impediscano a banchieri e finanzieri di fare i propri comodi88 . A Wall Street c’è aria di restaurazione o conservazione, ed il Ministro del Tesoro Geithner ha fatto un regalo incredibile agli gnomi della finanza: iscrivere al bilancio i titoli non al valore di mercato ma sulla base di una valutazione discrezionale degli amministratori, così si fanno quadrare i conti e si rivalutano i titoli tossici89. Un tempo questa sarebbe stato falso in bilancio, adesso è legale. Il fatto è che Wall Street finanzia la politica e le elezioni (da quelle presidenziali a quelle congressuali) senza distinzione tra i due principali partiti USA, e il congresso americano è stato un alfiere senza paura della “deregulation” più sfrenata90. Non contrastano con quanto sosteniamo le recenti notizie sul possibile varo di una riforma dei mercati finanziari in USA, che attribuirebbe al potere pubblico la facoltà di intervenire su alcuni titoli altamente speculativi e di chiudere alcune società finanziarie. Non so quale topo partorirà la montagna, ma credo che quand’anche fosse un gatto, sarebbe un gatto paralitico, poiché il potere pubblico sono Geithner e Bernanke, la cui arrendevolezza verso Wall Streeet è a prova di bomba91, ma al di là delle “performances” di Geithner e Bernanke c’è una situazione finanziaria drammatica: se ne i prossimi dieci anni si prevede di chiedere ai mercati 9000 miliardi di dollari, per sostenere deficit e debito federale, non si può spaventarli (anche perché la cifra fa paura di per sé), fare la faccia feroce in questa situazione è controproducente. Per l’Europa il discorso è in parte diverso ma confluente: anche qui, a fine 2009, emerge una proposta di riforma dei mercati basata su una Authority che dovrebbe sorvegliare i mercati, ovviamente solo quelli europei92, e qui si delinea un autentico pasticcio. L’Europa infatti è un complesso di 27 paesi con una moneta unica, cui non aderiscono 11 paesi (Inghilterra in testa) con una banca centrale che concerne solo i paesi dell’euro e che coesiste con le singole banche nazionali, sia dei paesi euro, sia dei paesi “non euro”, che sono molto più autonome. Manca un Ministero delle Finanze e dell’Economia europeo, (perché manca uno Stato europeo) che si coordini con la BCE; in altre parole noi abbiamo solo un Bernanke e non abbiamo un Geithner (e forse non è un male). Che accadrà, dunque, se le Authority nazionali non condivideranno le scelte di quella europea? La riforma prevede un ping pong, protratto nel tempo di delibere alla ricerca di un faticoso accordo93, che è semplicemente ridicolo: nei mercati di oggi, instabili e volatili, la speculazione impazza e ci vorrebbe un potere forte, decisionista e “giacobino” e non la paralisi della frammentazione ipotizzata dalla proposta di riforma europea.

Dall’Europa e dagli USA non si possono attendere miracoli, anche perché le ipotesi in campo riguardano USA ed Europa, non i mercati mondiali che comprendono i mercati asiatici e le borse di molti paradisi fiscali (ad es. Svizzera). In questo campo, dunque, i vari G dovrebbero prendere l’iniziativa di una proposta concreta ed operativa, ma non risulta che l’abbiano fatto.

D) Il problema di una nuova valuta di riferimento per il commercio mondiale

Abbiamo visto che il problema esiste ed è insolubile, forse per questo i G non lo hanno affrontato per nulla.

E) Sostegno ai consumi e lotta alla povertà

Assolutamente nulla. La conferenza della FAO di Roma è stata snobbata in modo vergognoso.

F) Lotta all’evasione e ai paradisi fiscali

È questo un campo in cui si potrebbero trovare notevoli risorse per affrontare i problemi sul tappeto e per tamponarli (risolverli come si è visto è impossibile). In proposito grande clamore si è fatto per l’iniziativa di Obama contro la Svizzera, su cui ritorneremo chiarendone natura e limiti (enormi)94. Qui mi limiterò a notare che, se Obama volesse veramente combattere l’evasione fiscale, non avrebbe bisogno di spingersi sulle montagne svizzere, gli basterebbe varcare il fiume Deleware ed entrare nel territorio di un Stato della Federazione americana di cui egli è presidente, che è un paradiso fiscale dei più illustri e noti al mondo, le cui “performances” umiliano Svizzera e Lussemburgo, inoltre c’è Puerto Rico protettorato americano di diritto, nonché Panama, protettorato americano di fatto95. Questo discorso vale anche per gli altri governanti dei vari G, che tuonano contro lo scandalo dei paradisi fiscali, ma proteggono da decenni i propri paradisi fiscali. Nel lontano 1978 il più noto (forse) fiscalista italiano, chiarì, in un discorso storico alla scuola della Guardia di Finanza, che ogni paradiso fiscale (o quasi) esiste perché protetto da una grande potenza96, così Macao e Hong Kong sono un’emanazione della Cina, Monaco è un protettorato francese di fatto, mentre le isole francesi del canale e i territori di oltremare sono suolo francese, e lo stesso dicasi per le isole inglesi del canale o Gibilterra, l’Andorra è un protettorato franco-spagnolo, di Panama, Puerto Rico e Deleware si è detto, S. Marino è un’isola in terra italiana, etc, etc. Non serve dunque che nei comunicati finali dei G si lancino vacui anatemi senza conseguenze contro i paradisi fiscali, basterebbe che i singoli paesi (USA, Inghilterra, Francia e Cina in testa), prendessero misure concrete e serie sui loro paradisi fiscali, quelli cioè che si trovano sul loro territorio o nella loro orbita, così le giaculatorie contro i paradisi fiscali passerebbero dalle parole ai fatti, ma così non è, e l’unica iniziativa concreta e rilevante è quella di Obama contro la Svizzera, che, però, lo diciamo subito, mirava a colpire la Svizzera per favorire i paradisi USA (o gli stessi USA che sono, come vedremo, un enorme paradiso fiscale) un atto non alternativo ma concorrenziale, volto a convincere gli evasori americani a tornare in patria, dove potranno continuare ad evadere ma patriotticamente97. Ma quanto vale o pesa l’evasione fiscale? Per l’OCSE vale 7000 miliardi di dollari98, per il governo USA siamo a 7300 miliardi99, per Guerra, numero uno dell’OCSE, siamo a 11 mila miliardi (con il che corregge al rialzo la stima della propria organizzazione)100, per Rampini, come si è visto, siamo a 33 mila miliardi. Cifre enormi ma assolutamente approssimative, poiché esse indicano in genere il volume di capitali che giacciono nei c.d. paradisi in un momento dato, ma il fatto è che queste somme sono capitali che vanno investiti, il compito dei paradisi è quello di occultare, rietichettare e reinvestire i capitali con un continuo movimento di andirivieni101.

Ma quanto si è evaso negli ultimi 50 anni? Nessuno lo saprà mai, ma esistono valutazioni indicative da brividi: già nel 1962 Kolko, in una analisi documentatissima, ha evidenziato come il volume delle tasse evase fosse (in USA) pari al 5% del PIL USA (cui corrispondeva un imponibile nascosta del 14-15%)102, il che significa che in 20 anni o poco più si può occultare l’equivalente di un PIL annuo americano; è bene rilevare, però, che l’analisi di Kolko, per quanto pionieristica, prescinde dai giochi dei prezzi di trasferimento103 e dal ruolo dei paradisi fiscali, i mezzi di evasione che egli considera, non sono certo venuti meno, ma oggi sono diventati relativamente artigianali rispetto ai prezzi di trasferimento o alle operazioni a livello di sistema bancario multinazionale, che permettono di trasferire enormi capitali cliccando su un computer, premendo un tasto si trasferiscono miliardi di dollari in paesi che rifiutano di fornire qualunque informazione a fini fiscali.

Ma l’America non è un’eccezione, nell’Italia degli anni ’70 il Ministero delle Finanze riteneva che 1/3 del reddito italiano fosse occultato104, poco male nella vicina Francia, che gode della fama di grande efficienza burocratica, ciò avveniva dagli anni ’60 e altrove la situazione è analoga105. A questo si aggiunga la massa enorme delle attività criminali: l’industria del crimine è valutata dall’ONU come un’industria che vale il 5% almeno del PIL mondiale106 e questo significa evasione necessaria: nessuno può scrivere in una qualche dichiarazione dei redditi, questo reddito deriva dal commercio di droga, dallo sfruttamento della prostituzione, dal commercio dei lavoratori clandestini etc., anche qui il 5% annuo occultato, produce dopo 20 anni, un PIL annuo (mondiale). Analogo discorso per il lavoro nero: in Italia la Confindustria e l’ISTAT lo stimano al 15% del PIL107, ma il fenomeno ancora una volta è mondiale108, e di recente l’OCSE ha stimato, come abbiamo visto, che il 60% dei lavoratori al mondo, (1,8 miliardi) lavora in nero e c’è da chiedersi quanto PIL sommerso corrisponda a simili realtà.

Ancora la corruzione del potere: la nostra Corte dei Conti stima i costi della corruzione in Italia in 60 miliardi di euro l’anno (più o meno 4 punti di PIL)109, ma, ancora una volta, il fenomeno è mondiale, già Merton, oltre 50 anni or sono, considerava la corruzione come un fenomeno stabile e consistente (anzi utile e necessario) in USA110 e recenti analisi hanno confermato che il fenomeno è esteso e ramificato a livello mondiale111. C’è poi da considerare che le attività criminali organizzate (o industrializzate), cui la corruzione si lega, hanno tassi di profitto elevatissimi (anche del 500%) che sono da sogno per l’industria legale112, per cui tendono a riprodursi con ritmi particolarmente elevati come è accaduto nell’industria del falso, che negli ultimi 15 anni si è sviluppata con una rapidità nettamente superiore a quella dell’economia legale113. Davanti a questo oceano in tempesta i governi dei vari G sono impotenti e complici. Perché?

Una risposta fondamentale la dette il Commissario europeo Monti, che, intervenendo ad uno dei meeting annuali di Comunione e Liberazione a Rimini, disse che le IM mettevano all’asta i loro capitali, investendoli in paesi fiscalmente benevoli, per cui si è aperta una gara al ribasso tra paesi e si è verificato uno spostamento del carico fiscale dal capitale al lavoro114. Il fenomeno però non è solo europeo ma mondiale: è dagli anni ’70 che questo spostamento è evidente (col conseguente slittamento del carico fiscale sui lavoratori)115 e le conseguenze di ciò sono quelle segnalate: salari netti in calo come percentuale del PIL, redditi di lavoro saccheggiati116, consumi che si reggono su un indebitamento sempre meno sostenibile, crisi fiscale degli Stati. Non si sa chi sia più miope, se i governi, che si arrendono al capitale, o il capitale stesso, che acuisce le contraddizioni del sistema sperando che non esplodano, speranza da mentecatti: sono esplose come era logico, e sono sempre più incontrollabili come ho già evidenziato nei miei procedenti articoli sulla crisi; il capitale è per sua natura miope, la concorrenza pone in essere una spinta ineludibile a fare profitti elevati nel breve e medio periodo, se non li fai fallisci o vieni fagocitato dai concorrenti. Ogni impresa pensa ai propri conti e non alle conseguenze macroeconomiche delle sue azioni, così in presenza di una crisi si licenziano lavoratori in massa anche se questo può acuire le spinte sottoconsumistiche del sistema, spingendolo verso il crollo; il compito di provvedere all’equilibrio macroeconomico del sistema, è della politica e dello Stato, e per questo occorre uno Stato forte, come fu quello di Roosevelt, ma uno Stato debole e ricattabile a livello fiscale, che deve chiedere in ginocchio finanziamenti agli evasori117, non può fare alcuna politica forte di riequilibrio del sistema, sopravvive galleggiando sulla crisi. La miopia del capitale e l’impotenza dello Stato sono due facce della stessa medaglia che producono tra l’altro il deprimente balletto dei vari G che si riuniscono periodicamente, non decidono nulla e lanciano solo proclami del tutto vacui, autentici pesci di aprile anche a luglio ed ottobre.

 

3) La politica economica di Obama. Attivismo ed impotenza

Non mi sono mai illuso sul conto di Obama quale possibile continuatore ideale di Roosevelt, ed il 2009 è stato l’anno del grande disincanto, in cui molti liberals hanno voltato le spalle ad Obama, o quantomeno hanno cominciato a criticarlo per la sua subalternità a Wall Street118.

Qui di seguito analizzeremo i punti principali della politica di Obama evidenziandone i fallimenti.

A) Disoccupazione

La tabella che segue (fonte Ministero del Lavoro USA) illustra mese dopo mese l’andamento della disoccupazione nel 2009.

Tabella n. 1

Mesi

Crescita numero disoccupati

% disoccupati

Gennaio

655.000

7,6%

Febbraio

651.000

8,1%

Marzo

663.000

8,5%

Aprile

545.000

8,9%

Maggio

345.000

9,4%

Giugno

467.000

9,5%

Luglio

227.000

9,4%

Agosto

201.000

9,4%

Settembre

263.000

9,8%

Ottobre

190.000

10,2%

Novembre

11.000

10%

Dicembre

85.000

10%

Al consuntivo vengono distrutti circa 3,8 milioni di posti di lavoro, un record dal 1949.

Ora il banco di prova o la pietra di paragone con Rooselvet è dato proprio dalla politica attiva contro la disoccupazione: negli anni ’30 non ci si limitò ad impedire dei licenziamenti, ma si riassorbì oltre il 40% della disoccupazione, che passò dal 25% al 14,3% con la creazione di 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni (1933-37)119 : il raffronto è umiliante per Obama. Il fatto è che non puoi contemporaneamente salvare le banche e creare nuovi posti di lavoro, che richiedono enormi risorse, almeno nella situazione attuale del capitalismo americano. Nella prima metà del 2009 il deficit federale cresce di ben 1086 miliardi di dollari a causa dei salvataggi bancari120, mentre la dotazione per sostenere PMI sale da 2 a 5 miliardi di dollari121. Una miseria. Non solo ma il modello del capitalismo americano e mondiale si è evoluto in senso sempre più capital intensive e per creare un nuovo posto di lavoro ci vogliono risorse sempre più consistenti, trovarle in un paese col debito federale e quello globale a livelli senza precedenti è impossibile, ed una volta salvate le banche resta poco o nulla per l’economia reale (occupazione, consumi, PMI, etc.). A tal proposito avevo rilevato già come negli anni ’90, nel pieno del miracolo di Clinton, la disoccupazione ufficiale, che era al 5%, in realtà era al 25%, mentre per il futuro premio Nobel prof. Phelps era attorno al 20%122; ciò naturalmente a causa di un modello in cui è sempre più possibile aumentare la produzione senza aumentare quasi per nulla l’occupazione anche in fase espansiva. Nel 2009 la situazione si è incancrenita ben al di là dei dati ufficiali prima citati. A giugno 2009 il corrispondente di “Repubblica” dagli USA rileva che al 9% o poco più indicato dalle statistiche, vanno aggiunti 9 milioni di lavoratori scoraggiati, che hanno perso il lavoro e non si scrivono più alle liste di disoccupazione; passate le 26 settimane di godimento dell’indennità di disoccupazione essi scivolano via dalle statistiche e scompaiono semplicemente, con loro il tasso di disoccupazione salirebbe al 16,4%123; ma non basta. Si rileva nello stesso articolo che vi sono altri 7 milioni di lavoratori che, per continuare a lavorare, hanno dovuto accettare o subire un lavoro a tempo parziale, ma i lavoratori parziali sono, a inizio millennio, il 33% della forza lavoro USA (ma il fenomeno è generale)124, sicché con questi nuovi arrivi si sfiora quasi il 40%; ora se un lavoratore part time e sottopagato vale mezzo lavoratore a tempo pieno, abbiamo un’altra disoccupazione nascosta del 20%, aggiungiamo poi gli oltre 2 milioni di americani in età da lavoro, ma impediti a lavorare perché in galera (gli USA più che una democrazia liberale sono una democrazia carceraria) e arriviamo ad una disoccupazione di poco inferiore al 40%.

Un disastro.

Per rendersi conto di quanto sia incancrenito il problema farò il raffronto con i dati forniti dall’ILO all’inizio degli anni ’80, anni pesanti economicamente, quando i ricercatori dell’ILO fornivano questi dati: 1,5 milioni di lavoratori scoraggiati e 6,5 milioni di lavoratori parziali125. Sembrava ai ricercatori dell’ILO, oltre che a me, che i dati in questione fossero indice di una situazione patologica sul mercato del lavoro126, adesso sembrano dati di un’altra era geologica. Davanti ad una simile situazione sono patetici gli inviti di Obama e Bernanke a che i capitalisti si rendano conto delle conseguenze macroeconomiche delle loro azioni (licenziamenti di massa)127; nel capitalismo in realtà l’unica logica è quella dei costi e dei ricavi, se i ricavi calano (e con essi i profitti) devi ridurre i costi, primo tra tutti quello della forza lavoro, deve essere lo Stato a creare nuovi posti di lavoro come fece Roosevelt, rilanciando produzione e consumi e stimolando per quella via la creazione di nuovi posti di lavoro. Impresa improba perché le risorse scarseggiano, l’economia USA è indebitata come mai nella sua storia, ed il capitalismo americano non produce nuovi posti di lavoro neanche in fase espansiva.

Ciò posto Obama non poteva fare di più, ma questo significa solo che il capitalismo americano è un malato terminale e inguaribile, anche se ritornasse Rooselvelt sarebbe del tutto impotente.

B) Lotta all’evasione fiscale

Anche solo per tentare di sopravvivere diventa fondamentale il problema del reperimento delle risorse e quindi la lotta all’evasione fiscale. In questo campo Obama compie un’azione spettacolare, molto esaltata dalla stampa mondiale che ha visto in essa l’inizio della fine dei paradisi fiscali128, e cioè l’apertura di un contenzioso molto duro, con la pacifica (ed evasiva) Svizzera, volta ad ottenere da essa informazioni sui conti di 52 mila correntisti americani rifugiatisi tra le Alpi svizzere. Ora dopo una trattativa piuttosto serrata sono stati consegnati o rivelati solo 4450 conti, che per l’amministrazione Obama sarebbe stata una grande vittoria129. Si dà il caso che uno dei mezzi che i politici usino per negare le sconfitte è quello di chiamarle vittorie e questo mi sembra un caso emblematico. Infatti 47550 conti sono stati negati, più del 90% del totale; certo si potrebbe dire che quelli che interessavano veramente erano gli altri 4450, ma per sostenere questo in modo documentato occorrerebbe conoscere la consistenza dei conti che continuano ad essere occultati, e nessuno la conosce sicché le dichiarazioni trionfali dell’amministrazione Obama hanno tutta l’aria della foglia di fico che copre un umiliante sconfitta130. Spesso, infatti, i conti occultati danno sorprese: sono intestati a prestanome poco consistenti dal punto di vista patrimoniale, ma dietro di essi ci sono autentici colossi, per cui solo conoscendo la consistenza e la storia di questi conti puoi cominciare ad ipotizzare chi c’è veramente dietro, e questo l’amministrazione Obama non l’ha saputo per 47550 conti su 52.000: tale è la realtà e il resto sono solo chiacchiere propagandistiche. Ma, a ben vedere, questo è solo un aspetto secondario del problema, il vero problema è un altro che cioè gli USA sono essi stessi un paradiso fiscale, per cui la manovra di Obama appare molto più un atto di concorrenza tra paradisi fiscali che non un’alternativa ad essi e all’evasione fiscale. Come dicevo poc’anzi ad Obama non occorre andare in Svizzera o alle Cayman per trovare paradisi fiscali, basta che dia un’occhiata alle pubblicazioni on line del governo del Deleware, piccolissimo Stato della federazione americana. Così scoprirà, in questo piccolissimo Stato, che a stento si vede sulla carta geografica, che hanno sede un milione di società tra cui 250 delle 500 più grandi classificate da “Fortune”; in un palazzo della capitale statale hanno sede 200 mila società, ciò che rende ridicolo il precedente primato mondiale delle isole Cayman nelle quali un palazzo ospitava solo 18 mila società131; il motivo di ciò è assai semplice, nel Deleware non si pagano imposte sui profitti societari ed il libro dei soci è impenetrabile sicché il 56% delle società quotate a New York e il 58% di quelle quotate nel Nasdaq hanno sede nel piccolo Stato132, la cui opacità è superiore a quella della Svizzera133.

Il Deleware è famosissimo e la sua fama è arrivata anche a Cagliari dove un imprenditore locale è stato denunciato dalla nostra Guardia di Finanza perché ha inviato 400 milioni di euro (cifra non proprio disprezzabile) in tre paradisi fiscali: Guinea, Quatar, Deleware134. Per combattere l’evasione fiscale Obama deve imitare il suo lontano predecessore il grande Washington, che attraversò il Deleware per infliggere agli inglesi una memorabile sconfitta, solo che oggi Obama non avrebbe di fronte le giubbe rosse ma gli evasori fiscali americani e del mondo intero che come avversari sono un po’ più tosti. Inoltre c’è Puerto Rico e Panama, ma a ben vedere sono gli USA nel loro complesso ad essere un paradiso fiscale. C’era una volta, correva l’anno 1957 (gli anni si sa corrono sempre) in cui l’aliquota fiscale massima in USA era del 91% ma in realtà non si superava il 52%135, ma erano altri tempi, già nel 1972 l’aliquota massima era scesa al 63% ma non si superava di fatto il 32,1% ed inoltre alcune decine e centinaia di super ricchi non pagavano tassa alcuna sul reddito136. Nel 1998 però, con Clinton, i super ricchi che non pagano tasse sono 2400, cui si aggiunge un’altra piccola pattuglia di 18.000, che paga solo il 5% del proprio reddito, una aliquota da scudo fiscale italiano137. Davanti a questi dati vengono in mente due frasi che negli ultimi anni ho citato più volte: Pierpont Morgan: “Se lo Stato non è in grado di riscuotere le proprie tasse sarebbe da fessi pagargliele”. Miliardaria texana: “Le tasse non mi riguardano sono una cosa da poveri”138.

Un ultimo rilievo nel corso del 2009 il governo Obama lancia un piano per ridurre l’evasione e l’erosione fiscale di 210 miliardi, ma in dieci anni, e cioè di 20 miliardi e poco più l’anno139. Una miseria. Il senso, perciò, dell’iniziativa di Obama è chiaro, si tratta non di colpire l’evasione fiscale ma la Svizzera, ottenendo il rimpatrio di capitali americani che devono essere investiti nell’economia e nel tesoro USA, fermo rimanendo che i Paperoni continueranno a non pagare le tasse: “invest american” come “buy american”. Ciò non è contraddetto dalla recente iniziativa di Obama contro le banche che dovranno pagare 117 miliardi in 12 anni per rimborsare gli aiuti avuti dal governo140. Vedremo quello che farà il congresso americano dove i repubblicani eleveranno barricate (soprattutto dopo la vittoria elettorale di Boston che ha dato loro il 41° seggio al senato, ciò che permette manovre ostruzionistiche)141. Peraltro 117 miliardi in 10 anni sembra molto più una sanatoria che non un’azione di recupero nei confronti dei banchieri142. Inoltre le tasse occorre avere la forza e la volontà di farle pagare e non sembra proprio che il governo Obama sia orientato in questa direzione, anche perché, come ho detto più volte, cercare di imporre una politica fiscale estremamente severa in un momento di crisi economica porterebbe alla fuga dei potenziali sottoscrittori del debito pubblico143.

C) La crisi bancaria

Enorme è stato l’impegno a sostegno dei salvataggi bancari, valutabili in termini di trilioni di dollari di aiuti diretti ed indiretti. Secondo alcuni le banche sembrano essere risanate, e però il FMI ci dice che le perdite vere sono il doppio di quelle denunciate e il governatore Draghi ammonisce che i prossimi 5 anni saranno pesantissimi per la finanza pubblica e privata144. Indicativo è in materia, il numero dei fallimenti: nel 2008 furono 25145, nel 2009 è un bollettino di guerra, la mia ultima rilevazione (inizio novembre 2009) mi dà 124 banche fallite146 a cui devono essere aggiunte 522 banche in serie difficoltà nel terzo trimestre 2009, dato record dal 1993 ed in crescita147. E’ decotta la CIT148 (banca specializzata nel sostegno alle PMI) ed è decotta la Fha (stampella dei mutui immobiliari)149.

Ma non è tutto: il sistema finanziario americano si regge su un’altra colonna portante diversa dalle banche, i fondi pensione con i loro immensi patrimoni, stupore ed invidia del mondo. Eppure, essi dichiarano, a fine 2009, di non poter garantire il vecchio livello delle pensioni (fondamentale per il livello dei consumi USA) se non trovano una piccola somma di 2000 miliardi di dollari (poco meno del nostro PIL) che al momento manca150. Dire che la crisi bancaria e finanziaria è passata mi pare inconsistente di fronte a queste cifre: è accaduto che al posto del crack generalizzato che tutti temevano nel settembre-ottobre 2008, abbiamo un continuo stillicidio strisciante di fallimenti ed insolvenze sempre più difficili da affrontare. Il perché di ciò è facile da capire: l’economia di carta si regge sull’economia reale (piaccia o no ai monetaristi) e se questa è malata il contagio colpisce alle banche.

Più precisamente si è osservato che all’inizio della crisi le banche avevano prestato a famiglie ed imprese 25 mila miliardi di dollari, assistiti da una garanzia patrimoniale di 50 mila miliardi in beni reali, il cui valore per la crisi è calato a 30 mila miliardi151 la garanzia cioè è diventata insufficiente, se espropri case in massa, come è avvenuto in USA, e le vendi all’asta, i prezzi crollano e perdi una parte del capitale prestato, lo stesso dicasi per impianti industriali che, nel momento di crisi non vanno a ruba con industrie che lavorano in una situazione sottoutilizzo. Aumentano, dunque, titoli tossici e debiti in sofferenza mentre la crisi colpisce anche i redditi dei risparmiatori (piccoli, medi e Paperoni) e con essi la raccolta bancaria. Con i salvataggi tamponi la situazione ma non la risolvi, la politica di contenere gli effetti senza affrontare le cause è come svuotare una vasca con un secchio sfondato.

Per risolvere il problema devi affrontare i nodi strutturali sul tappeto e far ripartire l’economia reale, come si è visto, però, questo non è possibile152. Anche per quel che concerne le banche la politica di Obama è l’espressione di un impotente e di imponente fallimento per giunta molto costoso.

D) Il deficit ed il debito federale

IL tesoro USA certifica che al 13/11/2008 il debito federale è al 73,31% del PIL153, meno di un anno dopo il debito federale rasenta il 90%154. Ora è vero che nel 1945 a fine guerra il debito USA era al 121,2%, ma allora l’economia americana era il 50% di quella mondiale ed era in forte espansione. Adesso è al 20% o poco più ed annaspa. Ma non è tutto, al debito federale andrebbe aggiunto quello delle altre entità pubbliche (Stati, contee, municipalità) che già nel 2003 era il 40% del debito pubblico allargato155. Da allora la situazione si è incancrenita: nel mio precedente lavoro sulla crisi, pubblicato l’anno scorso, gli Stati in difficoltà finanziaria grave erano 28 oggi sono 48 ad un anno di distanza, guida la fila la grande California con un buco di 54 miliardi cui si è provveduto con una cura drastica, licenziamenti massicci di pubblici dipendenti senza un centesimo di liquidazione156, poi, siccome le carceri erano sovraffollate sono stati mandati a casa 10.000 detenuti, infine se chiami il 911 (il loro 113) il pronto intervento può arrivare dopo 8 ore per la mancanza di personale (polizia)157. Anche per le municipalità la situazione è nera: la grande e florida Chicago, fino a ieri sulla cresta dell’onda, è al limite della bancarotta158. A ottobre le finanze federali hanno incassato 135, 3 miliardi di dollari e ne hanno spesi 311,7 con uno sbilancio di 176 miliardi di dollari159. Dato congiunturale, ma non tanto nel senso che se da una parte non lotti contro l’evasione fiscale e dall’altra devi sostenere una economia che non decolla, uno sbilancio simile è normale. A dicembre, ci dice il Beige Book della Federal Reserve, che il debito pubblico è cresciuto nell’ultimo mese dell’anno di 91,8 miliardi di dollari. A ben vedere è un dato quasi ottimale poiché a gennaio 2010 viene presentato il bilancio previsionale per l’anno finanziario 2010/2011 che prevede un deficit di 1556 miliardi e cioè quasi 130 miliardi al mese. Si tratta di una cifra da brividi anche perché ad essa andrebbero aggiunti i debiti delle altre amministrazioni pubbliche per cui il debito pubblico allargato americano naviga ormai intorno ai 2 trilioni di dollari l’anno, e questo rende molto problematico l’obiettivo di contenere il deficit americano in 900 miliardi di dollari l’anno per il decennio 2010-2019, cifra enorme ma molto più ridotta di quella che si sta delineando. Il governo Obama auspica che dal 2014 la situazione migliori, ma si tratta di un auspicio platonico poiché viene collocato dopo la scadenza, e quindi l’operatività, dell’attuale amministrazione.

La situazione è resa anche più ingovernabile dal fatto che la ripresa americana del terzo trimestre 2009 è stata molto modesta, si è partiti da un 3,5% di incremento stimato rispetto al trimestre precedente, per passare poi al 2,8% e al 2,2%. La verità, lo rilevano molti osservatori, è che anche in una fase di crisi viene il momento in cui le imprese, vuotati gli scaffali, devono rinnovare le scorte e quindi acquistano, inoltre, la ripresina è sostenuta dagli interventi statali di cui l’economia americana non può fare a meno, come si evince dallo stesso bilancio previsionale del 2010/2011, che prevede un enorme deficit proprio perché il sistema non può privarsi delle stampelle.

Ben ha ragione il premio Nobel Krugman sostiene che l’economia americana ha bisogno di aiuti e di assistenza, tolti i quali si ricadrebbe nella crisi come avvenne nel 1937160, il guaio è che se mantieni gli aiuti il deficit esplode e si va verso la bancarotta, se li elimini l’economia crolla: è il classico dilemma cornuto. Inoltre il debito globale americano (debito federale, debito delle altre amministrazioni pubbliche, debito delle famiglie, e debito delle imprese) è enorme, assolutamente a livelli di record storico161 per cui la situazione si fa vieppiù ingovernabile.

E) Il debito globale americano

La situazione sopradescritta, come si diceva, va collegata alla crescita del debito globale interno americano che si presenta con i caratteri di un tumore in rapidissima espansione. La tabella che segue illustra la tendenza storica del debito interno americano nel lungo periodo.

Tabella n. 2 Debito globale interno USA162

Anni

%PIL

1870

142%

1875

156,4%

1916

170,4%

1929

190%

1933

299,8%

1945

180%

1980

170%

1990

240%

2000

288%

2003

306,2%

2008

358,2%

2009

380%

La media, elaborata per il periodo 1916-2008 da Hodges è del 194,9%163. Il picco del ventesimo secolo è il 1933 con un record che ha retto per giusto settant’anni, per poi essere infranto e polverizzato a partire dal 2003. E’ evidente che siamo a livelli senza precedenti anche rispetto al 1945, quando l’elevato deficit federale (121,2%) dovuto alla spesa bellica, era bilanciato dalla relativa tenuità delle altre voci del debito interno e dalla robusta impennata dell’economica americana. Tutto sembrava essere sotto controllo fino al 1980, quando arriva al potere Reagan con una campagna elettorale contro gli sprechi della spesa pubblica, e sotto cui il debito interno globale cresce e con esso quello federale (35,54% nel 1980, 50,99% nel 1988) ; negli anni ’90 il debito federale migliora un po’ nel periodo del “miracolo” di Clinton (64,13%, nel 1992 e 57,8% 2000) ma il debito globale interno si impenna: l’80% del monte debiti di 57 trilioni di dollari che grava sull’economia americana nel 2009 si è formato a partire dal 1990164, sicché idealmente ogni americano (bambini compresi esclusi gli animali domestici) vive con una cambiale ideale sulla testa di 186.717 dollari165. È bene precisare che questi dati non comprendono il volume dei c.d. derivati, che non si sa bene quanti siano in USA e nel mondo. Qui mi limiterò a ricordare che a fine 2008 due grandi istituzioni finanziarie sono dichiarate decotte sotto un peso di titoli derivati pari a 73.400 miliardi di dollari, 5 volte il PIL USA (come si è visto).

E qui si pongono alcuni problemi (enormi) nel senso che quando il governo USA si presenterà sul mercato finanziario americano per piazzare i suoi bonds, si troverà davanti ad una situazione concorrenziale spietata, i debitori che chiedono credito sono una massa enorme, o meglio enormi sono i loro debiti; ad esempio nel 2009 i paesi dell’euro hanno emesso 913 miliardi di euro di bonds che diventeranno 1005 (il 10% in più) nel 2010166, si tratta di 1500 miliardi di dollari, se aggiungiamo ad essi quelli di Stati Uniti, Giappone e Inghilterra la cifra supererebbe il raddoppio e poi ci sono gli altri paesi del mondo e i debiti delle imprese e delle famiglie che vengono in scadenza e che in larga misura andranno rinnovati. Una domanda enorme di capitali si riverserà sui mercati finanziari e questo renderà difficile tenere bassi i tassi di interesse167; si tenga presente che negli anni passati l’America ha importato ben 6500 miliardi di dollari per finanziare il proprio debito168.

In tutto questo la FED e il governo USA tengono bassi i tassi di interesse sperando di non essere costretti ad aumentarli, ciò che sarebbe disastroso. Data la situazione sopradescritta si consiglierebbe un pellegrinaggio a Lourdes.

E) Dollaro, bilancia commerciale, protezionismo

Geithner, sostengono alcuni, vuole un dollaro forte, e ciò è verosimile perché un dollaro forte attira capitali dall’estero, quei capitali necessari per finanziare il debito federale USA. Inoltre un dollaro debole esporrebbe le industrie USA in crisi epocale al rischio di essere acquistate dai concorrenti stranieri le cui monete siano in quel momento più forti o meno deboli del dollaro169. L’America però ha bisogno anche di un dollaro debole per sostenere l’esportazione e, per quella via, la produzione che langue. Si è calcolato che l’incremento dell’1% delle le esportazioni creerebbe 250 mila posti di lavoro170, asserzione su cui sono molto scettico, poiché, come si è visto, questo sistema è in grado di aumentare la produzione senza aumentare l’occupazione, inoltre in una fase in cui il tasso di inutilizzo degli impianti è assai elevato, basterebbe utilizzare in modo più intensivo la forza lavoro impiegata per aumentare la produzione senza nessun nuovo occupato; in altre parole questi calcoli esprimono più una speranza che non un’ipotesi reale.

È indubbio, tuttavia, che l’America debba produrre, e quindi esportare, di più; con l’attuale tasso di utilizzo degli impianti, 3 dollari su 10 di investimento sono inattivi, il che in termini economici è decisamente negativo. Qui, però si delineano altri dilemmi cornuti: un dollaro debole favorisce le esportazioni di merci ma scoraggia le importazioni di capitali, anche più necessarie delle esportazioni di merci nella situazione finanziaria americana; un dollaro debole fa infuriare i cinesi (e chiunque acquisti bonds del Tesoro USA) e fa concorrenza alle IM americane all’estero che sono, dal 1970 almeno, una grande potenza economica: non è interesse della IBM o dell’Apple (per fare solo un esempio) vendere i propri computers all’estero a basso prezzo facendo fallire le proprie filiali estere. Ancora: una valuta debole difficilmente può essere usata come valuta di riserva dalle banche di emissione operanti nel mondo e/o come valuta di riferimento nel commercio internazionale; se oggi questo avviene ancora è solo perché nessuna valuta ha una forza alternativa al dollaro, ciò non toglie nulla però, al fatto che il dollaro svolga sempre peggio la sua doppia funzione di valuta pregiata (di nome e non di fatto) e che i malumori degli alleati e partners crescano. Non meno paradossale è la situazione dell’America per quel che concerne il protezionismo: la clausola “buy american” infatti implica, tra l’altro, che le imprese USA siano favorite nell’assegnazione di appalti e commesse pubbliche, è accaduto così che la filiale di una multinazionale USA in Canada è stata discriminata perché era formalmente impresa di diritto canadese e utilizzava per giunta componenti ungheresi (la reproba)171. Per contro la Chrysler, acquistata dalla Fiat senza sborsare un dollaro è considerata impresa di diritto americano, per cui qualora concorresse ad una commessa pubblica, (ad es. automezzi per l’esercito) non sarebbe discriminata.

La verità è che le IM hanno una sola patria, il profitto, ciò che si vide chiaramente nella crisi del 1973 quanto le Sette sorelle (cinque delle quali USA) appoggiarono la spinta rialzista dei paesi produttori di petrolio, regalando agli USA e al mondo una pesantissima recessione industriale con milioni di disoccupati172. Ciò significa che in una economia multinazionalizzata clausole tipo “buy american” hanno poco senso. Ma non è tutto; le iniziative protezionistiche hanno un significato se è possibile sostituire le importazioni straniere con produzioni locali ma questo non può sempre avvenire; ad esempio le importazioni cinesi di beni a basso prezzo e pessima qualità, che inondano gli scaffali della Wall Mart, si rivolgono ad un pubblico di consumatori poveri che negli ultimi decenni è cresciuto in USA, e anche nel mondo, a causa della riduzione di salari e pensioni e dalla crescita della disoccupazione reale. Chi è costretto a comprare paccottiglia cinese non può acquistare i beni di qualità superiore, ma di prezzo per lui proibitivo, che sono prodotti nelle aree ricche. Certe soluzioni sono, dunque, di corto respiro e nascono dalla disperazione: un debito estero di 7000 miliardi di dollari ed uno sbilancio commerciale pari al 5,3% del PIL nel 2007 sono un problema enorme, ma la cura di Obama è inconsistente. Anche qui solo una ripresa reale dell’economia americana e della sua competitività risolverebbe il problema: un paese con elevati salari ed alta occupazione non comprerebbe la paccottiglia cinese, un’industria che lavorasse al 90% delle proprie capacità (invece dell’attuale 70%) sarebbe competitiva ed allora si avrebbe una bilancia commerciale solida ed un dollaro forte che attrae capitali. Ma non è così, e così non può essere per quanto si è detto. Non cambia il quadro complessivo qui descritto il recente annuncio di Obama di destinare 200 miliardi al sostengo dell’economia reale (PMI, energie alternative, consumi)173, la cifra pur essendo consistente è comunque enormemente inferiore a quelle destinate ai salvataggi bancari, ed è costituita proprio da un residuo inutilizzato delle somme destinate alle banche. È evidente che la coperta è corta nel senso che la crisi bancaria non è per nulla superata, come si è visto, e ad essa si è aggiunta quella dei fondi pensione, per cui destinare cifre accantonate per le banche ad altri settori dell’economia è un rischio rilevante poiché si bruciano le riserve e un settore del fronte rimane sguarnito. In altre parole gli incendi devastanti sono due (crisi bancaria e finanziaria e crisi dell’economia reale) e l’acqua per affrontarli entrambi non c’è, a parte ogni discorso sul come viene utilizzata l’acqua. Inoltre le spese per le energie alternative, sono certo utili, ma il dubbio che possano creare nuovi posti di lavoro174. Non c’è nulla, anche in queste più recenti posizioni che ricordi la politica aggressiva di Roosevelt contro la disoccupazione, una politica che stabilì massimi di orario al fine di imporre alle imprese di assumere nuovi lavoratori; oggi nelle condizioni mutate nel nostro tempo, col dilagare di un’occupazione precaria e parziale, comunque sottopagata, il corrispettivo di quella politica sarebbe vietare la sottoutilizzazione della forza lavoro, imponendo ad esempio che non si possa lavorare o meno di 35-36 ore settimanali (almeno come regola generale) con parità di salario orario e diritti sociali175. Non credo che questo basterebbe a risolvere i problemi enormi ed irrisolvibili che sono sul tappeto, ma sarebbe un tentativo nel solco di Roosevelt, ma nella politica di Obama non vi è nulla che si muove in questa direzione ma solo palliativi ed interventi tampone sugli effetti e non sulle cause.

 

4) La risposta europea, ovvero l’Europa che non c’è

La situazione dell’economia europea è in linea con quella dell’economia mondiale. La disoccupazione, a settembre 2009, è a 22,1 milioni di disoccupati nell’area euro, che diventano 23 milioni a fine anno, nel 2009 persi 4,3 milioni di posti di lavoro che diventeranno 7 milioni nel 2010176; il debito del consumatore assorbe il 93% del reddito disponibile nell’area euro (Banca d’Italia) le vendite al dettaglio calano del 3,6% nel settembre 2009 su settembre 2008 (Eurostat) nell’area euro e del 2,5% nell’UE; le banche europee accusano svalutazioni per 283 miliardi di euro177.

Anche qui il panorama è deprimente, l’Europa in quanto tale non esiste178, a parte qualche decina di miliardi di fondi europei messi a disposizione dei vari paesi, in genere per sostenere gli ammortizzatori sociali179, e qualche ideuzza inconsistente come quella di ricorrere alle riduzioni di orario per evitare i licenziamenti180. Falsa soluzione che consiste nel sopprimere la parola disoccupazione ma non la sua realtà. La proposta avrebbe un senso se all’orario ridotto corrispondesse un salario stabile (ma allora si proporrebbe il piccolo problema dei costi), in questo caso avremmo un sostengo ai consumi, sempre però operando dal lato degli effetti e non delle cause della disoccupazione. Ma così non è, poiché ad orario ridotto corrisponderebbe un salario ridotto, e quindi ci troviamo di fronte ad una soluzione di facciata. Se, infatti, un’azienda ha 40 dipendenti e deve licenziarne 10 si avrà, a parità di salario, una decurtazione del 25% del monte salari globale; se, invece l’impresa riduce del 25% l’orario e il salario, avremo l’identico risultato in termini salariali, con la differenza che nel primo caso una parte dei lavoratori licenziati potrebbe avere l’indennità di disoccupazione sia pure per un periodo di tempo limitato. In sostanza nel primo caso avremmo 30 occupati e 10 disoccupati e nel secondo caso 40 sottoccupati con identico monte salari: è evidente che la soluzione proposta non risolve nulla ma nasconde semplicemente il problema che consiste nel difendere contemporaneamente livelli di occupazione e di salario.

L’inconsistenza e l’impotenza dell’UE è altresì evidenziata dalla posizione assunta da commissario Barroso alla vigilia del G 20 di Londra, allorché egli ha illustrato la ricetta europea per uscire dalla crisi, una ricetta che si articola in 4 punti: a) incentivi e stimoli economici per contenere gli effetti della crisi; b) salvare le banche per restituire fiducia ai risparmiatori; c) rifiuto del protezionismo; d) necessità di un mondo più giusto e più equilibrato181. Banalità generiche e inconsistenti, se vuoi uscire dalla crisi devi identificarne le cause ed eliminarle e i primi due rimedi (si fa per dire) si muovono solo a livello di effetti, sono cioè misure tampone. Inoltre chi pagherà i conti dei salvataggi bancari in un mondo in cui l’evasione fiscale impazza? Se pagherà il lavoratore consumatore i consumi ed i redditi reali diminuiranno ancora con le conseguenze immaginabili.

Il protezionismo non è una soluzione certo, ma il liberismo selvaggio ha prodotto sfasci, forse si ipotizza un liberismo regolato, ma come e da chi? Ci vuole un mondo più giusto ed equilibrato, senza dubbio, ma che significa in concreto giusto ed equilibrato? Forse con meno disuguaglianza tra paesi, ma questo implicherebbe un trasferimento di ricchezza dalle aree ricche a quelle povere, posto che lo sviluppo richiede capitali e non fichi secchi ed i capitali scarseggiano nelle aree povere e adesso anche in quelle ricche, dove l’indebitamento pubblico e privato è a livelli record.

Banalità al vento ed impotenza totale. Il guaio è che nell’UE come in USA i salvataggi bancari assorbono risorse enormi e poco o nulla rimane per l’economia reale (non parliamo di aiuti seri al terzo mondo). La BCE rileva a tal proposito che il 12% delle richieste di credito delle PMI sono bocciate totalmente, il 77% parzialmente e solo l’11% sono accolte182. D’altra parte le banche sono ben lungi dall’essere fuori dal guado, come denuncia il dato sulla svalutazione prima citato, ed i 1800 miliardi messi sul tavolo il 12/10/ 08 dai governanti europei a Parigi non bastano: la Merkel che ne aveva sborsati 500, ne metterà sul piatto altri 230 nel luglio 2009183. Dopo qualche mese (ottobre 2009) il governo tedesco vara un piano di sostegno ai consumi : tagli fiscali per 24 miliardi di euro a sostengo delle famiglie: la quota esente dalla tassa sul reddito passerà da 6024 € a 8000 € nel 2012, gli assegni familiari cresceranno di 20 € nel 2012 (da 164 a 184 €) ed il costo della manovra sarà in buona parte finanziato aumentando i contributi per la cassa malattia dei lavoratori184. Briciole e spiccioli in rapporti ai salvataggi bancari, per di più pagate in parte dagli stessi lavoratori. Un altro punto su cui l’Europa è quanto mai carente, è quello del crescente conflitto tra le aree di capitalismo antico e quelle di capitalismo straccione nato dalle rovine del collettivismo burocratico sovietico. Questi paesi hanno delle economie deboli e non aderiscono all’euro, sono stati altresì invasi dalle banche dell’Europa occidentale (italiane, austriache e svedesi in particolare) che hanno concesso loro molti crediti ma rimborsabili in euro. Siccome le monete orientali si sono svalutate in rapporto all’euro si è creata una situazione pesantissima con paesi, l’Ungheria ad esempio185, sull’orlo della bancarotta, ciò che ha fatto dire al presidente ceco che l’euro è come i carri armati sovietici. Anche qui potrebbero, in teoria, operarsi dei salvataggi, ma lo ripeto il salvataggio è un tampone che assorbe gli effetti senza intaccare le cause, con il che non voglio dire che non bisogna operarli ma che occorre contestualmente affrontare le cause, altrimenti di lì a poco il problema si riproporrà. E la causa di tutto è l’esistenza di un divario strutturale molto consistente tra le diverse aree europee, che si potrebbe superare solo con un forte travaso di ricchezza, a vantaggio delle aree deboli (ammesso e non concesso che questo sia possibile nel capitalismo). Ciò non sta avvenendo anzi si sta verificando il contrario e l’unico strumento di lotta agli squilibri regionali di cui dispone all’UE (il fondo regionale) è inadeguato per quantità di risorse e per qualità di politica, un fallimento pluridecennale186.

 

5) La risposta italiana: galleggiare sulla crisi in attesa del miracolo ripresa.

Il bilancio dell’economia italiana a fine 2009 rasenta il disastro: osserva Spaventa che il nostro PIL è retrocesso a livello del 2001, la produzione industriale di 20 anni (25 per Bankitalia) l’occupazione cala e per oltre 1/3 del lavoro dipendente è occupazione precaria e parziale “usa e getta”, senza alcuna prospettiva per il futuro187. A tal proposito alcuni autorevoli esponenti della Confindustria, non accogliendo l’invito governativo all’ottimismo e al “pensa positivo”, invitano i giovani a fare la valigia188. Ciliegina sulla torta un deficit che naviga oltre il 5% (rapporto deficit-PIL) mentre il debito pubblico a fine 2009 è del 115,1% del PIL. Davanti ad un simile quadro che di mese in mese si deteriore il governo risponde a fine 2008 con iniziative ridicole quali la “social card” miseramente fallita189. Nel corso del 2009 si comprende che occorre fare qualcosa di più e, a varie riprese il governo mette sul piatto 2 miliardi per incentivi al consumo (auto in particolare) 9 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 12-13 miliardi per i Tremonti bonds, 16 miliardi per opere pubbliche, in totale 40-45 miliardi cui, secondo Berlusconi, andrebbero aggiunti altri 40 miliardi di fondi europei190 cifra a dir poco sibillina: l’UE ha stanziato contro la crisi 30 miliardi per tutta l’Europa191, e sembra difficile che l’Italia da sola ne abbia 40.

Analizziamo adesso punto per punto l’azione del governo.

A) Difesa dell’occupazione

A fine 2008 la disoccupazione ufficiale era al 7,1%, a fine 2009 è all’8,5%, ma secondo Bankitalia, che corregge l’Istat, sarebbe al 10%192 . Il governo incredibilmente mena un grande vanto per questi dati: l’Europa sta peggio e la Spagna è al 19,3%, non possono darsi il Nobel per l’economia ma è chiaro che pensano di meritarlo. Il fatto è che converrebbe cambiare la nostra posizione con quella dei partners europei che stanno peggio, avendo più disoccupati, epperò a ben vedere stanno meglio perché hanno più occupati: nella media europea le persone occupate in età da lavoro sono il 65% del totale, mentre da noi siamo al 56,5%193. L’arcano (stanno meglio quelli che stanno peggio) si spiega con un fatto molto semplice: tutte le statistiche mentono sulla disoccupazione194, ma le nostre mentono di più, limitandosi a chiamare quelli che non lavorano in modo diverso, non disoccupati ma inoccupati o inattivi; questi ultimi in Italia sono 15 milioni, una cifra assurda molto più alta della media europea come si è visto. Sintomatico è il dato sulle donne, 9,6 milioni di inoccupate, quasi il 2/3 del totale.

Ora delle due l’una: o si ritiene che le donne italiane siano, per motivi sessuali o razziali, refrattarie al lavoro (e la cosa non avrebbe alcun fondamento scientifico) o si ritiene che esse non cerchino lavoro perché non ce n’è (quand’anche lo cercassero non lo troverebbero perché è carente). Un argomento formidabile in tal senso viene da un paese europeo come la Danimarca dove il tasso di occupazione delle donne è del 73,4% 195, in altre parole dove il lavoro non c’è le donne sono occupate in ragione di una su due o meno, dove il lavoro esiste sono impiegate tre donne su quattro.

Certo tra gli inattivi ci saranno dei rentiers, ma l’Italia non è un paese di rentiers (nessuno lo è), e ci sono, nella fascia 14-24 anni, un certo numero di persone che non lavora per continuare gli studi, ma sono chiaramente una minoranza, rimane, dunque il grosso di questi 15 milioni di inattivi, molti dei quali sono dei lavoratori scoraggiati che un tempo cercavano lavoro e adesso non lo cercano più, chiamarli inattivi, o inoccupati invece di disoccupati è una soluzione squallida che serve solo a mascherare l’impotenza del governo. Tenendo conto delle cifre finora fornite, in Italia ci sono oltre 3 milioni di scoraggiati e cioè oltre 50 mila per milione di abitanti, in USA sono 9 milioni su 300 milioni di abitanti e cioè 30 mila per ogni milione. A questi vanno aggiunti anche i lavoratori a tempo parziale e precari, che Spaventa chiama lavoratori “usa e getta” senza speranze e senza prospettive, per cui la situazione occupazionale da noi è del tutto simile a quella dei paesi industriali avanzati, e, cioè, semplicemente disastrosa. Davanti a questo disastro il governo si è mosso solo sul terreno degli ammortizzatori sociali, che tamponano alcuni effetti della disoccupazione ma non ne colpiscono le cause: un cassintegrato nelle migliore delle ipotesi guadagna, per un periodo di tempo limitato, l’80% dell’ultimo salario, il che significa una perdita salariale nella situazione italiana di 2, 3 miliardi di euro196; inoltre, una larga parte dei lavoratori italiani non ha neanche gli ammortizzatori sociali.197

B) Lotta all’evasione fiscale

Il dottor Lapiccerella, alto dirigente del MIFE, stima il volume di tasse evase in Italia a 200 miliardi di euro198. Cifre da capogiro, che però non meravigliano: da anni il reddito occultato è valutato ad 1/3 della ricchezza prodotta, cui corrisponde un volume di tasse evase pari al 13-15% del reddito nazionale199. Lo stesso giornale della Confindustria ha dovuto ammettere, tre anni or sono, che il PIL sommerso rappresenta da solo il 15-17% del PIL200. Altri stimano a 550 miliardi di euro i capitali italiani giacenti nei paradisi fiscali201, ma ancora una volta ricordo che la cifra dà solo una pallida idea dell’evasione totale, perché questi capitali vanno e vengono nei e dai paradisi fiscali, il ricambio è continuo. Il governo sembra menare gran vanto dei 7,5 miliardi recuperati nel 2009202, e cioè lo 0,5 del PIL più o meno, una miseria. Ma il senso della lotta all’evasione è dato dal recente provvedimento sullo scudo fiscale, che sana le violazioni ed i reati fiscali con il pagamento del 5% del capitale reimportato dai paradisi fiscali al posto del 60% e più che si doveva pagare203. L’evasore sa, ancora una volta, che non pagare rende poiché prima o poi arriva una sanatoria (lo scudo è questo anche se non viene usata una parola usurata e screditata) e con pochissimo (il 5% che diventa il 6 e poi il 7% nella proroga) si mette tutto a posto. Un vero e proprio invito all’evasione contro cui non vale obiettare che con esso si immette nel sistema un volume di capitali importante, anche perché col regime liberalizzato del movimento dei capitali e col carattere multinazionale del sistema bancario è molto facile riesportare i capitali rimpatriati.

Ma la verità sulla lotta dell’evasione fiscale del governo si trova in alcuni dati pubblicati nella primavera del 2009 dal Comune di Roma sugli evasori dell’ICI: Ministero Interni 6,8 milioni, Ministero Trasporti 6,1 milioni, Ministero Comunicazione 3,8 milioni, Ministero Difesa 3,766 milioni, Ministero Economia (che dovrebbe farla la lotta all’evasione) 3,710 milioni, Ministero Istruzione 1,036 milioni, Ministero Beni Culturali 169.400 euro, Presidenza del Consiglio 124.962 euro204.

Non credo che occorrano commenti: se chi dovrebbe lottare contro l’evasione è in testa tra i contribuenti insolventi le conclusioni sono fin troppo ovvie. Un ultima considerazione va fatta in rapporto ad una presa di posizione in materia del signor Bruno Vascellari, presidente degli industriali di Belluno, che ha asserito che bisogna finirla con la caccia all’evasore, che contrasta con “lo spirito dei tempi” e la crisi in atto205. La sincerità del signor Vascellari è ammirevole, egli dice quello che molti industriali pensano: la crisi esige che i profitti siano ricostituiti e, quindi, niente tasse. Il fatto è, però che se migliaia di PMI stanno fallendo, il volume delle evasioni e dei capitali all’estero (anche di quello rimpatriati con lo scudo) sta a significare che dei profitti continuano a farsi nella crisi ed anche a volte grazie alla crisi206. Inoltre qualcuno le tasse dovrà pagarle e se le pagano i soli noti (lavoratori e pensionati) i consumi caleranno ulteriormente e l’economia crollerà anche sulla testa del signor Vascellari e di quelli che la pensano come lui; comunque non temano i Vascellari e quelli che in Confindustria la pensano come loro, la lotta agli evasori non finirà, per un motivo molto semplice: non è mai cominciata; il guaio è che, se ne renda o meno conto la Confindustria, il livello di ingovernabilità del sistema, a causa delle sue crescenti disuguaglianze è divenuto insostenibile, anche se i Vascellari di turno non sembrano rendersi conto che il vascello sta affondando.

In sintesi il governo non fa nulla, o pochissimo contro l’evasione fiscale, il debito e il deficit si impennano e la riforma fiscale che riduca il peso delle imposte sul lavoro dipendente, promessa dal 1994, non si fa e quindi le tasse continuano a pagarle i soliti noti, l’economia e il consumi sono vicini al coma, e ci avviamo verso il baratro nella più incompleta incoscienza mentre bande di nani e ballerine danzano sul ritmo della canzone “Il governo del fare”.

C) Incentivi auto

Il governo, a inizio 2009 ripropone il vecchio metodo, usato anche negli anni ’90: incentivi fiscali alla rottamazione per rinnovare i parco auto e sostenere il settore che nel 2008 scivola verso la caduta libera. Faticosamente c’è una certa ripresina, ma solo nel senso che rimaniamo sul pavimento della crisi, a fine anno le immatricolazioni sono calate dello 0,2 in Italia e dell’1,6% in Europa, dove si sono adottati sistemi simili207. Siamo rimasti fermi al 2008 anno in cui esplode la crisi, il Ministro Scajola osserva che gli incentivi servono solo a drogare il mercato208; ma il momento della verità si ha inizio 2010 quando la Fiat accusa una perdita netta su base annua di 848 milioni di euro, infatti, se l’auto tiene con le stampelle, gli altri settori, dai camion alle macchine agricole, sono in ginocchio; peraltro anche se l’auto tiene rispetto al 2009 poiché le immatricolazioni a gennaio 2010 su gennaio 2009 sono cresciute del 30,2%, ciò avviene solo perché il termine di paragone è sottomarino, rispetto al gennaio 2008 il calo è dell’11,7%, che diventa del 17,6% su gennaio 2007. Com’era prevedibile gli incentivi sono solo una stampella che tampona momentaneamente alcuni effetti della crisi (neanche tutti) senza avere nulla di risolutivo.

D) Sostegno ai consumi e ai salari

I consumi sono in una situazione comatosa in Italia: dal 2000 al 2008 crescono dello 0,5 l’anno per poi calare nel 2009 (Confcommercio), i consumi di energia elettrica, altamente significativi, calano del 6,7% nel 2009 (fonte Terna) un calo simile si è avuto solo nel 1945 in un paese devastato dalla guerra. L’Istat inoltre evidenzia come i redditi reali siano calati in termini monetari dell’1%, siccome però i prezzi sono cresciuti dello 0,8% la perdita di potere d’acquisto è stata dell’1,6%209. Inoltre i nostri salari sono fermi dal 1993 e sono il 22% al disotto della media OCSE210; Bankitalia rileva a fine 2009 che i redditi delle famiglie ristagnano da “un quindicennio” ciò che non trova riscontro nell’area euro. Nella stessa area i prezzi sono cresciuti del 27,4% dal 1996 al 2008 contro il 32% dell’Italia211. Non meno pesante è il discorso sul carico fiscale: in Francia una famiglia monoreddito con 30.000 euro l’anno paga 348 euro di tassa sul reddito contro i 5010 di una famiglia italiana (14 volte di più), per un reddito di 55 mila euro in Francia si pagano 2988 euro e in Italia 15.989 (oltre 5 volte di più)212. Un salasso enorme che non è certo compensato con le imposte indirette il cui peso si scarica in genere sui prezzi, che da noi crescono più che della media dell’Eurozona. A ciò si aggiunga la mancata restituzione del fiscal drag che solo nel 2008 ha significato la perdita di 362 € a lavoratore213, e la cosa avviene normalmente ogni anno.

Ma la situazione dei redditi da lavoro e dei consumi italiani è molto più precaria di quanto dicono questi dati: la verità è che per mantenere consumi stagnanti le famiglie dei lavoratori hanno dovuto indebitarsi in modo crescente, perché i debiti delle famiglie (mutui e rate varie) passano dal 31% del reddito disponibile nel 2002 al 58% nel 2008214, molto meno che del resto d’Europa, come si è visto, ma il fatto è che da noi la situazione è peggiore della media UE, salari fermi e sottomedia, prezzi che crescono di più, tasse oppressive (sul lavoro e sulle famiglie naturalmente) per cui famiglie e lavoratori hanno difficoltà anche a far debiti perché per far debiti devi trovare credito e fornire garanzie, ora si dà il caso che il 50% delle famiglie italiane non arrivi a 26 mila euro di reddito l’anno (naturalmente lordi e tassati) e che il 53% delle stesse non riesce a risparmiare alcunché, nel 1984 (anno non proprio brillante economicamente) la percentuale delle famiglie “non risparmianti” era solo del 6,2%215, in 25 anni la crescita del fenomeno subisce un’accelerazione brutale. Ancora: un’indagine condotta dalla Federconsumatori presso i Tribunali civili attesta che nel 2009 le vendite all’asta di case salgono del 15,2% il che significa 130 mila case vendute all’asta216. Davanti a questo quadro, veramente desolante, occorrerebbe un intervento drastico di sostegno ai redditi e ai consumi di famiglie e di lavoratori. La risposta è stata la social card miseramente fallita217, oppure gli incentivi auto volti a sostenere molto più la Fiat e non i consumatori, oppure gli ammortizzatore sociali che hanno solo contenuto molto parzialmente alcuni effetti della crisi. Una politica miserabile rispetto ai problemi sul tappeto opera di una classe dirigente assolutamente in tilt davanti ad una crisi epocale di cui non riesce a capire le cause, anzi non si pone minimamente il problema di tali cause. Per tentare di affrontare una crisi di queste dimensioni ci vorrebbe ben altro (qui il “benaltrismo” è d’obbligo) e cioè una tassazione dei redditi di lavoro alla francese, la restituzione del fiscal drag, la lotta senza tentennamento alcuno contro ogni forma di lavoro precario, parziale e clandestino, il ripristino della scala mobile, che venne abolita in Italia per lottare contro l’inflazione con risultato che abbiamo avuto più inflazione, rispetto alla media europea, e redditi da lavoro pesantemente tagliati218. Molti direbbero che questo è massimalismo, ma in realtà è solo realismo: se i problemi sono enormi non li puoi affrontare con soluzioni minimaliste e moderate: la moderazione non è un pregio in sé, un medico che curi la cancrena con gli impacchi di senape sarà un moderato ma è innanzitutto un imbecille ed un potenziale assassino. Peraltro la politica che io ipotizzo non è affatto una politica socialista e non è la mia politica, io dico semplicemente che chi vuol salvare il capitalismo e vuol essere realista deve affrontare problemi incancreniti e “metastasizzati” col bisturi e non con l’aspirina, solo così è ipotizzabile oggi un tentativo di salvezza del sistema, nel quale, sia chiaro io non credo, ma io sono un intellettuale radicale e anticapitalista, mentre chi governa ha il dovere dal suo punto di vista di salvare questo sistema, per cui se gioca oggi a fare il “moderato” l’unica conseguenza sarà l’aggravarsi della crisi del sistema stesso.

E) La politica bancaria

Nell’ottobre 2008 mentre i principali paesi UE mettono sul piatto della bilancia 1800 miliardi di euro, per salvare le banche, il governo italiano dichiara che interverrà solo se e quando sarà necessario. Ad inizio 2009 il nostro governo prende due iniziative miserande: 12-13 miliardi per i c.d. Tremonti bonds, con cui si dovrebbero fornire alle banche risorse finanziarie per alimentare il credito, e inoltre 1,6 miliardi per rifinanziare il fondo di garanzia per il credito alle PMI. Rispetto agli altri governi europei è nulla e la cosa come al solito viene giustificata col fatto che le nostre banche sono più solide delle altre, leggenda che fa il pari con quella che da noi la disoccupazione è più bassa o con quella che “l’Italia regge meglio alla crisi”.

In realtà la situazione è ben diversa: Alessandro Penati ha evidenziato che il mercato considera “tossici” il 70% dei titoli detenuti dalle nostre banche e per le 4 banche maggiori la percentuale è anche più elevata219. Più o meno nello stesso periodo il “Financial Times” pubblica una tabella sull’esposizione delle banche italiane verso i paesi Est-europei che, Russia in testa, sono alle prese con grossi problemi finanziari, l’esposizione supera i 500 miliardi di dollari220. A fine anno l’ABI ammette che gli utili delle banche italiane sono calati del 45% nel 2009221.

La solidità delle nostre banche è un’altra leggenda assolutamente propagandistica; il vuoto della politica è sostituito da un ottimismo di maniera che rasenta il ridicolo222.

Per ciò che attiene le decisioni “concrete” prese dal governo, c’è chi esprime pesanti perplessità sui Tremonti bonds, anche nell’area dei simpatizzanti del governo stesso: un lettore di “Libero” scrive una lettera per far rilevare l’alto tasso delle obbligazioni tremontiane (attorno all’8%), il cui costo sarà fatto ricadere sui clienti e sui debitori delle banche. Replicherà il Ministro osservando che i suoi bonds produrranno un volume di credito pari a 120-150 miliardi di euro e cioè il 10% o quasi del PIL annuo, e ciò grazie al c.d. moltiplicatore bancario: è noto che le banche possono erogare 10 euro di crediti per ogni euro che ricevono223. È questo uno dei tanti casi di “disinvoltura moltiplicatoria” di cui è piena la nostra letteratura economica, dove spesso il moltiplicatore diventa il miracolo di S. Gennaro (o anche la moltiplicazione dei pani e dei pesci di Gesù Cristo). Innanzitutto l’effetto moltiplicatore è come una catena di S. Antonio (sempre per rimanere in tema di santi) che non si deve spezzare e, soprattutto richiede tempi spesso lunghi e superiori all’anno (Tremonti prende come parametro il PIL annuo). Esemplifico: se presti un euro a breve (4 mesi), e poi alla scadenza lo presti di nuovo, ci vorrano 4 anni per ottenere un volume 12 volte superiore al capitale originario, se il prestito è a lungo termine ci vorrà un periodo di tempo superiore; inoltre non ci devono essere interruzioni nella catena poiché se c’è l’insolvenza di uno dei debitori la catena si interrompe, e questo rischio aumenta nei momenti di crisi come quello attuale.

Non abbiamo potuto, tuttavia, vedere all’opera i Tremonti bonds (non almeno nella misura voluta dal Ministro) perché le banche, dando ragione al lettore di “Libero” li hanno snobbati potendo emettere proprie obbligazioni a tassi più bassi224. Rimane il fondo di garanzia per le PMI che a fine 2009 ha prodotto, secondo il Ministero di Scajola, 4, 5 miliardi di euro di credito225, un effetto moltiplicatore di tre volte circa, molto meno di quanto alcuni ipotizzassero (70 miliardi di credito)226 e meno della metà del danno (10 miliardi di euro) che, secondo la CGIA di Mestre, lo Stato produce alle PMI con i suoi ritardati pagamenti227; è questo uno dei punti dolenti che la Confindustria sottopone periodicamente al governo, sicché non meraviglia se nel corso del 2009 il responsabile delle PMI della Confindustria sostenga che un milione di esse sia a rischio chiusura228 anche perché il 78% del credito va al 10% delle imprese (le più grandi) e le PMI si trovano pressoché a secco229. La verità è, come si è visto negli USA, che in una situazione di crescente difficoltà economica aumenta per le banche il rischio di insolvenza dei propri debitori, e si riduce la capacità di raccolta perché il risparmio scarseggia, sicché ne fanno le spese le imprese meno solide economicamente e con poche garanzie patrimoniali da offrire. Da questa situazione si esce con la ripresa economica (ove essa sia possibile e per noi non lo è) in attesa di questa il nostro governo non fa nulla, né per aiutare le banche né per aiutare l’economica reale, e in questo è senza dubbio imparziale.

F) Lavori pubblici, piano casa, energia

In tema di lavori pubblici il governo stanzia 16 miliardi, epperò mentre scrivo siamo in attesa di vedere l’apertura dei cantieri. In questi casi si tirano in ballo le inefficienze e le lungaggini burocratiche, tuttavia nessun governo può comportarsi come se fosse l’opposizione, che può ben criticare l’inefficienza della PA di cui appunto è responsabile il governo. Inoltre 16 miliardi possono essere molti o pochi a seconda di come sono utilizzati: se il meccanismo è quello del capitalismo attuale, altamente capital intensive, 16 miliardi o 100 non producono occupazione o quasi; nel frattempo il Presidente dell’ANCE ci fa sapere che nel settore costruzioni sono a rischio 250 mila posti di lavoro230. Quanto al piano casa, varato ad inizio 2009, con il quale si autorizzano i privati a compiere lavori di ampliamento di unità immobiliari preesistenti, l’ANCE stima possibile un giro di affari pari a 60 miliardi, a partire però dalla seconda metà del 2010, quando i piani regionali diventeranno operativi (si spera)231. In attesa che ciò diventi realtà mi pare che 60 miliardi, in un momento in cui i consumi sono in calo e il credito razionato, siano più una speranza che un’ipotesi realistica. Comunque siamo davanti ad una invenzione estemporanea, che non si sa quanto produrrà in termini occupazionali e che serve solo a dare una boccata di ossigeno allo zoppicante settore edilizio, per ora solo a livello di effetto annuncio. Sull’energia il governo compie una fuga in avanti: i prezzi del petrolio esplodono (estate 2008) e, quindi, occorre rilanciare le centrali nucleari (secondo il governo), la cui costruzione inizierà nel 2013 e nel 2020 vedremo le prime centrali operative. Quanti posti di lavoro creeranno? Non si sa. Come saranno finanziate? È un problema232. Dove si faranno? Mistero, si sa solo che nessuno le vuole233. La stessa Euratom (l’agenzia generale per l’atomo europea) rilascia un comunicato con cui dice che le centrali devono essere estremamente sicure e solo così si potrà avere il consenso delle popolazioni coinvolte234, sottinteso adesso non è così e nessuno le vuole.

Nel frattempo l’agenzia che dovrebbe essere preposta alla sicurezza delle centrali non decolla per i conflitti tra Tremonti e Scajola235. Inoltre i prezzi del petrolio sono lontanissimi dai picchi dell’estate 2008 (oltre 140 dollari al barile) e non si capisce quindi quali siano i parametri di economicità della iniziativa proposta, nata in alternativa ad una energia da petrolio troppo costosa. Nel complesso l’attività del governo sembra oscillare tra misure tampone, effetti annuncio, iniziative abortite (Tremonti bonds) o di limitatissimo impatto (social card fondo di garanzia per le PMI) e promesse fatte e subito rimangiate come l’ipotesi di ridurre a due le aliquote IRPEF236.

Di affrontare un discorso sulle cause lontane della crisi non se ne parla, eppure qualcuno dovrebbe pur chiedersi perché da oltre 30 anni i redditi di lavoro sono in caduta libera, sicché gli italiani non possono neanche indebitarsi a livello degli altri europei (pur essendo indebitati e non poco) perché crescono gli inoccupati (chiamiamoli così), e l’evasione fiscale è un bubbone sempre più purulento come il lavoro nero etc. Si glissa su tutto e si tira a campare, galleggiando sulla crisi in attesa della ripresa-Godot che ci salverà tutti . Ma questa critica non vale solo per il governo ma anche per l’opposizione, i sindacati e la Confindustria, che si lamentano col governo per il suo immobilismo, ma non chiedono altro che un po’ più di soldi per gli ammortizzatori sociali, per le famiglie e per le imprese: contro la crisi non un’aspirina ma due aspirine. Così un industriale come Della Valle chiede di ridurre le tasse su profitti e lavoro237, senza spiegare come finanziare la riforma con un debito pubblico al 115% e lo stesso vale per gli altri238; certo si potrebbe condurre una lotta a fondo contro l’evasione fiscale, e sarebbe giustissimo, ma ciò causerebbe la rivolta dei “Vascellari” e la conseguente fuga dei capitali all’estero, non che questo non andrebbe fatto ma dubito che il governo, come l’opposizione, voglia un simile confronto. Più volte poi la signora Marcegaglia ha chiesto l’elevazione dell’età pensionabile e l’accelerazione dei pagamenti alle PMI nonché dell’apertura dei cantieri. Ora per le pensioni le iniziative proposte mirano a ridurre il peso delle stesse come percentuale del PIL, alcuni auspicano, quasi con compiacimento, che nel 2054 le pensioni corrisponderanno al 35% dell’ultimo salario239. Meraviglioso: potremo allora chiudere l’80% dei negozi diversi dalle panetterie, ed il capitalismo avrà una ripresa veramente spettacolare. La verità è che le pensioni non sono un peso, ma sono un sostegno ai consumi per cui se le tagli, tagli i consumi e lo sviluppo economico; succede anzi che si fa un taglio alle pensioni, l’economia rallenta e diventa difficile pagarle e allora si fa un nuovo taglio e così via in un circolo vizioso del tipo cane che si morde la coda: la vicenda italiana dal 1992 in poi è emblematica, non passa anno che non si parli di aumento dell’età pensionabile, di estensione del contributivo, di equiparazione donna-uomo etc., tutti pretesti per tagliare le pensioni in un balletto assurdo, in un circolo vizioso senza uscita. Accelerare i pagamenti o l’apertura dei cantieri è senza dubbio giusto ma non risolve la crisi poiché sono in crisi anche governi e strutture amministrative molto più efficienti delle nostre, dalla Francia, alla Germania agli Stati Uniti; anche qui il discorso riguarda effetti collaterali ma non i nodi strutturali. Ancora. Si ripete la noiosa giaculatoria delle riforme necessarie per uscire dalla crisi. Quali riforme? Il processo breve e la separazione delle carriere dei giudici? Da ridere. Il federalismo e in maniera particolare quello fiscale? Ci si dimentica che due tra i più grandi paesi capitalistici (USA e Germania) sono federalisti e sono in crisi. La riforma fiscale? Assolutamente necessaria, ma implica una lotta a fondo all’evasione fiscale che nessuno è intenzionato a fare seriamente e che nessun governo negli ultimi decenni ha mai veramente fatto. In realtà ci troviamo davanti a chiacchiere da disperati che nascondono il vuoto più totale, un vuoto che accomuna tutti, governo, opposizione, sindacati, Confindustria. Tutta la classe dominante in realtà attende, come gli attori di Beckett, l’arrivo della ripresa-Godot. Faranno presumibilmente la fine degli attori di Beckett che alla fine della rappresentazione erano ancora in attesa di Godot.

 

6) Cina e India: la fine del capitalismo straccione. Giappone: l’impossibile exit strategy

Se in occidente si piange in oriente non si ride. Ovviamente c’è chi si consola del disastro occidentale col fatto che in Cina ed in India la crescita del PIL è stata ancora positiva nel corso del 2009 alcuni rilevano che la Cina “esce a galoppo” dalla crisi”240, ma se si tratta di galoppo ritengo che sia il galoppo di un ronzino asmatico.

Per capire meglio cosa voglio dire occorrerà dare un’occhiata all’andamento del PIL cinese che cresce (dati “Economist”) al ritmo medio del 10,5% nel decennio 1996/2006, per poi balzare all’11,5% nel 2007 (8,3% nel 2001 all’inizio del miracolo), nel 2008 siamo al 9% e nel 2009 all’8,7%, le previsioni FMI di fine anno parlano di un 8,5%-9% nel 2010.

Apparentemente siamo molto al disopra dei livelli occidentali, ma occorre considerare che, a inizio 2009, dirigenti dell’economia cinese hanno ammesso che con una crescita del 7% si sarebbero ritenuti in “recessione tecnica”241, ovviamente ciò che dicono i dirigenti cinesi non va preso per oro colato (come quello che dicono Tremonti o Bernanke del resto), ma in questo caso si tratta di una posizione accettabile: la Cina, con un PIL procapite di 2430 $ nel 2007, al picco dello sviluppo, è condannata a correre e “se non corre crolla”, come ho sostenuto poco tempo fa242; infatti con un PIL procapite che cresce dell’1% gli USA crescono di 450 $ l’anno (riferimento al PIL del 2007), mentre la Cina col 7% crescerebbe di circa 170$ l’anno, come si vede i tassi di sviluppo di un paese povero non possono essere quelli di un paese ricco. Inoltre in un paese avanzato l’agricoltura non può garantire redditi elevati ad una grande massa di lavoratori sicché nel settore lavora il 4% della forza lavoro, in Italia o il 2% in USA e a volte anche meno; in Cina nel 2007 era impegnato in agricoltura il 41% della forza lavoro, una cifra da Inghilterra, ma del XVIII secolo243. Alcuni rilevano che in Cina sono emigrati dalla campagna alla città negli ultimi anni qualcosa come 225 milioni di contadini244, e qui ho la sensazione che quando si parli della Cina “si diano i numeri”, nel senso che si dà a questa espressione a Napoli. Infatti secondo le stime ILO dal 1999 al 2007 (in otto anni) la forza lavoro occupata in Cina passa da 713,9 milioni a 769,9 milioni245, il che vuol dire che gli addetti all’agricoltura passano da 357 milioni nel 1999 (50% della forza lavoro) a 316 milioni circa nel 2007 con un calo globale di 46 milioni ed uno medio annuo di 5,75 milioni.

Questo significa che per raggiungere il livello italiano la Cina dovrà impiegare circa mezzo secolo a parità di condizioni; il fatto è che però la forza lavoro e la popolazione agricola sono, secondo gli stessi demografi cinesi, sottovalutate in quanto nelle campagne cinesi ci sarebbe una popolazione nascosta di 200 milioni di persone (120 in età da lavoro), ciò perché la legge assai severa, che imponeva il figlio unico, è stata evasa dai contadini nascondendo i figli in esubero e corrompendo i funzionari del partito246. Considerando questo dato alla Cina, per raggiungere l’Italia, sarebbero necessari almeno 70 anni, nel frattempo però la forza lavoro globale crescerebbe: la media del periodo 1999-2007 è stata dello 0,8% l’anno, anche considerando un calo allo 0,5% l’anno (dato ottimistico per un paese povero come la Cina) i tempi si dilaterebbero e arriveremmo al secolo e cioè ad una dimensione biblica.

Tuttavia per ottenere un simile risultato occorrerebbero, a livello secolare, tassi di sviluppo elevatissimi, è sintomatico il caso della vicina India che ha avuto nel periodo 1996-2006 un tasso medio del 7,9% il che ha impedito a quel paese di ridurre la consistenza della forza lavoro impiegata nella campagne che si aggira ancora oggi intorno al 60%247.

Un paese con le dimensioni demografiche e la struttura economica simile alla Cina non riesce a ridurre la percentuale della forza lavoro agricola con tassi vicinissimi all’8%, che poi è il tasso di sviluppo ipotizzato dal governo cinese per il 2010248; appare problematico allora che la Cina, con tassi di sviluppo vicini a quella dell’India, possa ridurre in modo consistente la sua popolazione agricola che vive in una situazione premoderna.

Ma non basta. Nel corso del 2008/2009 riesplode il fenomeno disoccupazione: si parla di 20 milioni di disoccupati che in parte tornano nelle campagne e in parte vanno ad accrescere il sottoproletariato degli slums cittadini249. Alcuni giornalisti occidentali riferiscono la testimonianza del responsabile di un distretto industriale di Canton che parla di un milione di disoccupati nel suo distretto (nel raggio di 8 km) e di altrettanti nel distretto limitrofo250. Si dirà che sono esagerazioni ma non è così poiché l’attivo della bilancia commerciale cinese cala dall’11% al 6% del PIL nel 2009251 un tracollo brutale che colpisce pesantemente le imprese export – led (tessile, giocattoli, scarpe, etc) e questo nel capitalismo significa disoccupazione.

Le statistiche cinesi però, con orientale imperturbabilità non registrano il fenomeno, almeno non adeguatamente, ma il prof. Taolì docente della School of businnes di Shenzhen ci spiega l’arcano: “Non sorprende – dice – che i dati sulla disoccupazione siano ampiamente sottovalutati, chi perde il lavoro si registra solo per ottenere sussidi pubblici. Ma questi sono limitati, o soggetti a corruzione e clientele politiche. I disoccupati-fantasma sono l’effetto della nuova sfiducia interna cinese”252.

In altre parole emerge in Cina il fenomeno dei disoccupati scoraggiati che non si scrivono neanche nelle liste di disoccupazione e che in Cina, come per il nostro Ministro Sacconi, non sono disoccupati. La Cina, dunque, non può permettersi un tasso dell’8% o poco più che, per le sue esigenze è al limite della recessione. Ciò anche perché il ritardo è enorme e non solo per quel che riguarda il riciclaggio della forza lavoro agricola: la produttività del lavoro è bassissima, lontana secoli da quella occidentale253, le imprese cinesi hanno, per ammissione degli stessi studiosi di quel paese, una produttività in termini di valore aggiunto che è un decimo di quella occidentale, i marchi cinesi sono assenti tra i cento marchi più popolari al mondo, per la bassa qualità della produzione cinese254. I brevetti cinesi sono lo 0,1% del totale mondiale255, inoltre i prodotti high tech cinesi, pur costando un quarto di quelli occidentali, non li mettono fuori mercato perché i livelli qualitativi sono enormemente diversi (a svantaggio dei cinesi)256; l’auto cinese è esplosa, ma la produzione del settore si vende solo in Cina e nel terzo mondo perché in occidente è impresentabile, oltre ad essere assai spessa un plagio di pessima qualità257.

Ma è larga parte dell’industria cinese che produce copie di qualità bassissima258, indicativo è il caso del cashmere cinese costruito con macchine italiane e da operai cinesi che hanno studiato a Biella, città dove si produce un tessuto di eccezionale qualità; la copia cinese, tuttavia, è poco più di uno scarto impresentabile e il motivo è assai semplice, per trattare un chilo di lana di quel tipo occorrono quattro litri di acqua di qualità purissima, acqua di tipo alpino che a Biella esiste ma non in Cina dove l’industria locale utilizza le acque del fiume Azzurro e del fiume Giallo dove c’è un po’ d’acqua in mezzo a scarichi industriali e fognari di varia natura259. La Cina è questo e per essa un sviluppo dell’8% è veramente poco. Ma come è stata realizzata la “performance” del 2009, che non entusiasma gli stessi dirigenti cinesi? Lascio la parola al presidente delle China banking commission: “Nei primi dieci mesi del 2009 le banche hanno pompato quasi 9000 miliardi di yuan (912 miliardi di €) nel sistema e ora, con la ripresa dell’immobiliare e del mercato azionario, minacciano di emergere delle bolle strutturali. I mercati di importazione delle merci cinesi, restano, infatti, deboli, e anche se i consumi interni si sono ripresi, il sottosviluppato sistema del welfare sociale impedisce alla domanda domestica di divenire un fattore importante della crescita cinese”260.

Come si vede una immensa liquidità pari al 40% circa del PIL cinese viene introdotta nell’economia per favorire i consumi attraverso l’indebitamento della borghesia cinese che è una borghesia da 300 $ al mese, invitata dal governo a consumare cinese, in modo da compensare in parte il calo delle esportazioni261. Si deve considerare però che con una borghesia da 300 dollari al mese e una massa enorme di contadini che vive con qualche decina di dollari al mese (cui corrisponde una classe operaia di 50-100$ al mese) le possibilità di consumo attraverso l’indebitamento sono enormemente limitate rispetto all’occidente, mentre una crescita consistente dei salari reali distruggerebbe la competitività da miserabili dell’economia cinese. Le possibilità di sviluppo di una simile variante del modello cinese sono dunque limitatissime come avverte anche chiaramente il dirigente cinese prima citato.

Peraltro il “boom” dei consumi cinesi è ben povera cosa e basta recuperare solo in parte quanto perso dalle famiglie cinesi negli anni passati: nel 2007 al culmine del miracolo i consumi delle famiglie erano il 35,4% del PIL, mentre nel 1998 erano il 44,1% (dati “Economist”). Anche nel campo delle auto su cui molto si insiste, si dimentica che la Cina è un paese con una base di partenza quanto mai depressa, gli ultimi dati disponibili ci dicono che in Cina nel 2006 circolavano 18 auto per 1000 abitanti, come in Nicaragua e lontanissimi dai livelli italiani (595 auto) o anche solo da quelli della vicina Taiwan (247 auto), il boom del 2009 permetterà alla Cina di staccare il Nicaragua.

La modestia della ripresa dei consumi cinesi e l’insostenibilità di un grosso indebitamento per un paese con il PIL pro capite cinese (bassissimo), ha portato il governo a varare a fine 2009, una modesta stretta creditizia per il timore del formarsi di una bolla debitoria non sostenibile per l’economia di quel paese. Nel complesso una risposta alla crisi limitata e asfittica che non affronta i nodi strutturali dell’economia cinese e mantiene lo sviluppo cinese a ritmi assolutamente inadeguati per i problemi di quella società. Per quel che concerne l’India il discorso è anche più chiaro. Il PIL indiano cresce solo del 5,4% nel 2009 e dovrebbe salire al 6,5% nel 2010 (stime FMI di fine anno), si tratta di cifre che non hanno più nulla di miracoloso: il Bangladesh si sviluppa nel periodo 1996/2006 al tasso del 6,2% e la Nigeria è all’8,4% (fonte “Economist”). Tuttavia anche i tassi del miracolo indiano sono drasticamente ridimensionati dalla modestia della base di partenza: nel 1998 il PIL pro capite indiano è di 440$ che diventeranno 1050 nel 2007 al culmine del miracolo; in USA negli stessi anni passiamo da 29240 $ a 45592 $, in termini relativi il rapporto passa da 1/66 a 1/43 circa, sembrerebbe un grande balzo ma non è quasi niente. Infatti ciò significa solo che il PIL indiano passa in 9 anni dall’1,5% al 2,4% di quello americano, con una simile trend in circa 100 anni il PIL indiano sarà pari al 12,5% di quello americano e tra 500 anni si avvicinerà alla metà. Ancora. La differenza in cifra assoluta tra i due PIL era di 28880 $ nel 1998 che diventano 44542 nel 2007, il che significa che la riduzione in termini relativi e percentuali è stata bilanciata da una crescita enorme in cifre assolute, che sono importanti quanto le proporzioni relative e, in questo caso, anche più importanti poiché sono le cifre assolute che ci dicono quanti dollari pro capite di risorse concrete esistono nelle due società per sviluppare investimenti, consumi, ricerca scientifica, educazione etc.

La verità è che l’India è un paese poverissimo, in cui secondo varie stime (del governo e della Banca mondiale) l’area della povertà si sarebbe ridotta nell’ultimo decennio, ma ciò avverrebbe solo perché la soglia di povertà è fissata a livelli sottomarini (1 $ a testa): in realtà l’80-85% degli indiani vive con 1-2$ al giorno262, nelle città vive il 29% della popolazione ed il 60% di essa non ha servizi igienici mente il 50% di essa non ha l’acqua in casa263. Se per la Cina un tasso dell’8% è insufficiente, per l’India un tasso del 6-7% è un disastro.

Per quel che concerne il Giappone il discorso è diverso, siamo in presenza di un paese avanzato con un’economia dalla crescita asfittica: l’1,5% nel periodo 1990/98, l’1,3% nel periodo 1997/2008 (dati “Economist”). Il debito pubblico è al 200% circa a fine 2009 e naviga verso il 240%, come si è visto. A settembre 2009, il governo sembra essere orientato verso la c.d. exit strategy, poiché il debito pubblico ha raggiunto dimensioni stratosferiche ed insopportabili. Quando, però, l’Istat giapponese comunica i dati definitivi della crescita congiunturale del terzo trimestre 2009, si scopre che essa è stata solo dello 0,3% invece dell’1,8% atteso, un brutto flop. Il governo vara allora (fine 2009) una nuova manovra di sostegno pari a 55 miliardi di euro (7200 miliardi di yen) che, però non gravano sul deficit enorme, ma utilizzano fondi non spesi264, il che significa che risorse fresche non ce ne sono e ci si limita a spostare le “truppe” da un punto all’altro del fronte col rischio che poi alcuni settori restino scoperti. Manovre estemporanee ed improvvisate che si contraddicono a distanza di pochi mesi o settimane. Al consuntivo l’economia giapponese a fine anno subisce il ristagno dei consumi e l’inerzia dell’occupazione265, in sostanza il Giappone non riesce a schiodarsi dal pavimento della crisi.

 

7) Prospettive 2010. Una ripresa inconsistente (o inesistente)

Le previsioni per il 2010 sono per una qualche ripresina a livello mondiale: il commercio internazionale dovrebbe crescere 7,4%, dopo lo scivolone del 13,5% dell’anno precedente, nei paesi avanzati il PIL dovrebbe crescere attorno all’1% o poco più, meglio la Cina e l’India della cui situazione si è già detto. Un modesto rimbalzino dovuto, per molti osservatori, al rinnovo delle scorte e ai sostegni che l’economia ha ricevuto dai governi, sostegni che sono andati molto più alle banche che non all’economia reale. Ma, avverte il premio Nobel Solow, se non si sostiene al rialzo l’occupazione nessuna vera ripresa potrà esservi266, se non cresce il numero e il peso delle buste paga, se aumenta il lavoro parziale e sottopagato, i consumi non potranno veramente riprendere e con essi la spinta propulsiva dell’economia.

 Krugman, altro premio Nobel, sostiene la necessità che si creino in USA, nei prossimi cinque anni, 18 milioni di nuovi posti di lavoro267, uno sforzo comparabile a quello di Roosevelt che di posti di lavoro ne creò 7 milioni, ma con una forza lavoro inferiore alla metà di quella attuale e nell’arco di 4 anni. Nulla però si delinea in questo senso nell’economia USA e le cause strutturali per cui questo non è possibile, le abbiamo viste. Lo stesso Krugman, come si è visto, ammonisce che non si possono ridurre i sostegni all’economia altrimenti si ripiomberà in recessione, ed anche il FMI sostiene posizioni analoghe268. Mentre il Giappone ha precipitosamente abbandonato l’exit strategy e la Cina si è limitata a una modesta stretta creditizia.

Togliere le stampelle all’economia sembra per ora impossibile, ma il fatto è che le stampelle costano ed il livello di indebitamento globale è enorme, continuare ad indebitarsi, in simile contesto, spinge verso il crack, togliere le stampelle porterebbe al crollo immediato. Si continua quindi con le stampelle, sperando in tempi migliori e nel fatto che “le crisi prima o poi passano”269. In realtà, come osserva uno studioso americano, bisogna smetterla di parlare di recessione: dal 2010 dovremmo parlare di depressione, cioè di un lungo periodo in cui, sia pure con pallide oscillazioni e rimbalzini, l’economia rimarrà al disotto dei livelli di partenza della depressione270, quanto a me ho già notato che il vero indicatore di crisi è, oggi, la disoccupazione reale più che il PIL, e la disoccupazione (reale non statistica) è da tempo al disopra ai livelli di guardia in tutto il mondo271.

Solo aumentando consumi, salari e occupazione esci dal tunnel, ma questo ha un significato molto preciso: bisogna restituire ai lavoratori quanto hanno perso negli ultimi 30 anni, e cioè 10 punti di PIL nei paesi industriali avanzati, e bisogna farlo in fretta perché la casa è in fiamme e le mura crollano, per cui tagli fiscali sui redditi di lavoro, restituzione del fiscal drag, aumento dei minimi salariali, ripristino della scala mobile, aumento delle pensioni, lotta a fondo al lavoro precario, nero e sottopagato. Ovviamente, qualcuno obietterà, che questo colpirebbe a morte i profitti ed è indubbiamente vero, ma il fatto è che se non si tenta questa cura drastica l’economia crolla dalla parte dei consumi, se la cura drastica viene realizzata l’economia crolla dalla parte dei profitti e dell’accumulazione. Ci troviamo di fronte ad un altro dilemma cornuto, da cui non si scappa, si tratta senza dubbio di una catastrofe, ma la colpa della catastrofe è di chi l’ha creata con una serie di scelte che hanno devastato occupazione e redditi da lavoro portando all’ingovernabilità attuale. Quando gli storici del futuro studieranno la nostra società, con ogni probabilità diranno che il capitalismo negli ultimi trenta anni si è comportato come un conducente di un’auto che, visto un masso in fondo alla strada invece di cercare una deviazione o di fermare l’auto, ha premuto l’acceleratore a tavoletta puntando sul masso: il crash era inevitabile e adesso, piaccia o no, siamo in pieno crash. Ciò posto lo scenario più probabile per i prossimi anni, lo scenario del crash in atto, sarà quello di un andamento dell’economia per L successive: un calo, poi un ristagno o un rimbalzino, poi un nuovo calo e così via fino al collasso finale.

 

8) La politica estera americana. Di disastro in disastro

Uno dei protagonisti di un film bello quanto amaro del grande Clint Eastwood (“Le bandiere dei nostri padri”) dice: “Abbiamo continuato a combattere in Vietnam solo per non ammettere di aver perso”. Verissimo, un presidente americano (Nixon) era ossessionato dall’idea di essere il primo presidente USA a perdere una guerra, l’attuale presidente, premio Nobel per la pace (??!!) è ossessionato dall’idea di essere il primo presidente americano che perde due guerre. Contemporaneamente.

La guerra in Iraq cominciata in modo trionfale con la discesa cinematografica di Bush Jr. su una portaerei dall’alto dei cieli (come Hitler atterrò a Norimberga nel film “Il trionfo della volontà” di Leni Riefenstahl), è ormai finita da anni e gli americani continuano a combattere solo per non ammettere di averla persa. Già qualche mese dopo la discesa trionfale (a fine 2003) una nota rivista italiana di geopolitica parlava di “vittoria insabbiata”, mentre gli attacchi della resistenza si moltiplicavano arrivando a 25-30 al giorno272, sicché il Ministro della difesa americano (Rumsfeld) doveva ammettere che la situazione era in bilico273. In seguito la rivolta si estende ancor più e nel 2005 avviene un fatto cui la stampa occidentale non dà peso, ma che sta significare che la guerra ormai è persa: il Ministro degli esteri iraniano si reca in visita in Iraq, non ha scorta e nemmeno un giubbotto antiproiettile, dirà che è a casa sua, perchè nel frattempo gli USA hanno dovuto aprire il governo agli sciiti iracheni legati al filo doppio con l’Iran274 e maggioranza del paese, un paese nel quale poco più di 130 mila soldati USA occupano alcuni punti del territorio, da cui compiono sortite violente e sanguinose, che aumentano l’odio e l’isolamento: più che occupanti, sono assediati.

La verità è che con 130 mila soldati non occupi un paese che ha la dimensione e la popolazione del Vietnam, dove non bastarono 500 mila uomini per vincere: contro una guerra non convenzionale, in cui il nemico è dappertutto, occorre un sbilancio enorme di forze per vincere; il vecchio insegnamento di Mao e Giap è chiarissimo: “Se il nemico controlla il territorio, disperde le forze, se concentra le forze non controlla il territorio”. Ne hanno fatto le spese giapponesi, francesi e adesso americani e la situazione dall’epoca del Vietnam è mutata in peggio poiché l’economia USA è in tilt e non può permettersi interventi pesanti e costosissimi da 500 mila uomini, per cui si limita ad interventi leggeri, che permettono di controllare pochi punti chiave del territorio rimanendo in una situazione da assediato senza via di uscita. Nel caso dell’Iraq la conseguenza politica della sconfitta americana è evidente: il baricentro politico della regione si sposta sempre più verso l’Iran e lontano dagli USA, un risultato veramente lungimirante, degno di un Polifemo accecato.

L’America ha perso ed è in un culo di sacco: a fine 2009 il congresso approva il bilancio militare di Obama (che è sempre il premio Nobel per la pace) 626 miliardi di esborsi, una vera pugnalata per l’economia e il bilancio federale americano275, ma al tempo stesso assolutamente insufficiente, con questa cifra puoi mantenere 130 mila soldati in Iraq e qualche decina di migliaia di soldati in Afghanistan276. In questo secondo paese la situazione evolve come in Iraq, un limitato corpo di spedizione controlla solo Kabul e dintorni (peraltro gli attentati sono molto frequenti anche a Kabul), si fanno elezioni farsa che la stampa occidentale presenta come il trionfo della democrazia e che dopo pochi giorni finiscono in un flop miserando, bassissima affluenza, e brogli colossali, ma il guaio è che Karzai, pur essendo impresentabile, non ha alternative credibili e il paese scivola verso l’ingovernabilità277.

Anche qui si combatte da assediati e non da occupanti, perché non si sa cosa altro fare. Manca la forza economica per un intervento massiccio e si continua a combattere galleggiando sulla guerra come, a livello economico, si galleggia sulla crisi.

L’America ha perso tre guerre negli ultimi 35 anni e la cosa più grave è che non è in grado di vincere la pace, come purtroppo è avvenuto in Vietnam (lo ammetto a denti stretti). In quel paese l’involuzione politica dopo la vittoria ha portato il Vietnam nell’orbita economica occidentale: nel 2007 tre soli paesi avanzati (USA, Giappone e Australia) assorbivano il 40% delle esportazioni vietnamite (il 21,5% solo gli USA, dati “Economist”). Il rivoluzionario, divenuto burocrate “realista”, è diventato anche subalterno ai paesi di capitalismo avanzato, gli unici che possano assorbire le merci a bassa tecnologia del Vietnam. Non è questa la sede per comprendere come ciò sia potuto avvenire, qui basterà per i nostri fini chiarire che è avvenuto e che la condizione perché questo potesse avvenire era, da parte dell’occidente, disporre di un’economia in grado di attrarre ed egemonizzare i paesi poveri, sia pure dal passato rivoluzionario. Un’economia, cioè, in grado di assorbire le merci dei paesi poveri, di assorbirne l’eventuale surplus della bilancia commerciale (Cina) di offrire la possibilità di joint ventures a capitale misto, etc. L’economia dei paesi ricchi, anche se tormentata da problemi crescenti dopo la crisi del 1973-75278, era in grado di farlo sino all’esplosione dell’attuale crisi che ha reso patente quello che prima era latente. Adesso il mercato occidentale è in crisi, i consumi ristagnano, le industrie operano con enormi margini di inutilizzo degli impianti, riesplode il protezionismo, le monete ballano ed investire nei bonds dei paesi ricchi è diventata un’avventura, in altre parole l’economia capitalistica è debole come mai prima e non può egemonizzare alcunché: vincere la pace è diventato problematico come vincere la guerra.

Un altro motivo per cui gli USA (e più in generale l’occidente) non possono ora vincere la pace, anche dopo aver perso la guerra, è stato posto in luce da un giornalista pakistano, che ha osservato che “noi odiamo l’America” per un motivo assai semplice: gli USA appoggiano di regola dittatori impresentabili279. Non è questo un fatto nuovo, Roosevelt, riformista all’interno e imperialista all’estero, non esitò a scegliere Somoza piuttosto che Sandino, che infatti venne ucciso (nel 1934). Anche di recente si è osservato che gli aiuti americani vanno a regimi corrotti e banditeschi a patto però che siano amici degli USA280. L’America el’occidente sembrano ispirare la propria politica estera ad una frase attribuita a Nixon: “Se hai in mano le loro palle non hai bisogno di avere il loro cuore”. Non so se la frase sia vera (anche se è noto che Nixon e molti presidenti USA, adoperano un linguaggio di questo tipo) ma certo è verosimile e comunque esprime assai bene quella che è stata la politica americana anche prima del Vietnam281.

Ora dopo tre sconfitte consecutive forse sarebbe il caso di cambiare orientamento, ed è quello che emerge anche nelle posizioni di chi (ad es. la chiesa di Roma) propone, sia pure fumosamente, un mondo più equo con minori disuguaglianze, una sorta di piano Marshall per il terzo mondo. Tuttavia il piano Marshall, lanciato alla fine della seconda guerra mondiale, mirava a ricostruire alcuni paesi, distrutti dalla guerra in qualità di partners e alleati degli USA come barriera al pericolo comunista; allora l’America era un paese in espansione che rappresentava il 50% dell’economia mondiale, ora è al 20% poco più ed è in depressione, con un indebitamento senza pari nella sua storia. Inoltre il mondo è cresciuto e ne è cresciuta la popolazione a causa di un boom demografico che esplode proprio dopo il secondo conflitto mondiale282; oggi la metà e più dei lavoratori vive con uno due dollari al giorno ed il 60% della forza lavoro opera in nero. Una politica di aiuti, che sarebbe l’alternativa riformista alle bombe, ha davanti costi enormi: aiutare lo sviluppo di questi paesi significa aiutare lo sviluppo di un sistema di Welfare di cui anche l’establishment cinese avverte l’esigenza, come si è visto. Questo significherebbe passare da uno – due dollari al giorno a 10 dollari almeno che è quanto guadagna un contadino afghano che coltivi oppio283, una cifra misera per i parametri occidentali ma necessaria se si vuol porre in essere un’alternativa alle attività criminose che dilagano nel terzo mondo. La domanda che ci si pone davanti ad un problema simile è molto semplice: può l’America sostenere, a livello di miliardi di individui, un Welfare che porti i redditi da 2 a 10 $ giorno? Il costo, a livello di miliardi di individui, sarebbe enorme ed insostenibile per un paese che si trovi nelle condizioni disastrose degli USA (ovviamente lo stesso vale per il resto dell’occidente): per l’America non è possibile passare dalle bombe al riformismo, continuerà a combattere per non ammettere di aver perso. Finché potrà.

 

9) Crisi economica insolubile e crescenti tensioni sociali. Verso la tempesta perfetta.

Alla situazione di disfacimento economico generalizzato fa da pendant un’esplosione diffuse di lotte e di malcontento sociale. In Francia 3 milioni di persone scendono in piazza contro Sarkozy e la sua politica284, gli operai sequestrano i managers285, in un caso si mina la fabbrica e si impongono le trattative286. In USA picchetti contro i banchieri che ottusamente difendono i loro privilegi, sicché il presidente Obama interviene serafico per dire che non si può governare con la rabbia287; in Inghilterra come si è visto la City è stata invasa da cittadini inglesi inferociti che invitavano a “mangiarsi il ricco”; in Grecia una contestazione studentesca di massa è un fatto normale; in Italia un’inchiesta accerta che il 60% degli italiani è favorevole all’occupazione delle fabbriche288; in Africa ed Asia rivolte della fame che finiscono per ottenere consistenti risultati289, come a Guadalupa290. Peraltro è da rilevare che nel mondo, dagli USA alla Cina, la popolazione non crede più ai miti del capitalismo e rifiuta disuguaglianze sociali, disuguaglianze tra paesi, devastazione dell’ambiente, interventi militari all’estero etc. ciò che è stato documentato negli ultimi anni da una serie impressionante di inchieste su campioni molto vasti291. Non meno indicativa è la situazione dei due grandi colossi sottosviluppati (India e Cina che rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale). In India i contadini hanno imposto, dopo lotte sanguinose la delocalizzazione dell’impianto per la produzione della Nano292; ma la cosa più importante di cui pochissimo si parla in occidente, è l’estensione dei movimenti di guerriglia nel paese della lotta non violenta: secondo fonti ufficiali del governo indiano i maoisti erano attivi in 55 distretti di 9 Stati nel 2003, che diventano 156 distretti in 13 Stati solo 10 mesi dopo, nel 2005 siamo a 170 distretti in 15 Stati, per arrivare a 223 distretti in 20 Stati nel 2009 (su un totale di 626 distretti in 28 Stati)293.

In Cina, paese nel quale il governo ammise che c’erano 85 mila rivolte l’anno nel 2005 contro le 8500 del 1993, le rivolte continuano ad essere 80 mila e più l’anno e preoccupano seriamente il partito al governo294, emblematico è quello che è successo a Changsha dove 30 mila operai di una acciaieria hanno circondata la limousine dell’amministratore delegato, l’hanno bastonato a morte, lasciandolo agonizzante per terra fino alla morte, impedendo alle ambulanze di intervenire: la colpa dell’uomo era quella di percepire 250.000 € di stipendio che gli servivano per preparare un piano di ristrutturazione lacrime e sangue di cui avrebbero fatto le spese gli operai che guadagnavano qualche decina di euro al mese, dopo il linciaggio il piano è stato ritirato295.

Davanti a questi fatti, semplicemente enormi, occorre sgombrare il campo dalle interpretazioni di comodo fatte dagli esponenti della “ruling class” chiaramente terrorizzati, che sostengono essere questi fenomeni espressione di “rabbia populista” ovviamente reazionaria296. Ed è vero: i lavoratori di tutto il mondo hanno mille ragioni per essere felici di vivere nel migliore dei mondi possibili: da trenta anni e più i loro redditi calano, l’occupazione si fa sempre più precaria e clandestina, lo Stato sociale viene tagliato, (dove c’è), nelle campagne del terzo mondo è l’inferno e su tutto governano dirigenti corrotti, arroganti ed imbecilli. Le ragioni del malcontento e della ribellione sono veramente incomprensibili! È evidente che la paura fa perdere ogni contatto con la realtà agli esponenti della “ruling class”: piangiamo per non ridere, come avrebbe detto il vecchio Beckett. La verità è che vi sono mille ragioni, l’una più razionale dell’altra, per infuriarsi, protestare e lottare e questo accomuna contadini indiani ed operai cinesi, studenti greci e disperati del terzo mondo, imperturbabili cittadini inglesi che invadono la City, milioni di francesi che scendono in piazza, e operai e periti informatici che salgono sui tetti e sulle gru in Italia297.

Che in questi movimenti non vi siano solo operai non è un segno di confusione e di debolezza, al contrario significa che il malcontento si estende e si generalizza, condizione essenziale per ogni cambiamento radicale298. Il problema che si pone davanti a questa realtà è cercare di capire se queste fiammate, non ancora coordinate tra loro, siano destinate a finire o ad estendersi ulteriormente. La mia opinione è che andiamo verso un’estensione del processo, anche se esso avrà, come sempre nella storia, un andamento diseguale ed oscillante; il motivo di questa opinione è che i meccanismi di controllo e repressione che prevengono o neutralizzano i movimenti sono pesantemente in crisi, lo Stato sociale, produttore di consenso nelle aree ricche, è ridimensionato ed inadeguato davanti alla crisi in atto, l’apparato di produzione delle idee i (mass media) è sempre più messo alla frusta davanti ad una realtà che non può essere presentata come il migliore dei mondi impossibili, il disincanto nei confronti del capitalismo e dei suoi caratteri, cui prima si accennava, è un chiaro indice di quel che sosteniamo.

Quanto agli apparati repressivi, anch’essi sono inadeguati come testimoniano le sconfitte a ripetizione dell’America. Ma anche a livello interno c’è da rilevare come una ribellione estesa difficilmente possa essere contestata solo con mezzi militari e repressivi. In India, ad esempio, si è rilevato che il rapporto ottimale per mantenere l’ordine pubblico è di 200 poliziotti ogni 100 mila abitanti, ma ve ne sono solo 145 spesso male armati e male addestrati299. In Cina un apparato repressivo spietato non ha impedito il proliferare delle rivolte dopo il 1993, il che significa che non è in grado di prevenirle, è violento ma inefficiente. Il problema per il potere è molto semplice: da una parte crescono malcontento e tensioni sociali, dall’altro la crisi riduce le risorse disponibili: la repressione è necessaria per il sistema ma le risorse scarseggiano (finanche nella ricca California mancano i poliziotti)300, i costi dell’apparato repressivo diventano sempre meno sostenibili. Ora se è vero quello che scriviamo sulla crisi in atto, che non è una recessione, ma una depressione di lungo periodo senza via d’uscita, allora sarà evidente che ci troviamo davanti ad una situazione tendenzialmente irreversibile.

Crisi economica radicale e tensioni sociali che esplodono sono due facce della stessa realtà: la tempesta perfetta.

 

1 Vedi G. TURANI, Multinazionali l’anno orribile dei super-giganti, in “La Repubblica Affari & Finanza” , 22/6/09, pp. 10-11.
2 Vedi B. ARDU’, E. GRION, Altri 40 milioni di disoccupati, in “La Repubblica”, 3/3/09, p. 3; secondo l’ILO, dati diramati all’inizio del 2010, nel 2009 i disoccupati a livello mondiale sono arrivati a 212 milioni, cifra senza precedenti. È bene precisare, però, che l’ILO dal 1976 ammonisce che la sottoccupazione , che si estende a macchia d’olio, è molto più grave della disoccupazione per le dimensioni raggiunte (v. Infra testo e note 3-5).
3 Vedi ILO, World employment report 2004-2005, ILO, Geneva, 2005, pp. 23-24.
4 Vedi J. STIGLITZ, Duecento milioni di nuovi poveri, risultato di un 2009 da dimenticare, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 20/4/09, p. 4.
5  Vedi Televideo, 8/4/09, p. 833, dove si citano le conclusioni dello studio OCSE in linea con analoghi studi dell’ILO. Preciso che quando cito il Televideo, fonte di notizie che spesso non arrivano alla stampa ufficiale, parlo sempre e solo del Televideo RAI.
6  Le valutazioni sulla crescita della povertà nell’area ricca sono molto variabili, ma la crescita enorme di disoccupazione e sottoccupazione (v. Infra par. 3-5) rende credibili le stime che parlano di circa 100 milioni di nuovi poveri, v. ad esempio E. POLIDORI, L’OCSE lancia l’allarme disoccupati, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 14/9/09 , p. 26, che parla di 89 milioni di nuovi poveri nell’area OCSE.
7 Vedi Televideo 3/4/09, p. 821.
8  Vedi F. RAMPINI, USA un bambino su quattro mangia con i buoni pasto, “La Repubblica”, 30/11/09, p. 16, ove il dato sui 36 milioni di assistiti.
9 Vedi M. CALABRESI, Un tetto due famiglie. La casa al tempo della crisi, in “La Repubblica”, 17/2/09, p. 31, dove si rileva tra l’altro, che le richieste di coabitazione, a gennaio 2009, sono 470 mila con un impennata del 70% su base annua.
10 Vedi A. AQUARO, Il garante dei mutui USA sull’orlo della bancarotta, in “La Repubblica”, 14/11/09, p. 31.
11  Vedi, Il mercato immobiliare resta debole scivola l’indice Naleb, in “Finanza & Mercati”, 18/11/09, p. 2 (articolo anonimo); M. FROJO, Nuove nubi sulla ripresa oltreoceano, ivi, 19/11/09, p. 8.
12 Ibidem, v. anche infra n. 150.
13 Vedi M. SAVINA, R. VISSER, La ballata dei numeri zero, in “Limes”, supp. n. 4, 2009, p. 196.
14  Vedi l. pa. , Crisi dell’auto in Russia, Autovaz taglia 27 mila posti, in “La Repubblica” , 23/9/09, p. 39.
15  Vedi E. ANZOLIN, FIAT in picchiata, utili 25 milioni ricavi meno 16%, in “Finanza & Mercati”, 22/10/09, p. 6 , dati consolidati dei primi 9 mesi del 2009; PSA affonda a Parigi, ivi, p. 8 (dati settembre 2009), articolo anonimo. È da precisare, per ciò che attiene le industrie auto, che spesso si considerano solo le automobili, ma esse producono altro: camion, macchine agricole, macchine movimento terra, etc., produzioni pesantemente colpite dalla crisi in atto; così la FIAT nel 2009, ha visto calare le esportazioni di trattori del 31,6%, delle macchine agricole del 21,1% e delle macchine movimento terra del 63,3% (vedi, Anche i trattori italiani non tirano più, ivi, 19/1/2010, p. 19, articolo anonimo).
16  Vedi M TESTA, La produzione industriale USA migliora ma delude le previsioni, ivi, 18/11/09, p. 2.
17 Ibidem; vedi anche M. DONATO, Questo non è un titolo tossico, in www.crisieconflitti.it , n. 4, 2009.
18 È noto che in fase espansiva il capitale utilizza anche al 90% i propri impianti.
19 Vedi V. PULEDDA, Nascosta la metà delle perdite bancarie, in “La Repubblica”, 26/11/09, p. 28; per i dati sulle perdite ufficiali ed i posti di lavoro tagliati dalle banche, v. A. AQUARO, Ritorno al passato per i mutui USA sui mercati la nuova ombra dei derivati, ivi, 23/11/09, p. 15.
20  Vedi E. POLIDORI, Il Fondo Monetario: “la ripresa è iniziata ma è sempre allarme occupazione”, ivi , 2/10/09, p. 9; ma per tutto l’anno è stato un susseguirsi di bollettini di guerra sull’esplosione del debito a livello mondiale.
21 Vedi S. BENNEWITZ, I venti di ripresa fanno volare le borse, ivi, 24/11/09, p. 24.
22 Vedi M. GERARDI, Debiti pubblici record, una bomba sui mercati, in “Avvenire”, 26/11/09, p. 7.
23  Vedi M. PANARA, Mercati, lo tsunami del debito, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 9/2/09, pp.1-3.
24 Su ciò vedi infra, par. 3.
25 DI questa categoria fanno parte i titoli delle compagnie assicurative, i titoli collegati al mercato del futures , etc., esplosi negli ultimi anni, ed altri ancora prodotti dalla fantasia della finanza creativa.
26 Vedi J. ATTALI, La crisi e poi?, Fazi , Roma , 2009, p. 43.
27 Vedi G. TURANI, Viva il capitalismo, Sperling & Kupfer, Milano, 2009, p. 87.
28 Vedi L. GALLINO, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino, 2009, p. 93.
29  Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008, nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it , n. 4, 2009, par. 3; in questo articolo sviluppo le tesi sulla crisi del capitalismo presenti in altri miei recenti lavori, v. A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, ivi, n. 1, 2005; ID., L’economia globale, un titanic che affonda, ivi, n. 2, 2007, tesi che sono aggiornate e riprese nel presente lavoro.
30 Nel 2007, prima che scoppiasse la crisi, il PIL americano era di 13751 miliardi di dollari su un PIL mondiale di 60690 (fonte “Economist”) e cioè il 22,8% circa. A fine guerra (1945) la quota americana del PIL era della metà, v. P. KHANNA,, I tre imperi, Fazi, Roma, 2009, p. 428.
31 Vedi M. GAGGI, La valanga, dalla crisi americana alla recessione globale, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 41.
32 Vedi J. ATTALI, op.cit., p. 61, la banca in questione è la Bear Stearns.
33 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., loc. cit.
34 Vedi retro nota 19.
35 Vedi R. BOCCIARELLI, Rischio debito sui mercati, ne “Il Sole 24 Ore”, 9/12/09, p.3, ove si riassumono le preoccupazioni di Draghi.
36 Sul debito della Grecia e su Dubai v. M. PANARA, Quel grosso, grasso debito greco, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 7/12/09, pp.1-3, dove si trova anche (a p. 2) una tabella sul debito dei paesi extraeuropei, Russia e Ucraina in testa, esclusa la Bielorussia ; G. PONS , Il test di Dubai. Scontro di civiltà tra banchieri, ivi, pp. 1 e 4 ; V. PULEDDA, Declassato il debito della Grecia, in “La Repubblica” , 9/12/09, p. 26; A. MICOSSI, Effetto domino a Dubai. 5 holding a rischio, ne “Il Sole 24 Ore” , 9/12/09, p. 41; E. LIVINI, Debito pubblico cresce l’allarme Grecia, a rischio la nostra sovranità, in “La Repubblica”, 10/12/09, p.2; M. PANARA, Dagli Emirati ai Paesi Baltici, ecco la mappa della paura, ivi, p.3; mentre rivedo il testo di questo articolo esplode il caso della Spagna e del Portogallo, ormai non c’è mese in cui non ci sia una tempesta che colpisca la finanza mondiale.
37 Vedi F. RAMPINI , Le dieci cose che non saranno più le stesse, Mondadori, Milano, 2009, p. 222, incredibilmente, a p. 224, si dice che gli USA hanno un’evasione fiscale tra le più basse al mondo. Assurdo, v. infra par. 3.
38 Un’avvisaglia in tal senso c’è già stata: a Londra all’inizio 2009, fallisce un’asta di bonds, v. L. FRANCESCHINI, USA e Inghilterra allarme debito, a Londra fallisce un’asta BOT, in “La Repubblica”, 26/3/09, p. 21.
39 Vedi infra par. 2 e 3.
40 V. su ciò G. CRAIG, Storia della Germania 1866 -1945, II, Ed. Riuniti, Roma, 1983, pp. 485 e sgg. e 493.
41 Vedi E. EYECK, Storia della Repubblica di Weimar, Einaudi, Torino, 1966, pp. 297-99.
42 Vedi . G. MANN, Storia della Germania moderna, Sansoni, Firenze, 1964, p. 42.
43 Tocchiamo qui uno dei punti dolenti del marxismo dogmatico per il quale la distruzione delle forze produttive è condizione della ripresa. Bordiga portò alle estreme conseguenze questa tesi osservando che i paesi che escono con le ossa rotte da una guerra sono favoriti nella ripresa; ho criticato questa tesi in altra sede (v. A. CARLO, La natura sociale dell’URSS, Centro Studi Terzo Mondo, Milano 1975, II ed., pp. 146 e sgg.); qui mi limiterò a rilevare che i miracoli dei tre paesi vinti nella seconda guerra mondiale (Italia, Germania, Giappone) sono impensabili senza la funzione di traino all’economia mondiale svolta dagli USA, che erano, nel 1945, la metà dell’economia mondiale, e che non avevano subito distruzioni belliche (a parte Pearl Harbour). In altre parole senza un meccanismo di accumulazione che tiri non si riparte e se si fa il deserto, distruggendolo, non si ripartirà mai a meno che non intervengano S. Gennaro e le Madonne di Lourdes e di Fatima (consorziati)
44 Su ciò v. A. CARLO, Crisi del lavoro cit.,
45 V. su ciò D. A. STOCKMAN, Il prezzo della politica, Ed. “Il Sole 24 Ore”, Milano, 1986, p. 383 e sgg.
46 V. infra par. 3, dove evidenzio che il lieve calo del debito federale è largamente compensato dalle altre voci del debito interno che si impennano.
47  Vedi l.pa. , Crisi dell’auto cit., parallelamente in USA si è diffuso un credito al consumo chiamato anticipo della busta paga con il quale ti anticipano di alcuni giorni la busta paga con tassi usurai che, su base annua, sono anche del 500% (v. F. RAMPINI, Le dieci cose cit., p. 21).
48 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Gli americani non si indebitano, ma la prudenza ora è una buona ragione, in “La Repubblica”, 14/8/09, p. 3
49 Vedi F. RAMPINI, E’ finita l’età dell’oro dei superricchi, in “La Repubblica”, 22/8/09, p. 19.
50 Vedi F. RAMPINI, Slow Economy, Mondadori, Milano, 2009, p. 19.
51 V. i miei lavori già citati, e cioè: A. CARLO, Crisi del lavoro cit., ID. L’economia globale cit.; ID. Capitalismo 2008 cit,
52 V. infra par. 8.
53 Vedi J. ATTALI, op. cit., pp. 127-28.
54  Su ciò v. per tutti la monumentale ricerca di D. F. FLEMING, Storia della guerra fredda, Feltrinelli, Milano, 1964, da cui si evince che il secondo dopoguerra è stato caratterizzato da una lotta senza esclusioni di colpi tra USA e URSS.
55 Malgrado i tanto strombazzati miracoli di India e Cina le differenze tra paesi ricchi e poveri continuano ad essere enormi, v. B. MILANOVIC, Mondi divisi, Bruno Mondadori, Milano, 2007; M. DONATO, Miseria e Nobiltà, Investimenti, crescita economica e distribuzione internazionale del reddito, in www.crisieconflitti.it , n. 2, 2007; v. anche infra par. 6, sul miracolo indo-cinese.
56 È noto che gli affamati nel Terzo Mondo sono un miliardo e non accennano a decrescere (al contrario) come ha denunciato la Conferenza della FAO di Roma di fine 2009.
57 Vedi F. MINI, Chimerica è una chimera, in suppl. n. 4 di “Limes” , 2009, pp. 57 e sgg.
58  Vedi G. VISETTI, Crisi mercati ed esportazioni. Obama non convince Pechino in “La Repubblica”, 18/11/09, p. 12
59 Vedi F. RAMPINI, Deficit americano nuovo spettro dei mercati, ivi, 24/8/09, p. 15 dove si nota anche che il deficit era cresciuto nei primi 7 mesi del 2009 di 1580 miliardi, cui andava aggiunto un altro buco di 300 miliardi dei singoli Stati della federazione.
60 V. infra par. 3 e 5.
61 V. su ciò A. CARLO, L’economia globale cit, par. 5, v. anche infra par. 6 di questo lavoro.
62  Vedi F. RAMPINI, Cina e Brasile, Addio dollaro, interscambio in valute locali, in “La Repubblica”, 30/6/09, p. 26, tuttavia il dollaro dovrebbe rimanere valuta di riserva. Anche India, Russia e (sottotraccia), i paesi arabi, produttori di petrolio, sostengono tesi simili, ma non si va al di là del mugugno.
63 V. infra par. 4.
64 Vedi F. RAMPINI, V. ZUCCONI, Chimerica le nozze in crisi tra Cina e Stati Uniti, in “La Repubblica”, 19/2/09, pp. 1, 31-33, dove si cita questa posizione di Lou Peng direttore generale della Commissione Bancaria cinese
65  Vedi G. VISETTI, La Cina l’America e la guerra dei dazi, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 21/9/09, p. 11.
66 Vedi G. VISETTI, La rivincita della borghesia,, ivi, 12/10/09, p. 27 e sgg., si allude alla media borghesia cinese, una classe da 300 $ al mese contro i 50-100 $ degli operai.
67 Vedi F. RAMPINI, Le dieci cose cit., pp. 153 e sgg.
68 Vedi S. VERGINE, L’export ha fatto flop, ne “L’Espresso”, 22/12/09, p. 142.
69 V. Televideo, 28/9/2008, p. 137.
70 Vedi F. RAMPINI, Dove l’auto non si ferma mai, in “La Repubblica” , 28/7/08, p. 17.
71 Vedi M. NAIM, Illecito, Mondadori, Milano, 2006.
72 La proposta è di Berlusconi, vedi G. LUZI, Il G8 è superato, ora servirebbe un G14, in “La Repubblica”, 10/7/09, p. 6, senza accorgersene il premier italiano ammette che il G8 è sottodimensionato, e che quindi anche quello dell’Aquila non ha avuto alcun effetto serio, ciò che molti rilevarono a suo tempo, v. ad es. A. CIANCIULLO, Clima ecco perché il piano non basta, ivi, p. 4, dove si cita la posizione di Rifkin che definisce “ridicolo” il piano elaborato dal G8; vedi anche M. GIANNINI, Il manifesto delle intenzioni, ivi, 9/7/09, pp. 1 e 30.
73 Vedi A. BONANNI, Dalla Cina agli USA valzer delle debolezze, ivi, 2/4/09, p. 6.
74 Vedi B. ARDU’, E. GRION, , Allarme OCSE, cit.,
75 Vedi J. STIGLITZ, Le banche sono di tutti, in “Internazionale”, 26/3/09, p. 21
76 V. infra, par. 5.
77 Vedi M. MARZOCCO, Un salvataggio da 23 mila miliardi, ne “Il Sole 24 Ore”, 22/3/09, p. 2.
78 Vedi M. GAGGI, op. cit. , pp. 114-115, quanto a Rampini egli stima i salvataggi bancari operati in USA fino al marzo 2009 in 5500 miliardi (v. F. RAMPINI, Le dieci cose cit., p. 7).
79 Vedi M. DONATO, Questo non è un titolo tossico cit., il dato in questo fa giustizia delle tesi di chi nega il peso della spesa militare nella ripresa USA: in realtà nel 1940 il PIL era 101,4 miliardi di dollari conto i 103,6 del 1929, nel 1944 il PIL era a 219,8 miliardi, di cui il 44,6% era spesa militare, cifre che parlano da se.
80 V. ad es. F. RAMPINI, op. cit., pp. 153 e sgg.
81 Vedi su ciò J. SAPIR, Il ritorno al protezionismo e il furore dei suoi nemici, in “Le Monde diplomatique” ed. it. n. 3, 2009 pp.12-13; non sono d’accordo però, con l’inno al protezionismo di Sapir poiché si tratta di due facce della stessa realtà (protezionismo e libero scambio) entrambe incapaci di fornire una risposta alla crisi ed alle sue cause strutturali, v. anche infra, par. 3, sulle incongruenze della clausola “buy american”.
82 Vedi J. STIGLITZ, Duecento milioni cit.
83 Vedi G. VISETTI, America Cina cit., p. 10.
84 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2008 cit, par. 3.
85 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Wall street una corsa senza rete , in “La Repubblica Affari & Finanza” 9/11/09, p. 6.
86 Vedi J. M. ROLO, Realidades e experiências do controlo multinational : o caso português, in “Anàlise social”, n. 45, 1976, p. 7 e sgg. dove si analizza il contenuto molto incisivo della legge 31/3/1976 sul controllo delle IM, pubblicata in appendice all’articolo (pp. 33 e sgg.).
87 Vedi G. CADALANU, Un codice contro i predoni della terra, in “La Repubblica” , 18/11/09 , p. 13; ID. L’amaro addio di Diouf , e alla FAO sognano già Lula, ivi, 19/11/09, p. 14.
88 Vedi ad es. P. KRUGMAN, Una scommessa impossibile, in “La Repubblica” 24/3/09, pp. 1 e 30 che trova “deprimente”, il piano Geithner sui titoli tossici; J. CALMES ; Troppi compromessi Mrs. President, ivi, 2/4/09 , p. 12; M. DE CECCO, Il ricatto della grande finanza, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 14/9/09, pp. 1 e 4; L. SPAVENTA , Mercati in bilico tra bolle e piccole riforme, ivi, 9/11/09, pp. 1 e 7.
89 Su ciò v. F. RAMPINI, Le dieci regole cit., p. 227.
90 Sulla invadenza del capitale, di Wall Street nei confronti di un potere politico benevolo verso gli interessi del capitale stesso, v. A. CARLO, Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 66 e sgg.; da rilevare anche l’importanza della testimonianza di STOCKMAN (op. cit.) dall’interno dell’amministrazione Reagan e di R. B. REICH (Supercapitalismo, Fazi, Roma , 2008, pp. 154 e sgg. e 196 e sgg.) dall’interno dell’amministrazione Clinton di cui fu Ministro dell’Economia.
91 Come provano le critiche di parte liberal piovute su di loro e che abbiamo citato in precedenza, e come prova la deroga concessa ai criteri normali di stesura dei bilanci (legalizzazione del falso in bilancio). Di recente anche il Presidente Obama ha cercato di rifarsi una verginità attaccando le banche (molti notano che è preoccupato per le elezioni di medio termine del novembre 2010), ma si tratta di sparate inconsistenti e demagogiche (v. infra par. sgg.).
92 Vedi F. NATI, L’Europa trova l’intesa sulla vigilanza, in “Finanza & Mercati” , 3/12/09, p. 2.
93  Ibidem, dove si legge quanto segue in rapporto al conflitto tra decisioni delle varie Autorità europea e nazionali: “Se lo Stato membro continuasse a ritenere che questa interferisca con le responsabilità fiscali nazionali, quest’ultimo potrà chiedere di riesaminare il caso che , nel giro di 4 settimane estensibili ad 8, deve prendere una nuova decisione”. Incredibile: in un mondo dove la speculazione impazza di giorno in giorno, e di ora in ora, si propone un meccanismo agile come un elefante con l’artrite deformante.
94 V. infra par. sgg.
95  Anni or sono il Presidente Bush senior inviò i marines a Panama per destituire un presidente (Noriega) che era diventato un alleato impresentabile, noto criminale e mercante di droga. Simili iniziative che denunciano lo stato di protettorato di fatto di Panama, non furono mai prese per motivi fiscali.
96 Vedi F.G. STEVENS , in Appendice a GRACCHUS, Guerre fiscali, De Donato, Bari, 1980, pp. 143 e sgg. Sono parole pronunciate oltre 30 anni or sono ma sembrano di ieri.
97 V. infra par. sgg.
98 Vedi L. IEZZI, Evasione, riciclaggio, corruzione, così i centri offshore gonfiano la crisi , in “La Repubblica”, 23/2/09, p. 4.
99  Vedi E. LIVINI, Caccia aperta ai paradisi fiscali, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 23/2/09, pp. 1 e 6.
100 Vedi E. POLIDORI, Paradisi fiscali scoperti 11 mila miliardi” in “La Repubblica”, 4/4/09, p. 22, dove si riferisce la valutazione di Angel Guerra.
101 Vedi su ciò A. CARLO, Studi sulla crisi della società industriale, Loffredo, Napoli, 1984, pp. 169 e sgg.
102 Vedi G. KOLKO, Ricchezza e potere in America, Einaudi, Torino , 1964.
103 Vedi A. CARLO, op. ult. cit , p. 160.
104 Ivi, p. 162.
105 Ivi, p. 163 , per la Francia, e p. 160 e sgg. per gli altri paesi; ID. Economia, potere, cultura, cit, pp. 151-159.
106 Ivi, p. 160.
107 Vedi A. CARLO, L’economia mondiale cit, par. 6.
108 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit., par. 3.
109 Vedi R. PETRINI, La corruzione costa 60 miliardi l’anno, in “La Repubblica” , 23/6/09, p. 2. Si tratta di un fenomeno vecchio su cui da anni insiste la Corte dei Conti, ma nessuno fa nulla (senza distinzione di colore politico) e me ne chiedo il perché.
110 Vedi su ciò R. K. MERTON, Teoria e struttura sociale, I , Il Mulino, Bologna, 1971, III ed., pp. 215 e sgg.; per una critica alle tesi di Merton, v. A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 133 e sgg.
111 Vedi su ciò il mio lavoro citato alla nota 107.
112 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., , p. 173.
113 Vedi su ciò M. NAIM, op. cit.
114 Vedi su ciò A. CARLO, Economia, potere, cultura cit.., p. 70-71 , nota 238.
115 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit. pp. 209-210, ove 4 tabelle che illustrano la tendenza mondiale.
116 Vedi su ciò, A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2, è sintomatico in proposito l’ammissione di F. RAMPINI, Le dieci cose cit., p. 102, secondo cui i capitalisti credono alla lotta di classe e la praticano saccheggiando i redditi dei lavoratori, ammissione pesante da parte di un noto giornalista di “Repubblica” organo ufficiale del “capitalismo illuminato” (quale?).
117 Un’avvisaglia c’è già stata col fallimento dell’asta dei bonds del tesoro inglese ad inizio 2009, come si è visto.
118 Abbiamo già accennato alle critiche di parte liberal ad Obama.
119 Vedi A. CARLO, Il Leviatano morente, Liguori, Napoli, 2001, III ed. , p. 31.
120 Vedi s.b. , Il deficit federale americano sfonda la soglia dei mille miliardi, in “La Repubblica” 14/7/09, p. 22.
121 Vedi M. FROJO , Migliora l’attività manifatturiera USA. Soffrono ancora banche e real estate, in “Finanza & Mercati”, 22/10/09, p.2.
122 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.
123 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Disoccupati USA al 9,4% il top da 25 anni, in “La Repubblica” 6/6/09 , p. 23.
124 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura, cit.. pp. 112 - 113.
125 Vedi A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, 2001, III ed., p. 170, note 33 e 35.
126 Vedi BIT, Le travail dans le monde, I , BIT, Genève, 1984, pp. 47-48
127 Lo rileva con una certa ironia, M. DE CECCO, Poca luce in fondo al tunnel, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 11/5/09, pp. 1 e 7.
128 Vedi F. ZANOTELLI, Attacco USA al segreto bancario svizzero, in “La Repubblica” , 20/2/09, p. 31, ma non si contano gli articoli che osannavano Obama e ipotizzavano la fine dei paradisi fiscali.
129 Vedi F. RAMPINI, Segreto bancario la resa della Svizzera, ivi, 20/8/09, p. 22. Inutile dire che non condivido per nulla il carattere trionfalistico del titolo e dell’articolo.
130  E’ da rilevare che nei paradisi fiscali non sembrano per nulla impressionati dalle trombe di guerra che squillano contro di loro; dopo il G20 di Londra, il presidente della Liberia, notissimo paradiso, dice che “non cambia e non cambierà niente” e che continueranno a collaborare come prima con gli USA, v. N. FRANCALACCI, Liberia per gli italiani un paradiso fiscale, ne “Il Venerdì di Repubblica” 1/5/09, pp. 40-41.
131 Vedi C. STAGNARO, Viva i paradisi fiscali! In suppl al n. 4 di “Limes”, 2009, pp. 159 e sgg.
132  Vedi l.p., Le imprese troveranno negli USA il paradiso fiscale perduto?, ne “Il Venerdì di Repubblica”, 22/5/09, p. 35.
133  Vedi s.b. , Ecco i regni della finanza segreta, c’è Zurigo e a sorpresa il Deleware, in “La Repubblica” 2/11/09, p. 15, dove si cita uno studio della “rete internazionale per la giustizia fiscale” da cui risulta che il Deleware ha il record mondiale dell’opacità umiliando Svizzera, Lussemburgo ed isole Cayman. C’è una sola cosa che desta meraviglia, la sorpresa per la scoperta del Deleware: io che mi occupo dell’evasione fiscale da oltre 35 anni, conosco da sempre il Deleware e la sua fama consolidata.
134 Vedi Televideo, 25/9/09, p. 141, dove si cita la scoperta dell’imprenditore di Cagliari fatta dalla nostra Guardia di Finanza.
135 Vedi A. CARLO , Studi sulla crisi cit, p. 159.
136 Vedi PH. M. STERN, The rape of the taxpayer, Vintage books, New York, 1974, pp. 6-14; in quella sede Stern racconta il caso di Paul Getty senior, che doveva pagare 70 milioni di dollari di tasse guadagnando solo 300 mila dollari al giorno, ma con qualche abile accorgimento se la cavava con qualche migliaio di dollari all’anno. Questo piccolo risparmio gli permise, come è noto, di costruirsi in California una copia esatta di Pompei, il petroliere amava l’antichità, per cui, se un napoletano si trova a girare dalle parti di Malibu e vede un cartello stradale che indica Pompei non ha sbagliato strada ma è solo la copia di Pompei che Paul Getty si è fatta costruire.
137 Vedi A. CARLO, Economia , potere, cultura, cit., p. 141., alle pp. 140-142 dati sulla sfacciata politica di esenzioni fiscali in favore del capitale in USA, davanti ai quali risulta veramente assurda la leggenda di severità fiscale degli USA che, dagli anni ’50 in poi, è solo un preistorico ricordo.
138 Viene qui in luce l’assurdità della tesi che aliquote alte siano la causa dell’evasione, la verità è che il capitale evade sempre anche quando le aliquote sono tenui, perché comunque le tasse contraggono sempre il profitto, la prova di ciò sta proprio nell’evasione fiscale che esiste in USA a fronte di un sistema quanto mai benevolo con la classe dominante, per la quale evidentemente pagare niente è meglio che pagare poco.
139 Vedi V. PULEDDA, Obama contro i paradisi offshore. “Scoveremo gli evasori fiscali”, in “La Repubblica”, 5/5/09, p. 26 ove la previsione del recupero di 210 miliardi di evasione ed elusione in 10 anni.
140  In realtà le cifre avute dalle banche sono nell’ordine di migliaia di miliardi e quindi la restituzione in 12 anni di 117 miliardi è un’inezia , qui mi limiterò a notare che due sole istituzioni, la Goldman Sachs e l’AIG, hanno avuto rispettivamente 62 e 180 miliardi di aiuti (v. C.D.M., Paulson e Friedman testimoni AIG, in “Finanze & Mercati”, 19/1/10, p. 2) . Una sortita demagogica di un presidente la cui popolarità è in caduta libera.
 
141 È fin troppo noto che Obama ha accusato il colpo della perdita del seggio storico della famiglia Kennedy e questo spiega le sue recenti uscite che cercano di recuperare consensi presso l’elettorato liberal chiaramente scontento di lui.
142 I banchieri hanno avuto ben altro come si diceva prima (vedi retro nota 140 e s.b. Il deficit federale cit.).
143  Inutile sottolineare che, in questo contesto, le sortite di Obama contro Wall Street hanno un sapore demagogico ed elettoralistico, anche perché, se le responsabilità dei banchieri sono indubbie, quelle del mondo politico di cui Obama fa parte non sono da meno. Come abbiamo detto più volte sia democratici che repubblicani hanno tenuto bordone al liberismo selvaggio sostenuto dalla grande finanza, che è responsabile ma non è l’unica responsabile, dello sfascio che colpisce l’economia mondiale.
144 Vedi retro par. 1.
145 Vedi Televideo, 2/5/09 , p. 822 dove si segnala che nei primi 4 mesi del 2009 sono fallite 32 banche , cifra ormai preistorica.
146 Vedi, Banche 124° fallimento negli Stati Uniti, in “La Repubblica”, 22/11/09, p. 29 (trafiletto anonimo).
147 Vedi G. VISETTI, La Cina rinvia la rivalutazione cit. dove si nota che le banche in difficoltà erano 305 nel primo trimestre 2009, 411 nel secondo e 552 nel terzo.
148 Vedi F. RAMPINI, Banche USA per CIT scatta la bancarotta, in “La Repubblica”, 3/11/09 , p. 28
149 Vedi A. AQUARO, Il garante dei mutui USA sull’orlo della bancarotta cit., p. 31.
150  Vedi Allarme fondi pensione USA, servono altri 2000 miliardi, in “Finanza & Mercati”, 6/1/10, p. 2 (trafiletto anonimo). Nella stessa pagina si trovano altri due articoli che segnalano la gravità della situazione dei redditi personali e dei consumi in USA. Così nel 2009 ci sono state in USA 1, 4 milioni di bancarotte individuali diverse da quelle societarie anch’esse in crescita (v. M. TESTA , In default 1,4 milioni di americani, ibidem ); inoltre calano del 16% i compromessi per l’acquisto di nuove case (v. Franano i compromessi USA ma salgono gli ordini dell’industria, ibidem, articolo anonimo).
151 Vedi W. RIOLFI, I profitti del 2007: un ricordo lontano per gli investitori, ne “IL Sole 24 Ore” 10/5/09 , p. 3. Non inganni il fatto che alcune grosse banche d’affari siano tornate in attivo dopo che lo Stato ha sganciato migliaia di miliardi di sostegni vari e ha permesso loro di truccare i bilanci; tornare in attivo in queste condizioni è facile ed è fittizio, per risolvere davvero la situazione occorre che l’economia riparta a livello strutturale, ciò che non sta accadendo. Inoltre neanche tutte la grandi banche sono state formalmente risanate, ad esempio il colosso Citigroup è ancora in rosso pur avendo tagliato centomila posti di lavoro (v. A. ZAMPAGLIONE, Citigroup torna in rosso e perde 7,6 miliardi, in “La Repubblica”, 20/1/10, p. 24). Dello stillicidio di fallimenti e insolvenze delle banche piccole e medie, molto importanti in USA, si è già detto.
152 Vedi retro par. 1 e 2 .
153  Fonte Tesoro USA, che ha pubblicato la serie storica del debito federale dal 1790 al 13/11/2008.
154 Vedi F. MARONTA, Chi vince e chi perde, in suppl al n. 4 di “Limes”, 2009, p. 31.
155 Vedi A. CARLO, L’economica globale cit., par. 2.
156 Vedi F. MARONTA, op. cit., p. 32; n.v., La California evita la bancarotta, in “Internazionale” 5/3/09, p. 86.
157 Vedi R. STAGLIANO, Sognando la California ci svegliamo in un incubo, ne “Il Venerdì di Repubblica”, 24/4/09, pp. 20 e sgg.
158 Vedi F. RAMPINI, E oggi Chicago chiude per crisi, in “La Repubblica”, 17/8/09, p. 15.
159 Vedi M. FROJO, Geithner vuole un dollaro forte, in “Finanza & Mercati”, 13/11/09 p. 2, si tratta di un record assoluto, a settembre lo sbilancio è stato di 155,5 miliardi.
160 Vedi P.KRUGMAN, Non aboliamo gli aiuti di Stato fu l’errore del 1937, in “La Repubblica” 5/1/10, pp.1 e 4
161 V. infra nel testo.
162  La presente tabella è ricavata dal grafico di MONTY PELERIN, Il 2010 sarà peggiore, IN http://www.americanthinker.com/montipelerin , p. 1 . Le fonti del grafico sono quanto mai ufficiali e cioè Federal Reserve, Bureau of Census etc e lo stesso dicasi per l’articolo citato alla nota seguente.
163 Vedi M. HODGES, America’s total debt report, in http://www.hodges.home.att.net/p.32 .
164 Ivi, p. 2.
165 Ibidem.
166 Vedi L.B. , Tra gli Stati UE è corsa al bond, ne “Il Sole 24 Ore” 14/1/10 , p. 7 . A questa massa enorme va aggiunta la massa del debito in scadenza delle imprese: si calcolano 1000 miliardi di dollari solo per Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia cui vanno aggiunti 513 miliardi per gli USA (v. M. PANARA, Ora la nuova emergenza globale è il debito in scadenza delle aziende, in “La Repubblica”, 1/2/10, p. 4).
167  Vedi M. PELERIN, op. cit., che riferisce valutazioni di alcuni centri studi secondo cui per rendere appetibili i bonds del tesoro americano bisognerebbe aumentarne il rendimento di 11 volte, il che forse è eccessivo, ma è indubbiamente difficile nel lungo periodo tenere bassi i tassi di interesse con una domanda elevata di capitali e con i capitali stessi che si contraggono per il ristagno dell’economia.
168 Vedi, A. PENATI, I grandi del mondo al test del risparmio, in “La Repubblica”, 28/3/09, p. 22.
169  Qualche tempo fa Marcello De Cecco ipotizzò che con l’euro forte si poteva comprare la concorrenza delle imprese USA; il fatto è che con una crisi di questo livello si può anche comprare la Chrysler senza sborsare un dollaro, come ha fatto la Fiat.
170 Vedi M. TESTA, Economia USA a rischio ricaduta, in “Finanza & Mercati”, 19/11/09 , p. 2.
171  Vedi F. RAMPINI, Gli USA in crisi comprano americano, Messico e Canada : Obama ci ripensi, in “La Repubblica”, 9/8/09, p. 21.
172 Vedi su ciò A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 5 e sgg.
173 Vedi M. PLATERO, Disoccupati record in America, ne “Il Sole 24 Ore” , 7/11/09 , p. 9.
174 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 8.
175 IL motivo per cui si ricorre al lavoro parziale è che molto spesso la paga oraria e i costi sociali sono più bassi che nel lavoro a tempo pieno.
176  Vedi E. POLIDORI, Disoccupazione record in Europa, allarme FMI: aumenterà ancora, in “La Repubblica” 31/10/09, p. 4; ID. Crisi persi 4,3 milioni di posti di lavoro, ivi, 26/11/09, p. 7.
177 Vedi V. PULEDDA, Allarme BCE sulle banche , ivi, 16/6/09, p. 30 .
178 Già a suo tempo mi ero espresso in tal senso, v. A.CARLO, Capitalismo 2008 cit. , par. 8; v. anche T. GARTON ASH. Obama, il G20 e l’Europa che non c’è, in “La Repubblica”, 31/3/09, p. 31; J. PISANY-FERRY, Recessione: se l’Europa non reagisce, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 18/5/09 pp. 1 e 4 .
179 Vedi A. CARLO, op. loc. ult. cit..
180  Vedi R. MANIA, La settimana cortissima antidoto ai licenziamenti, in “La Repubblica”, 8/2/09, pp. 30-31; L. IEZZI, Ma il mondo ha un’altra realtà, settimana corta per la ripresa, ivi, 25/3/09, p. 4.
181 Vedi J. M. BARROSO, Le regole per uscire dalla crisi, ivi, 1/4/09, p. 33.
182  Vedi E. POLIDORI, BCE allarme credito alle imprese , ivi , 22/9/09, p. 30; vedi anche Credito assicurato in parte al 77% delle PMI, in “Finanze & Mercati”, 16/10/09, p. 2 , (trafiletto anonimo).
183 Vedi A. TARQUINI, La Merkel salva il sistema, dallo Stato 230 miliardi, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 6/7/09, p. 7.
184 Vedi A. TARQUINI, La Merkel taglia le tasse alle famiglie, in “La Repubblica”, 25/10/09, p. 15.
185  Vedi A. TARQUINI, Se Budapest affonda l’effetto domino arriva fino a Berlino, in “La Repubblica Affari & Finanza, , 2/3/09, pp. 10-11.
186 Vedi su ciò A. CARLO, ll Leviatano morente cit., pp. 142 e sgg e 279-80.
187 Vedi L. SPAVENTA, Quei lavoratori perduti, in “La Repubblica”, 30/12/09, p. 30.
188 Vedi A. CARINI, Guidi “sarà meglio che i ragazzi tengano pronta la valigia per l’estero”, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 23/11/09 , p. 3 dove si cita la posizione del noto esponente della Confindustria; v. anche R. MANIA, La generazione lavoro zero, ivi, pp. 1e 3.
189 Vedi V. POLCHI, Il fallimento della social card, in “La Repubblica” 21/11/09 pp. 1 e 24.
190  Vedi B. ARDU’, L. GRION, Piani anticrisi : Italia meglio della Francia , ma Germania e Spagna fanno di più, in “La Repubblica”, 16/3/09, p. 3; v. anche E. SCALFARI, L’Italia nella crisi è un’isola felice, in “La Repubblica”, 8/3/09, pp. 1 e 25, il titolo è chiaramente ironico.
191 Su ciò v. A. CARLO, Capitalismo 2008 cit. , par. 8.
192 Nel bollettino mensile di fine anno Bankitalia rileva che tenendo conto degli scoraggiati e dei cassintegrati (la cassa integrazione esplode del 311% nel 2009) la disoccupazione è al 10% cosa che causa il rimbrotto del ministro Sacconi secondo cui considerare gli scoraggiati è scorretto. In realtà da tempo studiosi come Rifkin o Phelps, (Premio nobel per l’economia nel 2006) , o istituti prestigiosissimi come l’ILO , correggono i dati ufficiali sulla disoccupazione, parlando di sottoccupazione o disoccupazione nascosta. Abbiamo visto che uno studioso come Phelps parli di una disoccupazione USA al 20% contro il 5% delle statistiche. Quanto a Bankitalia è anche troppo benevola con il governo perché considera solo i nuovi scoraggiati del 2009 ma già nel 2008 gli scoraggiati erano 3 milioni (v. A. CARLO, Capitalismo 2008 cit, par. 2) .
193 Fonte Istat ed Eurostat.
194 Su ciò v. A. CARLO, Crisi del lavoro cit., ID: Economia , potere, cultura, cit., pp. 111 e sgg.; ID: Capitalismo 2008 cit., par. 2.
195 Vedi A. CARLO, op. ult cit. , par. 10.
196 Vedi L. GRION, , I cassintegrati perdono 2,3 miliardi, in “La Repubblica” , 10/12/09 , p. 13.
197 Vedi su ciò F. POZZO, Lavoro : un’Italia a due facce, ne “La Stampa” 11/1/09 , p. 7 dove si rileva che nel settore privato 6.877.900 lavoratori godono di ammortizzatori sociali mentre 7.141.300 ne sono privi.
198 Vedi R. PETRINI, 200 miliardi sottratti al fisco, in “La Repubblica”, 19/2/09, p. 20.
199 Vedi su ciò, A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 162, ID.: Economia,potere, cultura cit., p. 152.
200 Vedi A .CARLO, L’economia globale cit., par. 7.
201 Vedi E.LIVINI, Caccia ai soldi degli evasori italiani, nei paradisi un tesoro da 550 miliardi, in “La Repubblica”, 5/4/09, p. 23.
202 Vedi L. IEZZI, Evasione, in un anno recuperati 7,5 miliardi, in “La Repubblica, 31/12/09, p. 50, dato Equitalia.
203 Tenendo conto che si tratta di capitali ingenti tassati al 43%, più le penali e gli interessi si arriva a superare il 60%.
204  Vedi E. POLIDORI, Tassa rifiuti, evasione di 450 milioni . In testa Ministeri, ASL, grandi aziende, in “La Repubblica”, 10/4/09, inserto Roma, p. IV, il dato di 450 milioni riguarda la sola città di Roma.
205 Vedi Televideo 3/12/09, p. 821.
206 Si tenga presente che molti con la crisi fanno affari d’oro. Esistono , la cosa è notoria, dei fondi di investimenti chiamati nel gergo della finanza fondi locusta, che io chiamerei piuttosto fondi sciacallo. Questi fondi comprano imprese decotte ne scorporano le attività ancora valide economicamente , le vendono, intascano i soldi e li nascondono in impenetrabili paradisi fiscali, lasciando ai creditori i debiti e le passività con cui potranno soddisfarsi. Si tratta di una prassi conosciuta davanti alla quale sono ridicole le difese dei paradisi fiscali che non tengono bordone solo all’evasione fiscale ma anche a queste prassi scorrette e truffaldine che valgono nei rapporti tra capitalisti e rendono il mercato qualcosa di molto simile ad una giungla; lo stesso dicasi per il riciclaggio del danaro sporco da attività criminali, tutte cose che i difensori dei paradisi fiscali e della libertà del mercato dimenticano.
207 Fonte dati ACEA.
208  Vedi P. GRISERI,, Scajola : “incentivi doping” e il Ministero ora frena su Termini, in “La Repubblica” , 13/12/09, p. 13.
209 Il governo sembra assai contento del calo dell’inflazione, la più bassa dal 1959, epperò il merito del calo è dovuto alla crisi, non certo all’azione politica di contrasto dei prezzi, che rimangono in crescita malgrado il netto calo dell’economia, il che è altamente patologico (stagflazione), che si consideri positiva la stagflazione è cosa che rasenta l’incredibile.
210  Vedi su ciò F. MASOCCO, I salari sono fermi dal 1993, nuova gelata sull’industria, ne “L’Unità”, 28/3/09, pp. 12-13 dove si rileva, sulla base di uno studio CGIL, che sono state perse dal 1993, 6.738 € su un salario medio a causa della mancata restituzione del fiscal drag; v. anche M. RICCI, Salari italiani tra i più bassi dell’OCSE, in “La Repubblica”, 18/5/09, p. 2. E’ da notare, però che i salari italiani, come quelli dei paesi industrializzati, sono in calo come quota del PIL da 30 anni, e lo ammettono istituzioni quali il FMI e la BRI (v. su ciò A. CARLO, Capitalismo 2008 cit. , par. 2).
211  Vedi su ciò L. IEZZI, L’Italia tassa le famiglie 14 volte in più della Francia, in “La Repubblica”, 17/1/10, p. 31.
212 Ibidem.
213 Vedi su ciò, B. DE GIOVANNI, In Italia la flessibilità ha aumentato le differenze sociali, ne “L’Unità” , 18/12/09 p. 5; vedi anche retro nota 210.
214  Vedi E. POLIDORI, Cresce il numero degli italiani che risparmiano, in “La Repubblica” 18/12/09, p. 39, ciò che colpisce nell’articolo è il titolo ottimistico che contrasta con il contenuto decisamente negativo.
215 Ibidem , v. anche B. DE GIOVANNI, op. loc. ult. cit. , dove si rileva che il 53% delle famiglie italiane non risparmia alcunché.
216 Vedi Televideo 19/12/09, p. 132 dati raccolti da Federconsumatori e Adusbef; più in generale sulle difficoltà crescenti del consumatore indebitato, vedi T. CERNO, Io non ti pago, ne “L’Espresso”, 22/12/09, pp. 62-68.
217 Come abbiamo già visto. Voglio aggiungere in tema di consumi un ulteriore dato, segnalato da una recente indagine Istat: il 10% delle famiglie italiane non accende il riscaldamento perché è troppo costoso.
218 Il pretesto dell’inflazione fu usato a suo tempo per smantellare la scala mobile, nessuno rispose seriamente alla elementare obiezione del prof. Caffè, il quale osservò con semplice buonsenso, che chi voleva abolire al scala mobile si comportava come il malato che buttava dalla finestra il termometro per non misurare la febbre. Il prof. Caffè, poi misteriosamente scomparso come Maiorana, voleva semplicemente dire che la scala mobile è un effetto dell’inflazione e non è una causa, se la togli ottieni solo di impedire ai lavoratori di recuperare ciò che perdono per l’aumento dei prezzi, e in realtà questo era il vero fine della distruzione della scala mobile.
219 Vedi A. PENATI, Banche italiane sistema stressato, in “La Repubblica” 28/2/09, p. 22.
220  Vedi s.d.f., Un conto salato per l’Unione Europea , in “Internazionale”, 6/3/09 , pp. 18, 19 tabella p. 19.
221 Si noti poi che i nostri governanti hanno concesso alle banche il “privilegio Geithner” cioè la possibilità di scrivere a bilancio i titoli acquistati fino al 2008 ad un valore superiore a quello di mercato, se si ritiene che la svalutazione è momentanea, v. su ciò F. ROSCINI VITALE, Lo stop alle svalutazioni è esteso ai titoli acquistati nel 2008, ne “Il Sole 24 Ore” , 26/3/09, pp. 1 e 29. Con questo “favore” le banche hanno perso solo il 45% degli utili nel 2009. Formidabile.
222 Non muta il mio giudizio neanche in rapporto all’iniziativa proposta da Tremonti di costituire una Banca del Sud per sostenere iniziative microeconomiche nell’area; si è rilevato infatti che il sud in passato ha avuto le sue banche, ma questo non ha risolto il problema che non è dalla parte dell’offerta di credito ma da quello della domanda, che viene molto spesso da imprese sottodimensionate ed inefficienti, (v. su ciò S. SACCO, Banca del mezzogiorno, perché non serve al sud, in “La Repubblica Affari & Finanza” , 16/11/09, p. 4 ); è accaduto anzi in passato che le banche del sud rastrellassero il risparmio per inviarlo al nord più ricco e competitivo, v. su ciò E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, Contro la questione meridionale, Savelli, Roma, 1975, III ed., pp. 155-56.
223 Vedi G. TREMONTI, Lettera di Tremonti, in “Libero” , 7/3/09, pp. 1-2.
224 Vedi su ciò tra gli altri, M. PANARA, Con i Tremonti bonds il credito non riparte, in “La Repubblica Affari & Finanza” 15/6/09 , pp. 1 e 2; V. PULEDDA, Unicredit e Intesa più forti senza lo Stato, in “La Repubblica, 30/9/09, p. 28; L. SPAVENTA, Perché i Tremonti bonds non servono alle banche, ivi, 6/10/09, pp. 1 e 33.
225 I dati sono stati forniti dallo stesso Ministero dello sviluppo economico.
226  Vedi R. MANIA, Dal governo 1,3 miliardi alle aziende. Marcegaglia “soldi veri ma vigileremo”, in “La Repubblica, 18/3/09, p. 4, in quella sede si fornisce la cifra di 70 miliardi di credito, moltiplicatori in libertà!
227 Vedi su ciò, La PA paga in ritardo. Il costo per le imprese è di 10 miliardi l’anno, in “Finanza & Mercati, 6/1/10, p. 10 (articolo anonimo).
228 Vedi R. MANIA, Allarme piccole imprese, un milione a rischio, in “La Repubblica”, 24/10/09, p. 32, dove si riferisce l’allarme di Morandini presidente delle PMI aderenti alla Confindustria.
229 Vedi L. IEZZI, L’Italia brucia dieci anni di crescita, ivi, 21/6/09, p. 22.
230 Vedi Televideo, 14/5/09, p. 133, che riporta le dichiarazioni di Bussetti Presidente dell’ANCE.
231 Vedi R. SERRANO, Piano casa un milione di stanze in più, in “La Repubblica” , 3/12/09, pp.22-23, la stima degli effetti possibili è dell’ANCE
232 Vedi A. CIANCIULLO, Costi e sicurezza, è già polemica, in “La Repubblica”, 25/2/09 p. 3, importante è l’ammissione sui finanziamenti (problematici) di Zorzoli , ultrà del nucleare.
233 Ibidem; L. IEZZI, Altolà delle Regioni sui siti nucleari, ivi, 28/1/10, p. 20, dove si accenna al fatto che 13 regioni hanno impugnato presso la Corte Costituzionale il provvedimento del governo, che trova favorevoli solo Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia (ovviamente a livello di vertice).
234 Vedi Televideo, 18/11/09, p. 822 che riporta la presa di posizione ufficiale di quell’ente.
235 Vedi f. i.m., Il duello Scajola-Tremonti frena la marcia del nucleare, in “La Repubblica”, 3/12/09, p. 29, per più ampie critiche al nucleare vedi S. MINARDI, Nucleare, poco verde e sempre più caro, ne “L’Espresso”, 22/12/09, pp. 70 e sgg.
236  Anche nel campo del sostegno all’export la politica del governo (se c’era) ha fatto flop: nel 2009 le esportazioni italiane calano al 23% del PIL , con una perdita di 62 miliardi, decisamente peggio dei nostri partners europei, vedi S. VERGINE, L’export ha fatto flop, ivi, pp. 142 e sgg.
237  Vedi R. MANIA, Della Valle “dalla crisi si esce detassando utili e buste paga”, in “La Repubblica” , 24/9/09, p. 35; in senso in parte analogo la Marcegaglia, Vedi L. IEZZI, Marcegaglia: “più CIG e sgravi fiscali a chi investe, ivi, 8/2/09,p. 21
238  Vedi L. SPAVENTA, L’assedio a Tremonti e il rebus delle tasse, in “La Repubblica”, 26/10/09, pp. 1 e 25.
239 Vedi L. GRION, Ma le pensioni del futuro saranno un terzo del salario anche se si lavorerà di più, ivi, 6/5/09, p. 11.
240 Vedi M. FROJO, La Cina esce al galoppo dalla crisi, in “Finanza & Mercati”, 12/11/09, p.2
241 Vedi F. RAMPINI, Economia , l’anno della speranza, in “La Repubblica”, 8/4/09, pp. 31-33.
242  Su ciò vedi A. CARLO, Il capitalismo straccione e l’impossibile modernizzazione, in www.crisieconflitti.it , n. 3, 2008, par. 2.
243  Ivi, par. 1.
244 Vedi G. VISETTI, Un esercito di disoccupati in fuga verso le campagne, in “La Repubblica” , 12/8/09, pp. 1 e 9.
245 Ibidem.
246 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit, par. 4.
247  Da alcuni anni (dopo il 2005) l’“Economist “non pubblica più, nella sua silloge statistica mondiale , il dato sulla forza lavoro agricola indiana, perché, presumibilmente le statistiche locali sono inattendibili o lacunose, epperò gli studiosi indiani continuano a parlare, per il 2008, di un 60% di lavoratori agricoli sul totale della forza lavoro vedi M. DESAI, Un paese di successo che resta molto povero, in “Limes” n. 6, 2009, pp. 35 e sgg a p. 42.
248  Vedi, Crescita cinese più 8% nel 2010, in “Finanza & Mercati”, 12/11/09, p. 2 (articolo anonimo).
249  Vedi F. RAMPINI, Oltre 20 milioni di disoccupati fanno tremare il governo cinese, in “La Repubblica”, 3/2/09, p. 9; vedi anche G. VISETTI, Un esercito di disoccupati, cit.
250 Vedi J. FALLOWS, Soluzione cinese, in “Internazionale”, 2/4/09, p. 34.
251  Vedi F. RAMPINI, America-Cina il grande duello, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 18/1/10, p. 2.
252 Citato da G. VISETTI, Un esercito di disoccupati cit.
253 Vedi A. CARLO, L’economia globale cit., par. 5; ID: Il capitalismo straccione , cit.
254 Vedi YU SHICEN, Perché i marchi gialli non sono globali , in “Limes”, n. 4, 2008, pp. 57-58.
255  Vedi W. HUTTON, La Cina non ci salverà, in “Internazionale”, 6/11/08 , p. 19. Sempre in questo campo è da rilevare che, nell’ultima pubblicazione statistica dell’“Economist”, la Cina è solo al 20° posto per competitività globale, non compare nei primi 70 paesi per potere d’acquisto individuale, non compare tra i primi 24 paesi, per indice di creatività economica, non compare sempre tra i primi 24 paesi per indice di capacità tecnologica; è al 23° posto (su 25) come quota del PIL destinato alla ricerca.
256 Vedi F. RAMPINI, , Quando la Cina batterà gli States, Il sorpasso che cambia la storia, in “La Repubblica”, 14/8/2008, pp. 39 – 41, a p. 41; come spesso accade a Rampini il trionfalismo del titolo contrasta con i contenuti assai più problematici e realistici dei suoi scritti sulla Cina.
257 Vedi F. RAMPINI, Dove l’auto non si ferma mai, in “La Repubblica”, 28/7/08, p.17. Anche qui il titolo è trionfalistico ma il contenuto ridimensiona il titolo.
258 Vedi M. NAIM, op. cit.
259 Vedi F. RAMPINI, Le dieci cose cit., pp. 142-3.
260 Vedi LIU MINGKANG, Finita la crisi la Cina rischia nuove bolle, in “Finanza & Mercati”, 5/1/10, p. 19.
261  Vedi su ciò, G. VISETTI, La rivincita della borghesia, cit. pp. 27 e sgg. E’ sintomatica in questo campo l’inchiesta di un giornalista occidentale sul più grande shopping center mondiale (200 ettari di superficie) che si trova in una città cinese, doveva ospitare 75 mila visitatori al giorno (inaugurazione nel 2005) tre anni dopo era già fatiscente e visitato da poche centinaia di persone; in Cina altri 500 shopping center, sono nella stessa situazione , vedi, M DONAHUE, Shopping cinese, in “Internazionale”, 9/10/08, p. 64 e sgg.
262 Vedi M. DESAI, op. cit., p. 40-42.
263 Vedi L. MUSCARA’, Slums e globalizzazione, in “Limes”, n. 6 , 2009, pp.111 e sgg.
264 Vedi R. SORRENTINO, Hatoyama stanzia altri 55 miliardi in aiuto della crescita, ne “Il Sole 24 Ore”, 9/12/09, p. 10.
265 Vedi S.C., Giappone frenato da disoccupazione, in “Finanza & Mercati”, 19/10/09, p. 2.
266  Vedi E. OCCORSIO, Solow: “Il lavoro manca ancora, non è vera ripresa”, in “La Repubblica”, 30/10/09, p.9, si tratta di un’intervista a Solow.
267 Vedi P. PONTONIERE, Salvate il soldato Bernanke, ne “L’Espresso”; 22/12/09, pp. 153-54, dove si citano le posizioni di Krugman in materia, molto critiche nei confronti di Bernanke (e indirettamente di Obama) contestato perché ha sostenuto molto più le banche che non l’economia reale e l’occupazione.
268 Vedi M. FROJO, FMI “Europa a rischio ricaduta”, in “Finanza & Mercati”, 19/1/10, p.2.
269  Vedi su ciò A. CARLO, op. ult. cit., par. 4; per quel che concerne inoltre l’exit strategy, giustamente è stato rilevato che i contenuti di una tale politica sono di una vaghezza estrema (v. A. PENATI, Il grande mistero dell’exit strategy,, in “La Repubblica”, 10/10/09, p. 30).
270 Si noti che le depressioni spesso sono lunghissime: quella degli anni ’30 durò 12 anni, quella di fine ‘800 ne durò ben 23 (1873-1896), né dalle depressioni si esce in modo automatico ma solo se risolvi i problemi che hanno portato alla depressione stessa.
271 Vedi A. CARLO, op. loc. ult. cit.
272 Vedi, Editoriale. Missione incompiuta,, in “Limes”, n. 5, 2003, pp. 7-11.
273 Ibidem; vedi anche M. PAOLINI, La saga del petrolio, ivi, pp. 68-72.
274 Vedi VALI NASR, La rivincita sciita, Università Bocconi, Milano, 2007, pp. 177 e sgg. ; sulla situazione dell’Iraq nel 2005 è indicativo anche quello che scrive S. MCBRIDE, Per uscire dall’Iraq accordiamoci con l’Iran, in “Limes”, n. 6, 2005, pp. 181 e sgg., ma accordarsi con l’Iran significa riconoscere che gli USA non controllano più l’Iraq, in altre parole che hanno perso la guerra; v. anche A. SEMA, Nel pantano iracheno crolla il mito della superpotenza, ivi, pp. 53sgg.; A. NEGRI, Così comandano gli sciiti, ivi, pp. 99 e sgg.
275 Come ho detto più volte nel corso degli ultimi anni, la spesa militare, a differenza che negli anni ’40 e ’50, non produce più occupazione ma tecnologie che risparmiano forza lavoro (computer, atomo).
276 Vedi su ciò G. DOTTORI, La NATO come l’armata rossa, in “Limes”, n. 3, 2007, pp. 137 e sgg; G. A. FINETTI, Perché non funziona la guerra dell’oppio, ivi, pp. 191 e sgg. , dove si evidenzia il crescente potere dei signori della guerra e dell’oppio in un paese in cui la NATO e gli americani con poche decine di migliaia di uomini, non controllano quasi nulla; v. anche G. DOTTORI, La Nato in Afghanistan, ognuno per sé, nessuno per tutti, ivi, n. 1, 2010, pp. 133 e sgg.
277 Sull’ingovernabilità politica del paese vedi A. ROSATO, Aspettando Aburd Rahman, ivi, n. 3, 2007, pp. 151 e sgg.
278 Risale a quella crisi la grande svolta delle economie ricche: durante la ripresa del ’76-’79 il PIL cresce ma l’occupazione decresce e cominciano a delinearsi i problemi strutturali che poi, incancrenendosi, , esploderanno negli anni che viviamo.
279 Vedi M. SHEHZAD, Perché odiamo gli Stati Uniti, in “Limes”, n. 1, 2008, pp. 223 e sgg., vedi anche E. CARBONARI, A. DELEDDA, Per i pakistani il peggior nemico è l’America, ivi, pp. 215 e sgg.
280  Vedi su ciò W. EASTERLY, I disastri dell’uomo bianco, Bruno Mondadori, Milano, 2007, dove si analizza con abbondanza di dati il carattere “disastroso” della politica di aiuti USA e occidentale, che privilegia interlocutori delinquenziali e banditeschi; si ricordi la vicenda del golpe fallito contro il presidente venezuelano Chavez cui il governo USA plaudì, pur trattandosi di un golpe militare, e fece una figura da quattro soldi, perché poche ore dopo il golpe fallì e Chavez ritornò al potere. Dovunque vi sia una vaga possibilità di riformismo l’America l’avversa , come sempre, tra Sandino e Somoza, si sceglie Somoza.
281 Vedi su ciò D.F. FLEMING,, op. cit.
282 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 85 e sgg.
283 Vedi G. A. FINETTI, op. cit. p. 199.
284 Vedi B. VALLI, La primavera del nostro scontento, in “La Repubblica”, 20/3/09, pp. 37-38.
285 Vedi E. FRANCESCHINI, G. MARTINOTTI, Minacce e sequestri è rabbia antimanager, ivi, 26/3/09, p. 4.
286  Vedi G. MARTINOTTI, Francia, una fabbrica minata e il governo riapre la trattativa, ivi, 16/7/09, p. 29
287 Vedi, L’America non è al sicuro ma l’economia può ripartire, ivi, 23/3/09, p. 3, ove intervista ad Obama.
288  Vedi F. BORDIGNON, L. CECCARINI, Il 60% degli italiani condivide l’occupazione delle fabbriche, ivi, 23/12/09, p. 31.
289  Vedi D.M. DEMBÈLÈ, Tra scioperi e manifestazioni, lo slancio delle lotte sociali, in “Le Monde diplomatique”, Atlante 2009, pp. 184-5.
290 Vedi F. RUFFIN, Una scintilla che non si estingue ha infiammato la Guadalupa, in “Le Monde diplomatique”, ed. italiana, novembre 2009, pp. 4 e sgg.
291 Vedi A. CARLO, Conflitto. Controllo sociale. Rivoluzione. 13 tesi sulla fine del capitalismo, in www.crisieconflitti.it , n. 3, 2008, par. 10, ove dettagliate analisi delle inchieste in questione.
292 Vedi F. RAMPINI, La rivolta dei contadini blocca la Tata Nano, in “La Repubblica”, 4/9/08, p. 26.
293 Vedi A. SAHNI, Il cancro maoista si batte con più Stato, in “Limes”, n. 6, 2009, pp. 63 e sgg. nello stesso numero della rivista c’è un altro articolo di K. P.S. GILL, La resistibile ascesa dei maoisti nel Bengala senza Stato, ivi, pp. 55 e sgg., in cui si sostiene che se si manda un po’ più di poliziotti la guerriglia se ne scappa. Tutto sarebbe semplice: un po’ più di repressione, e si torna alla normalità. Evidentemente l’autore non sa che è nelle regole della guerriglia ritirarsi quando il nemico attacca, inseguirlo quando fugge, molestarlo quando sta fermo. La ritirata, che sarebbe avvenuta in un caso, davanti ad un attacco poliziesco, non significa assolutamente nulla.
294 Vedi G. VISETTI, Cina , un esercito di disoccupati cit.
295 Vedi F. RAMPINI, Obama studia il modello cinese contro la crisi, funziona meglio, in “La Repubblica”,, 27/7/09, p. 23, la cosa destò in tutto il mondo un enorme scalpore, come era logico.
296 Vedi G. MARTINOTTI, La rivolta arriverà in Italia, stipendi e pensioni dei manager hanno raggiunto livelli assurdi, ivi, 29/3/09, pp. 6 e 7, intervista al tecnocrate francese Alain Minc che parla di “rabbia populista”.
297 Vanno aggiunti alla lista anche gli studenti americani di Berkeley di nuovo in rivolta, vedi A. AQUARO , La rivolta degli studenti californiani, ivi , 21/11/09, p. 21; F. RAMPINI, Tra i nuovi ribelli di Berkeley, ivi, 7/12/09, pp. 33-35.
298 I soviet di Pietroburgo, si chiamavano soviet degli operai , dei contadini e dei soldati, ne fu presidente Trotsky, che non apparteneva a nessuna di queste tre categorie.
299 Vedi A. SAHNI, op. cit., p. 67.
300 Vedi retro par. 3.
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