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Cambiamenti nella distribuzione del reddito, disordine finanziario e crisi

Aldo Barba e Massimo Pivetti

Saggio preparato per il convegno LA CRISI GLOBALE. CONTRIBUTI ALLA CRITICA DELLA TEORIA E DELLA POLITICA ECONOMICA (Siena 26-27 Gennaio 2010)

Sommario
Questo lavoro riprende, ampliandole, le tesi contenute in un saggio sottoposto nel luglio 2007 al Cambridge Journal of Economics e pubblicato nel gennaio del 2009. Analizziamo in primo luogo le principali spiegazioni della crisi fornite dalla letteratura negli ultimi due anni, soffermandoci in particolare sulla tendenza ad individuarne l’origine negli errori di conduzione della politica monetaria, da un lato, e in squilibri nei flussi internazionali di risparmio, dall’altro. In entrambi i casi, bassi tassi di interesse avrebbero attivato fenomeni di ‘irrazionalità esuberante’ in un contesto finanziario eccessivamente deregolamentato, generando la crisi. Contrapponendosi a questa impostazione, l’origine della crisi viene da noi ricondotta all’insostenibilità del crescente indebitamento delle famiglie, a sua volta prodotto dai cambiamenti nella distribuzione del reddito avvenuti negli ultimi decenni: il debito delle famiglie è interpretato come un determinante della crescita dei consumi alternativo alla crescita salariale, argomentandosi che questa forma di sostegno dei livelli di attività non sarebbe stata sostenibile nel lungo periodo.

Dai nostri contributi emerge dunque una spiegazione essenzialmente reale della natura della crisi, nell'ambito della quale il ‘disordine finanziario’ figura in primis come un effetto piuttosto che una causa. E' da questa prospettiva che sviluppiamo poi un confronto tra debito pubblico e debito privato come strumenti alternativi di sostegno della domanda, evidenziando come l'insostenibilità della crescita del debito privato, rendendo alla fine necessaria la sua sostituzione con debito pubblico, abbia comunque portato ad un enorme espansione di quest'ultimo, finalizzata però ad evitare il collasso del sistema piuttosto che a sostenerne la crescita. Discutiamo al riguardo gli effetti delle politiche di monetizzazione del debito degli intermediari finanziari, anche alla luce del problema dei compiti e dell’indipendenza politica delle Banche Centrali. L’ultima parte del lavoro è dedicata all’analisi delle implicazioni di politica economica delle interpretazioni della crisi, e pone a confronto le diverse linee di intervento che discendono dal ricondurla a fattori di natura reale anziché a fattori di natura finanziaria.

 

Introduzione

Intendiamo in questo saggio discutere le principali interpretazioni della crisi offerte dalla letteratura economica degli ultimi due anni e le linee di intervento più frequentemente suggerite per uscirne. Come vedremo, il punto di vista dominante tende a circoscrivere al settore finanziario tanto l’origine che la soluzione della crisi. In contrasto con questo punto di vista, riproporremo gli argomenti principali dell’analisi da noi sviluppata in un contributo sull’indebitamento delle famiglie americane e le sue implicazioni di lungo periodo, scritto prima dello scoppio della crisi. Da quel contributo emerge una spiegazione essenzialmente reale degli squilibri che si vanno oggi osservando, nell’ambito della quale il ‘disordine finanziario’ figura in primis come un effetto piuttosto che una causa. La natura ‘reale’ della crisi è da noi colta collegando il crescente indebitamento della famiglie americane con i cambiamenti della distribuzione del reddito avvenuti negli ultimi trenta anni. Il mutamento nella distribuzione è quindi individuato come il determinante fondamentale della crisi, piuttosto che come un effetto dell’accresciuto peso del settore finanziario nell’economia. Dal confronto tra le interpretazioni prevalenti della crisi e quella da noi proposta emergono linee di politica economica alternative che alla fine del saggio cerchiamo di esplicitare.


I

I. 1 L’analisi della crisi economica e finanziaria in corso pone due diverse questioni: quella delle sue cause, prossime e ‘meno prossime’, e quella delle sue modalità di propagazione. Il dibattito corrente si è concentrato sugli aspetti relativi alle modalità con cui la crisi si è propagata -inversione della leva finanziaria, rarefazione della liquidità(1) - come pure su molti aspetti concernenti gli interventi delle Banche Centrali nella gestione dell’emergenza - prestito di ultima istanza e offerta di vari tipi di garanzie pubbliche(2). Il tema delle modalità di propagazione ha investito anche l’analisi degli effetti della crisi finanziaria sull’economia reale: contrazione dell’offerta di credito e conseguente riduzione dei livelli di attività e occupazionali. Da qui il riconoscimento di una interazione tra instabilità finanziaria e instabilità reale, che resta però generalmente circoscritto ad un ambito in cui è il disordine finanziario ad aver disturbato un corso degli affari che per altri versi si sarebbe svolto ordinatamente(3). E quando nella letteratura più recente si è fatto cenno a fattori di instabilità reale come causa ‘meno prossima’ del disordine finanziario, non si è andati oltre il riconoscimento di una sottovalutazione delle possibilità di rischio sistemico, alimentata da una fiducia eccessiva nell’idea che l’instabilità macroeconomica fosse stata sradicata(4) .

Tuttavia, il problema di individuare le origini della crisi si pone anche per le concezioni che tendono a ricondurla a fenomeni di natura monetaria e finanziaria. Non tenendo conto delle analisi in cui l’esame delle cause della crisi viene di fatto a coincidere con la descrizione delle sue modalità di propagazione, le spiegazioni che vanno imponendosi ruotano intorno a due diversi temi. Il primo tema riguarda il ruolo delle Banche Centrali e della conduzione della politica monetaria negli anni che precedono l’emergenza. Una politica di tassi di interesse ‘troppo bassi per un periodo di tempo troppo lungo’ avrebbe favorito gli appetiti di prenditori irrazionali, spingendoli ad entrare in posizioni debitorie finalizzate ad attività speculative che avrebbero dovuto coprirne l'esposizione e garantire considerevoli guadagni in conto capitale. Declinata diversamente, questa spiegazione accomuna tanto economisti di tradizione Keynesiana (cfr. Leijonhufvud, 2009) quanto economisti che tendono ad escludere l’esistenza di limiti di domanda al prodotto in un ambito non ristretto al breve periodo e a disturbi di carattere accidentale. La seconda spiegazione è incentrata sul tema delle ripercussioni monetarie e finanziarie degli squilibri globali nei flussi di risparmio. L’eccesso di offerta di risparmio sui mercati finanziari internazionali, e non l’errore di conduzione della politica monetaria della Federal Reserve, avrebbe originato i bassi tassi di interesse statunitensi, alimentando così l’eccessiva estensione del credito e la conseguente degradazione della qualità dei prenditori. Analizziamo queste due spiegazioni in maggior dettaglio.


I. 2 Secondo molti autori la crisi nascerebbe dal fatto che i cambiamenti degli ultimi decenni nel settore finanziario hanno mutato la natura dei rischi gestiti dagli intermediari finanziari. Si fa soprattutto riferimento, da una parte, al nuovo contesto deregolamentato e allo sviluppo di nuove istituzioni finanziarie; dall’altra alla tendenza, anche da parte delle stesse banche tradizionali, a non assumere rischi in proprio trasferendoli ad entità fuori bilancio (SIVs – Structured Investment Vehicles) e agli investitori (il modello di intermediazione cosiddetto OTD - originate to distribute)(5). Questi cambiamenti avrebbero accresciuto la concorrenza all’interno del settore, spingendo le istituzioni che vi operano ad assumere e distribuire rischi molto elevati, ma nascosti agli investitori, per poter conseguire rendimenti altrettanto elevati e surclassare in tal modo i concorrenti. Politiche di moneta a buon mercato avrebbero aggravato la situazione tenendo basso il rendimento dei titoli privi di rischio e quindi accrescendo l’incentivo degli operatori ad aumentare il grado di rischiosità degli impieghi, in vista dei ben più elevati rendimenti in tal modo ottenibili(6). Da qui lo sviluppo dei prestiti a soggetti con scarso merito di credito, il boom dei valori immobiliari, gli effetti ricchezza, le consistenti ‘estrazioni di liquidità’, l’esuberanza consumistica e quindi gli squilibri nei conti con l’estero. Il rimedio a tutto ciò viene individuato in una regolamentazione finanziaria e in una politica monetaria capaci di “impedire alle forze di mercato di generare rischi eccessivi”, evitandosi tuttavia di cadere in un eccessivo interventismo(7).

A parte la proposta di costringere i responsabili delle istituzioni finanziarie a impegnare una parte della loro ricchezza e/o delle loro remunerazioni nei fondi da essi gestiti(8), questa impostazione della questione in termini di “gestione adeguata dei rischi” non appare molto promettente. Da un lato, va considerata la complessità tecnica di una supervisione e di un controllo efficaci della gestione dei rischi all’interno del settore finanziario, complessità che si manifesta in modo chiaro non appena la proposta venga formulata in dettaglio(9). Dall’altro, è piuttosto difficile concepire che la politica monetaria – più precisamente, la politica del tasso di interesse – possa essere subordinata all’obiettivo di “ridurre i rischi di instabilità finanziaria”, ossia, secondo il punto di vista in esame, venire via via condotta in modo tale da contenere gli incentivi degli intermediari finanziari ad assumere rischi eccessivi(10).

La necessità di innovazioni nel sistema di gestione dei rischi, attraverso la costituzione di “una nuova struttura finanziaria per l’intera popolazione”, è invocata anche da chi individua l’origine della crisi in fattori psicologici, vedendola essenzialmente come l’effetto di processi di contagio di idee e comportamenti umani irrazionali, in situazioni di insufficiente informazione(11). E proprio per arginare i problemi causati da carenze di informazione non superabili grazie ad una maggiore regolamentazione, si ritiene che la completa prevenzione di crisi come quella in corso richiederebbe uno sviluppo ulteriore dell’ingegneria finanziaria, nella direzione della creazione di una rete di istituzioni in grado di fornire una copertura assicurativa generalizzata dei rischi e svolgente un ruolo analogo, ma molto più esteso, a quello svolto in passato dalle “istituzioni caritative”(12). Questa soluzione sostanzialmente presume che una copertura assicurativa generalizzata possa essere garantita grazie alla ‘comunione tecnica dei rischi’ - da realizzarsi eventualmente tramite l’intervento pubblico, quando circostanze specifiche non consentano ad operatori privati di nascere e operare con profitto - a meno di eventi catastrofici del tutto eccezionali. In quest’ottica, la crisi in corso si configurerebbe appunto come uno di questi eventi, sicché, contrariamente a quanto l’esperienza del fallimento di AIG sembrerebbe suggerire, essa non contraddirebbe la possibilità di successo in condizioni normali di schemi assicurativi del tipo indicato(13).

Da questa letteratura che vede in processi di natura monetario-finanziaria e nella “tecnologia finanziaria” l’origine e la soluzione della crisi emerge la preoccupazione che la perdita di fiducia nel sistema economico da essa provocata possa generare reazioni di rigetto del sistema sociale nel suo complesso (cfr. ad es. Shiller 2008, pp. 100-101). Particolarmente esplicito al riguardo è Acemoglu, per il quale “il rischio di un crollo della fiducia nel sistema capitalistico non dovrebbe essere ignorato”:

We may see consumers and policy makers start believing that free markets are responsible for the economic ills of today and shift their support away from the market economy. We would then see the pendulum swing too far, taking us to an era of heavy government involvement. ... I believe that such a swing and the anti-market policies that it would bring would be the real threat to the future growth prospects of the global economy. Restrictions on trade in goods and services would be a first step [and] more systematic proposals on trade restrictions and industrial policy may be around the corner. ... What we are experiencing is not a failure of capitalism or free markets per se, but the failure, in particular, of unregulated financial sector and risk management (Agemoglu 2009, p. 5).

Ben venga allora qualche forma di regolamentazione del settore finanziario, purché non vengano rimessi in discussione globalizzazione, concorrenza e flessibilità dei mercati del lavoro delle merci e dei capitali, e il ritorno a un maggior intervento dello Stato non rischi di cancellare i cambiamenti nelle condizioni di potere e distributive verificatisi nel capitalismo avanzato nel corso dell’ultimo trentennio.


I. 3 La seconda spiegazione della crisi si basa sull’idea che i paesi in via di sviluppo (ed in particolare la Cina), a causa di elevati tassi di risparmio e scarse opportunità domestiche di investimento abbiano rivolto il proprio interesse ai mercati finanziari anglosassoni. La crisi trarrebbe allora origine dall’eccesso di risparmio di alcuni paesi che si sarebbe risolto negli Stati Uniti e altrove in erogazioni di credito irresponsabilmente eccessive da parte degli intermediari finanziari. In sostanza, all’elevato risparmio non avrebbero corrisposto a livello mondiale occasioni d’investimento sufficienti ad assorbirlo; da qui la caduta dei tassi di interesse, le imprudenti erogazioni di credito, i boom dei valori immobiliari, l’eccessivo ricorso a prestiti da parte delle famiglie, e, infine, lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti e la conseguente contaminazione dei bilanci delle istituzioni finanziarie di tutto il mondo(14). La stessa creazione di nuovi strumenti finanziari, tanto altamente rischiosi quanto scarsamente compresi, sarebbe riconducibile, in questa visione, all’affannosa ricerca di impieghi redditizi nel mercato dei capitali, in una situazione caratterizzata da una domanda di fondi per investimenti produttivi relativamente scarsa.

Ecco allora le due principali spiegazioni correnti della crisi emergere in contrapposizione. Tassi di interesse troppo bassi per gli errori della politica monetaria, da un lato, e per l’eccesso di risparmio sui mercati finanziari internazionali, dall’altro. Per la prima, è il credito facile a generare lo squilibrio esterno; per la seconda, è lo squilibrio esterno a generare il credito facile.

Questa seconda spiegazione riporta l'attenzione sulla questione dell’impossibilità di superare la crisi solo grazie ad una ri-regolamentazione del settore finanziario e ad un mutamento negli orientamenti della politica monetaria. Tuttavia, essendo quest’impossibilità collegata allo squilibrio esterno, ciò che in tal modo si perde di vista è che, senza i cambiamenti nella distribuzione del reddito avvenuti negli ultimi decenni, la crescita della domanda interna negli Usa e in altri paesi a capitalismo avanzato avrebbe potuto essere la stessa di quella che si è verificata nella realtà grazie alla crescita del debito delle famiglie. Si sarebbe quindi potuto avere lo stesso andamento del loro indebitamento netto verso l’estero, riflettente le stesse eccedenze dei loro impieghi interni sulle risorse, ma la crisi non si sarebbe sviluppata nei termini in cui si è di fatto sviluppata, ossia come effetto di una crescita insostenibile del rapporto debito/reddito delle famiglie.

Il fatto è che la crescita di questo rapporto è stata del tutto indipendente dagli avanzi di parte corrente della Cina e di altri paesi, sia nel senso che la crescita del rapporto debito/reddito delle famiglie avrebbe potuto benissimo verificarsi anche senza quegli avanzi, sia nel senso che senza i cambiamenti nella distribuzione del reddito e la conseguente crescita del debito delle famiglie quegli avanzi si sarebbero comunque verificati. Non sono stati gli avanzi della Cina a finanziare i debiti della famiglie americane, cui hanno semplicemente corrisposto crediti del settore privato; quegli avanzi sono stati impiegati nell’acquisto di titoli del debito pubblico USA, tra la cui crescita e quella del debito delle famiglie non è individuabile, fino allo scoppio della crisi, alcuna relazione di causalità(15).

Lo squilibrio globale dunque non ha causato l'espansione del credito alle famiglie americane e si può dire che esso esisterebbe anche se quella estensione ‘generosa’ di credito non fosse avvenuta, magari rimanendo in tal caso allo stato latente a causa di un rallentamento della domanda mondiale e della crescita. Il punto è che in regime di libera circolazione di merci, lavoro e capitali, una crescita sostenuta della domanda interna è suscettibile di alimentare il problema dello squilibrio esterno, a prescindere dalle modalità di sostegno della domanda (crescita salariale, del debito privato o del debito pubblico). Queste modalità sono sì rilevanti, ma in quanto il processo di sostituzione di debito privato a salario e a debito pubblico è alla lunga insostenibile, come in effetti lo è stato sino a degenerare in crisi finanziaria.

La nostra argomentazione si contrappone ad entrambe queste spiegazioni della crisi oggi dominanti. Le cause della crisi non sono a nostro avviso di natura finanziaria, ma vanno piuttosto ricercate nelle modalità con cui sono stati di fatto contrastati gli effetti sulla domanda aggregata dei mutamenti nella distribuzione del reddito che si sono prodotti nel capitalismo avanzato negli ultimi trent’anni.


II

II. 1 Fino allo scoppio della crisi, la crescita del debito delle famiglie era vista con favore e normalmente spiegata, nei non numerosi contributi che affrontavano esplicitamente il tema, in termini di scelte intertemporali di consumo operate da individui razionali, a fronte di profili di reddito ‘a gobba’ nel corso del ciclo vitale, oppure instabili nel tempo. Diversamente da questi punti di vista, abbiamo sostenuto che il crescente indebitamento delle famiglie doveva essere interpretato essenzialmente come una reazione alla stagnazione dei salari reali e ad un ridimensionamento dello stato sociale, ossia come la contropartita di cambiamenti persistenti nella distribuzione del reddito. Evidenziammo, al riguardo, come a partire dai primi anni ottanta si fossero manifestati negli Stati Uniti i seguenti tre fenomeni: consistenti spostamenti nella distribuzione del reddito a danno delle famiglie a reddito medio-basso; un eccezionale caduta del tasso di risparmio personale; un massiccio incremento delle passività delle famiglie (vedi Figura 1 e cfr. Barba e Pivetti, 2009, pp.121-126). Nella nostra analisi, i fattori principali capaci di sostenere la propensione al consumo a fronte delle crescenti disuguaglianze distributive erano individuati nell’inelasticità del consumo delle famiglie rispetto a riduzioni dei loro redditi reali, nella disponibilità di nuovi beni e servizi, nella spinta al continuo aumento del tenore di vita e nell’imitazione delle classi agiate(16). L’allentamento dei vincoli di liquidità per le famiglie a reddito medio-basso – ossia la deregolamentazione finanziaria e tutti gli altri fattori che ne avevano favorito l’accesso al credito, a cominciare dalla loro accresciuta capacità di finanziare i consumi grazie a prestiti garantiti da ipoteca – avevano operato come mero fattore permissivo, grazie al quale i fattori di sostegno della propensione al consumo indicati erano stati effettivamente in grado di esercitare il loro effetto positivo sulla spesa delle famiglie.


Figura 1

Risparmio Privato in % del Reddito Disponibile (scala sinistra –linea spezzata)
Reddito al netto delle imposte dell’80% più povero della popolazione in % del Reddito Disponibile totale (scala destra – linea continua)

Attraverso l’indebitamento della famiglie sembrava così possibile si potesse realizzare il miglior risultato dal punto di vista del sistema capitalistico –fare cioè coesistere bassi salari reali e livelli elevati di domanda aggregata, senza bisogno di ricorrere all’intervento dello stato e all’espansione della spesa pubblica per assicurare la persistenza di questa coesistenza nel tempo. Il debito delle famiglie sembrava insomma in grado di fornire la soluzione alla contraddizione fondamentale tra la necessità, da un lato, di sostenere la crescita del prodotto effettivo con livelli di consumo alti e crescenti, e, dall’altro, condizioni antagonistiche nella distribuzione che limitano il reddito reale della grande maggioranza della società.


II. 2 Argomentavamo però che in realtà le cose non erano così semplici, come lo sviluppo degli eventi ha poi confermato. La questione centrale, a nostro avviso, concerneva la sostenibilità nel tempo di questo processo di sostituzione di prestiti a salari: sebbene il debito delle famiglie fosse andato esercitando un’importante influenza positiva sulla domanda aggregata e i livelli di attività, l’aspetto problematico riguardava la possibilità di garantire la solvibilità nel lungo periodo dei lavoratori indebitati. Sostenemmo, al riguardo, che mentre le ben note preoccupazioni relative alla sostenibilità di livelli di debito crescenti fossero generalmente infondate quando riferite al debito pubblico, nel caso del debito delle famiglie questi timori erano invece giustificati.

L’algebra che utilizzavamo per esaminare il problema era sostanzialmente quella normalmente impiegata per analizzare il rapporto tra debito pubblico e reddito totale e i determinanti del suo andamento. Anche rispetto al debito delle famiglie, il fattore cruciale era indicato nella differenza tra il tasso di interesse e il tasso di crescita del reddito, argomentandosi però che, mentre nel caso del debito pubblico il tasso di crescita del reddito totale non può considerarsi esogeno rispetto alla dinamica del debito, nel caso delle famiglie indebitate l’andamento dei loro redditi andava considerato come indipendente da quello dei loro debiti. I disavanzi di bilancio della famiglia del singolo lavoratore e la dinamica del suo debito naturalmente non influenzavano il suo salario, e, nelle condizioni considerate, ciò era sostanzialmente vero anche per l’insieme dei salariati. Infatti, la crescita del loro debito era proprio il riflesso della mancata crescita dei salari reali, o di una loro crescita inferiore a quella della produttività – una situazione, vale a dire, in cui la crescita del prodotto, sostenuta anche dalle spese per consumi finanziate in debito, si risolveva in aumenti del reddito totale che si concentravano sul 10% superiore della distribuzione del reddito. E anche qualora il reddito reale delle famiglie a reddito medio-basso fosse risultato in qualche misura influenzato positivamente dalla crescita del loro debito e da quella del prodotto effettivo(17), la differenza tra l’onere del debito e il tasso di crescita dei salari rimaneva in ogni caso troppo grande per essere compensata, sicché la stabilizzazione del rapporto debito/reddito delle famiglie avrebbe finito per richiedere comunque una contrazione dei livelli di consumo. Sottolineavamo come andasse tenuto presente al riguardo che nel contesto esaminato il tasso di interesse rilevante non era il tasso sulle attività finanziare a lungo termine prive di rischio, ma i tassi considerevolmente più alti applicati alle diverse forme di credito al consumo, e, inoltre, che per il debito privato non vi è naturalmente alcuna possibilità di accollarne allo stesso creditore l’onere del servizio, com’è invece in linea di principio possibile per il debito pubblico (cfr. Barba e Pivetti, 2009, p. 130).

Sostenevamo dunque che oltre un certo livello di indebitamento il servizio del debito delle famiglie sarebbe divenuto di fatto inesigibile e che perciò il processo di sostituzione di prestiti a salari non poteva procedere indefinitamente, per i salariati già in esso coinvolti, a meno di supporre irrealisticamente che il sistema creditizio avesse finito per corrispondere loro somme a fondo perduto, potendo contare su interventi sistematici a suo favore dal prestatore di ultima istanza. Ma ciò sarebbe equivalso ad ipotizzare una sorta di monetizzazione del debito delle famiglie, tramite la quale, in pratica, il prestatore di ultima istanza avrebbe finito per fornire ai salariati, attraverso il sistema creditizio, i mezzi finanziari necessari al mantenimento e all’incremento dei loro standard di vita.

Di fatto, la sostenibilità macroeconomica del processo di sostituzione di prestiti a salari era stata protratta nel tempo essenzialmente in due modi: 1) attraverso l’espansione continua della popolazione indebitata, ossia cercando di coinvolgere nel processo di indebitamento un numero sempre maggiore di lavoratori - indicavamo a questo riguardo come l’enorme espansione dei prestiti “sub-prime” negli anni precedenti lo sviluppo della crisi potesse essere considerata l’aspetto più significativo di questo primo modo di protrarre nel tempo il processo; 2) attraverso una politica di progressivo abbassamento dei tassi di interesse, come quella appunto perseguita dalla Federal Reserve nel corso del decennio 1995-2005. Rilevavamo tuttavia che il restringimento dei margini di una politica di moneta a buon mercato, o l’emergere di una situazione in cui il valore degli immobili fosse caduto più rapidamente di quanto potesse essere abbassato il tasso di interesse, avrebbe rapidamente esacerbato le difficoltà finanziarie delle famiglie a reddito medio-basso, determinando il calo del loro ricorso al prestito e dunque innescando il redde rationem del processo di sostituzione di prestiti a salari.

Partendo dall’individuazione dei limiti di questo processo di sostituzione di prestiti a salari, la nostra analisi poneva dunque il deteriorarsi della posizione debitoria delle famiglie all’origine della crisi in un senso ben diverso dal riconoscere che un segmento relativamente circoscritto del mercato finanziario – quello dei mutui “sub-prime” – potesse fungere, attraverso processi di contagio, da detonatore di disordini finanziari di più larga portata. L’estensione dei presiti a famiglie con scarso merito di credito non andava considerata come causa della crisi; andava piuttosto interpretata come tentativo di procrastinare il manifestarsi degli effetti sui consumi, e quindi sui livelli di attività, di una più generale precarietà dello stato di solvibilità delle famiglie. Del resto, molta letteratura economica che ha analizzato le modalità di diffusione della crisi ha evidenziato come le crescenti difficoltà in cui sono venute a trovarsi le istituzioni finanziarie a causa dei titoli della ‘finanza strutturata’(18) vadano ricondotte proprio al manifestarsi di livelli non previsti di insolvenza, non solo tra i prenditori “sub-prime”, ma anche tra le famiglie che avevano, sino ad allora, accumulato un buon merito di credito(19).


III

III. 1 Oltre al fallimento di lungo periodo di un processo di crescita basato sulla sostituzione di prestiti a salari, si può affermare che lo scoppio della crisi abbia fatto emergere anche un secondo fallimento, ovvero quello del tentativo di operare una sostituzione di debito privato a debito pubblico come strumento di sostegno dei livelli di attività. In particolar modo nel corso degli anni novanta, infatti, la massiccia espansione del debito delle famiglie si è accompagnata ad una prolungata quanto inusuale invarianza del livello assoluto dell’indebitamento del settore pubblico (vedi Figura 2). Gli effetti negativi sulla domanda dei cambiamenti nella distribuzione registrati nel corso dell’ultimo trentennio avrebbero allora potuto essere contrastati, alternativamente, tramite l’espansione di spese pubbliche finanziate ricorrendo all’indebitamento.


Figura 2

Debito delle famiglie (linea continua)
Debito Federale, Statale e delle Amministrazioni Locali (linea spezzata)
Milioni di dollari


Nel modo di ragionare prevalente, la preferibilità del debito privato rispetto al debito pubblico non si fondava sull’analisi della loro sostenibilità di lungo periodo (analisi che, come abbiamo argomentato, condurrebbe a concludere a favore del secondo); si fondava piuttosto sull’idea che mentre il debito privato risulterebbe dalla libera scelta degli agenti economici, il debito pubblico sarebbe invece il risultato di un’ ‘intrusione’ dello Stato nelle scelte di consumo e risparmio delle famiglie, inevitabilmente destinata a determinare un allontanamento da quella distribuzione ottimale del consumo nel tempo ritenuta capace di assicurare il massimo benessere. Da un tale punto di vista il debito privato avrebbe potuto risultare eccessivo solo nei limiti in cui comportamenti esuberanti di consumatori irrazionali li avessero spinti a non contenere i consumi entro i limiti del loro reddito permanente.

Ciò che merita ora rilevare è che la sostituzione di debito privato a debito pubblico che questa concezione giustificava sul piano teorico ha generato un esito paradossale. Non era difficile prevedere che non appena l’insostenibilità del debito delle famiglie si fosse manifestata, lo Stato sarebbe dovuto intervenire immettendo liquidità per acquistare crediti non più esigibili allo scopo di contenere l’impatto sugli intermediari finanziari, e attraverso questi sull’economia reale, dello stato di insolvenza delle famiglie indebitate (cfr. Barba e Pivetti, 2009, p.129). Ciò, com’è noto, ha comportato negli ultimi due anni un incremento senza precedenti del debito pubblico finalizzato ad evitare il collasso del sistema piuttosto che al sostegno della crescita, evidenziando così l’inanità del tentativo di contenere il debito pubblico attraverso il debito privato. E’ importante sottolineare che la crescita in atto del debito pubblico si configura solo in piccola parte come accollo da parte dello Stato del debito delle famiglie (essenzialmente si tratta solo di quella parte impiegata per risarcire i creditori delle famiglie fallite, e di quella utilizzata per finanziare programmi di spesa finalizzati ad agevolare una rinegoziazione del debito delle famiglie insolventi(20)). L’onere del debito privato perciò in larga misura permane e si somma quello di un debito pubblico crescente con l’effetto di ostacolare una ripresa del processo di crescita.


III. 2 Il massiccio ricorso negli ultimi due anni alla monetizzazione di attività illiquide del settore finanziario, finalizzata ad evitare il collasso del sistema, chiama poi in causa il ruolo della Banca Centrale. La questione, a nostro avviso, non riguarda l’opportunità o meno dell’intervento della Banca Centrale, quanto piuttosto il suo status quale organismo politicamente indipendente. Com’è noto, l’indipendenza della Banca Centrale è stata nell’ultimo trentennio sostenuta e in larga misura realizzata in virtù della convinzione pressoché universalmente condivisa che la politica monetaria non ha effetti reali nel lungo periodo e che la sua gestione debba essere affidata ad un organismo tecnico mirante a realizzare, al riparo da interferenze politiche, obiettivi di stabilità monetaria attraverso l’impiego di regole stabilite a priori. Ebbene, indipendentemente dal giudizio che si possa dare circa la plausibilità dell’idea che la politica monetaria sia neutrale nel lungo periodo, l’impiego di regole stabilite a priori avrebbe di fatto condotto nell’attuale contingenza al collasso del sistema. Ma una volta che si riconosca che dosi massicce di discrezionalità - non regole - dovevano necessariamente informare l’azione della Banca Centrale, le giustificazioni della sua indipendenza risultano inevitabilmente compromesse - tanto più compromesse quando si tenga conto del tipo di interventi che l’esercizio di questa discrezionalità ha suggerito(21). Ci riferiamo, in particolar modo, alla questione del se e a favore di chi intervenire, come pure agli ostacoli che gli interventi hanno apposto al potere disciplinare della concorrenza nel settore finanziario, sino a consentire la sopravvivenza di istituzioni private ‘troppo grandi per fallire’.

Oggi è forte la tentazione di difendere l’indipendenza politica della Banca Centrale, invece che restringendone il campo di applicazione, estendendolo sino ad includere l’obiettivo della ‘stabilità finanziaria’, da intendersi in un duplice senso: da un lato, come ricordato all’inizio di questo saggio nel discutere le interpretazioni della crisi, utilizzando il tasso di interesse come strumento di controllo non solo della dinamica dei salari monetari e dei prezzi dei beni, ma anche della dinamica dei prezzi delle attività reali e finanziarie; dall’altro, sostenendo, attraverso l’apertura di linee di credito potenzialmente illimitate, istituzioni finanziarie a rischio di fallimento ma che ‘non possono’ fallire(22). In tal modo, la dicotomia tra autonomia e discrezionalità verrebbe risolta ampliando la prima sino ad assorbire la seconda. Detto in altro modo, un potere già emancipatosi dalla responsabilità politica in nome della neutralità della sua azione nei confronti dei processi di produzione e distribuzione del reddito, troverebbe adesso proprio nella non neutralità e nell’ampliamento del suo raggio di azione la legittimazione della sua autonomia. Il corto circuito tra Banca Centrale e organismi rappresentativi finirebbe in tal modo per non essere più in alcun modo ricomponibile(23).


IV

IV. 1 Dal confronto tra le interpretazioni prevalenti della crisi e quella che siamo andati proponendo emergono linee di politica economica alternative.

Abbiamo visto nella prima sezione come i bassi tassi di interesse vengano frequentemente indicati nella letteratura recente come una delle circostanze principali che avrebbero favorito la tendenza degli intermediari finanziari ad assumere rischi troppo elevati, spesso nascosti agli investitori, favorendo così sia la speculazione che la frenesia consumistica. Alla luce invece della nostra interpretazione, la politica di moneta a buon mercato a lungo perseguita dalla Federal Reserve avrebbe svolto il ruolo importante di protrarre nel tempo il processo di sostituzione di prestiti a salari, contenendo nel corso degli anni novanta l’incidenza del servizio del debito sul reddito disponibile delle famiglie, nonostante la continua crescita del rapporto tra debito e reddito.

La concezione del ruolo dei bassi tassi di interesse come uno dei principali determinanti della crisi in corso prefigura, per il futuro, un criterio di gestione di lungo periodo della politica monetaria mirante a stabilizzare non solo il livello generale dei prezzi dei beni, ma anche il prezzo delle attività. Si tratterebbe, in altre parole, dell’inopportunità di perseguire una politica di denaro a buon mercato anche in contesti di bassa inflazione di origine interna. A chi invece giunga alla conclusione che le cause ‘meno prossime’ della crisi siano di natura reale, da ricercare in primis nei cambiamenti della distribuzione del reddito, orientamenti più restrittivi della politica monetaria non appariranno in grado di ridurre in futuro il rischio di crisi come quella in corso; al contrario, appariranno capaci di accrescerlo.

Considerazione analoghe possono essere sviluppate anche in riferimento alla tesi secondo cui la crisi finanziaria trarrebbe origine dall’eccesso di risparmio di alcuni paesi. Abbiamo visto infatti come anche secondo quella interpretazione i bassi tassi di interesse sarebbero stati alla base dei boom dei valori e dell’eccessivo ricorso al credito da parte della famiglie. I bassi tassi però non sarebbero il frutto di una politica monetaria “inadeguata”, ma la inevitabile conseguenza degli squilibri internazionali. Le linee di politica economica da adottare dovrebbero allora mirare ad una non meglio precisata ricomposizione di tali squilibri, in un contesto in cui andrebbe tuttavia salvaguardata la libera circolazione delle merci e dei capitali. A ben vedere, una soluzione della crisi coerente con la sua interpretazione in termini di squilibri dei flussi globali di risparmio passerebbe crucialmente per la possibilità di costringere i paesi creditori a ‘risparmiare di meno’ –ossia, o ad assorbire all’interno i loro attuali sovrappiù esportabili, oppure a subire contrazioni dei livelli di attività(24).

Secondo il nostro punto di vista, non è l’eccesso di risparmio estero che ha alimentato gli squilibri interni che hanno portato alla crisi; sono stati al contrario squilibri interni al capitalismo avanzato – più precisamente gli sforzi di isolare i livelli dell’attività economica interna dall’aumento delle diseguaglianze - che, da un lato, hanno condotto alla crisi, e, dall’altro, hanno generato il disavanzo estero. Ma è solo il primo aspetto che assume rilievo nel contesto che stiamo analizzando, in quanto il disavanzo estero si sarebbe formato a prescindere dalla modalità adottate per sostenere la domanda aggregata.


IV. 2 Si tratta a questo punto di provare a esplicitare le implicazioni di politica economica del nostro punto di vista. In primo luogo, avendo individuato in fattori di natura reale l’origine della crisi, riteniamo che questa non possa essere ricomposta solo con interventi mirati alla cessazione del disordine finanziario. Naturalmente, come già osservato, non è per noi in discussione la necessità di interventi delle Banche Centrali volti ad evitare il collasso del sistema. Il punto però è che il ‘risanamento finanziario’ non è di per se in grado di promuovere la ripresa del processo di crescita.

Soddisfatta la condizione necessaria della cessazione del disordine finanziario, la ripresa del processo di crescita resterebbe comunque ostacolata da un complesso di circostanze avverse. In primo luogo, il persistente zavorramento da debiti delle famiglie – la monetizzazione, come abbiamo osservato, ha prevalentemente riguardato non i loro debiti ma quelli degli istituti finanziari – sta ora operando come fattore di contenimento della domanda. In secondo luogo, la persistente caduta dei livelli occupazionali genera un ulteriore contenimento della domanda, sia attraverso la riduzione del numero dei salariati che attraverso il suo impatto negativo sulla dinamica dei salari. La crisi, in altre parole, tende ad amplificare gli squilibri reali che l’hanno originata e quindi ad autoalimentarsi. In terzo luogo, un orientamento in senso espansivo delle politiche di bilancio appare in parte compromesso dal consistente incremento del debito pubblico generato dai salvataggi degli istituti finanziari.

Quest’ultimo punto ci sembra meritevole di particolare attenzione. Ciò perchè cambiamenti nella distribuzione primaria in senso opposto a quelli verificatisi nell’ultimo trentennio richiederebbero in ogni caso tempi lunghi per dispiegarsi, anche se fosse già oggi diffusa la consapevolezza dell’importanza per la crescita di un mutamento delle condizioni distributive. Si tratterebbe infatti di por mano nientemeno che alla correzione del complesso dei fattori individuabili come i determinanti fondamentali del crollo della forza contrattuale dei salariati– dalla caduta del tasso di sindacalizzazione all’accresciuta ‘flessibilità’ delle istituzioni del mercato del lavoro e delle forme contrattuali che lo regolano, come pure, più in generale, alla pressoché completa liberalizzazione dei movimenti internazionali di merci, lavoro e capitali.

Il problema allora degli ostacoli ad una robusta espansione dello stato sociale diviene di importanza cruciale, in quanto essa è individuabile nelle presenti condizioni come unica modalità residua per la ripresa di un processo di crescita. Laddove come negli Stati Uniti d’America questa ripresa è considerata un obiettivo irrinunciabile, sembra infatti irrealistico pensare che la spesa per nuove avventure militari possa oggi costituire un’alternativa.

 

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Note

1 Vedi, ad esempio, Adrian e Shin (2009) per una descrizione del fenomeno dell’inversione della leva finanziaria degli istituti di credito e Coval et al. (2009) per una discussione circa la perdita di valore dei titoli della finanza strutturata a fronte del verificarsi di non previsti livelli di insolvenza. Vedi anche EU (2009) per una generale descrizione del “set chain of events”.

2 Vedi, per una disamina dei principali interventi effettuati dalla Federal Reserve e dalla BCE, Bernanke (2009) e Trichet (2009).

3 Specialmente nel primo anno della crisi, sono numerosi i riferimenti ad un presunto stato di salute dell’economia reale che, in contrapposizione al disordine finanziario, proverebbe l’assenza di cause reali della crisi. La forte enfasi che oggi si pone sull’insufficienza del credito alle imprese (suggerendo che senza questo razionamento gli investimenti crescerebbero), rafforza l’idea di ostacoli di natura finanziaria alla naturale tendenza del sistema economico ad operare in corrispondenza della produzione potenziale. Per un’analisi delle mutate modalità di concessione del credito bancario all’intensificarsi della crisi, cfr. Ivashina e Scharfstein (2008).

4 Cfr, ad esempio, Acemoglu, 2009, pp.1-3.

5 Si veda, ad esempio, Financial Stability Forum, 2008, pp.9 e seguenti.

6 Per un’analisi dei canali attraverso i quali i bassi tassi di interesse avrebbero accresciuto la rischiosità degli impieghi degli intermediari finanziari, vedi Gambacorta (2009).

7 Cfr. su ciò anche più avanti pp. 6-7 e la sezione IV.

8 Di una tale proposta di fatto si riconosce, alla luce dell’esperienza, l’efficacia limitata: “The managers of LTCM did have substantial stakes in their enterprise” (Rayan, 2005, p. 357).

9 Rajan ad es. precisa che sarebbe necessario “for supervisors to gauge the risk management structure of the institution, the risks models the institution uses, as well as to require stress tests/reports of sensitivities of portfolios to changes in macro variables or correlations with other asset prices” (Rajan, 2005, p. 354).

10 Sull’interconnessione tra stabilità finanziaria e politica monetaria insistono sopratutto Adrian e Shin (2008). Partendo dalla considerazione che il sistema finanziario nel suo complesso detiene attività illiquide a lungo termine finanziate con passività a breve, i due autori argomentano che la situazione di liquidità e debitoria degli intermediari finanziari influisce sull’offerta di credito e ha dunque effetti reali (specialmente attraverso l’incidenza dell’offerta di credito – precisano gli autori - sui consumi di beni durevoli e gli investimenti in abitazioni). La politica monetaria dovrebbe allora essere condotta in modo tale da evitare che si formino “frizioni” nell’offerta di credito – in particolare, andrebbero evitate politiche del tasso di interesse suscettibili di tradursi in forti aumenti dell’indebitamento del settore finanziario e infine nel crollo dell’offerta di credito, non appena il deterioramento delle condizioni finanziarie spinga a ridurre precipitosamente esposizioni divenute eccessive.

11 Shiller ad es. scrive che “[t]hose who bought residential-mortgage-backed securities based on subprime mortgages typically did so with little more information than that contained in the ratings given by the rating agencies. ... [It is necessary] to develop new presentation modes, going beyond the traditional securities ratings. There should be more simple, standardized disclosure modes, analogous to the standardized nutrition labelling on packages of food, that make it very easy for people to assess risks” (Shiller 2008, pp. 135 e 137).

12 Cfr. Shiller 2008, pp. 174-75. Qualche perplessità sulla saggezza di questa soluzione sembra sfiorare anche il suo stesso propugnatore: “The long-term solution that I have offered here may strike some as rather unexpected. Suggesting as it does the further development of our financial markets and institutions, freeing them to work better, the solution may seem to be moving us in exactly the wrong direction” (ibid., p. 172). Per un’esposizione senza incertezze dell’idea che la prevenzione dei disordini finanziari che oggi si osservano possa essere assicurata da un ulteriore sviluppo dell’ingegneria finanziaria – in particolar modo da un rafforzamento del mercato dei titoli derivati – vedi Scholes, 2009, pp.109 e seguenti.

13 Del resto, nei limiti in cui la crisi sia vista come un evento catastrofico del tutto eccezionale – dunque come un evento rispetto al quale il calcolo quantitativo della probabilità non è applicabile – è la nozione di incertezza, piuttosto che quella di rischio, che si tenderà a considerare specialmente pertinente. E una volta che al centro dell’attenzione sia stata posta l’incertezza, la questione economica principale apparirà essere non tanto quella di riuscire a comprendere come date condizioni economiche – ad esempio un aumento significativo delle diseguaglianze distributive – possano causare una crisi economica generale, quanto quella di prepararsi ad affrontare adeguatamente eventi drammatici e incerti, ponendosi domande del tipo: “cosa succederebbe in caso di crollo improvviso dei prezzi delle case e di diffusa insolvenza delle famiglie?” (Cfr., ad esempio, Hodgson, 2009, p.2117; vedi anche Posner, 2009).

14 Cfr., ad esempio, Caballero et al. (2008). La spiegazione della crisi in termini di eccesso di risparmio da parte dei paesi in via di sviluppo è quella verso la quale propendono gli ambienti ufficiali americani (cfr. in merito ERP, 2009, pp.63-64).

15 Non si intende con ciò negare la rilevanza della questione degli squilibri globali, ma riteniamo che gli avanzi delle partite correnti della Cina e di altri paesi avrebbero potuto al più sfociare in una crisi valutaria. E un’improbabile fuga precipitosa dal dollaro (non semplicemente una sua svalutazione contenuta) avrebbe forse potuto essere causa di una crisi economica altrettanto generale di quella corrente, ma dallo svolgimento completamente diverso. D'altronde, com’è stato osservato, “central banks and other non-resident investors continue to hold and rapidly accumulate US Treasury Securities at even lower yields than before the subprime crisis appeared” (Dooley et al., 2008, p.5).

16 Quella da noi utilizzata è una funzione del consumo alla Duesenberry in cui la spesa delle famiglie a reddito medio-basso dipende, oltre che dal livello assoluto del loro reddito corrente disponibile, anche dal loro reddito passato e dal reddito corrente delle classi agiate. Incrementi delle disuguaglianza distributive possono in tal modo accompagnarsi ad un aumento della propensione al consumo della collettività, invece che ad una sua riduzione. Vedi a riguardo Barba e Pivetti, pp.123-126 e App. I.

17 Essenzialmente attraverso un incremento del numero delle ore lavorate dagli uomini e l’aumento del numero delle mogli e delle madri occupate al di fuori dell’ambito domestico.

18 Cfr., ad esempio, Coval et al. (2008).

19 Si noti, al riguardo, che se al manifestarsi dei primi disordini finanziari la crescita del ‘delinquency rate’ (la percentuale delle famiglie in ritardo sui pagamenti per più di sessanta giorni) e la vendita all’incanto delle case delle famiglie insolventi avevano interessato prevalentemente prenditori con scarso merito di credito, a partire dal secondo trimestre del 2008, ovvero ancor prima che la crisi iniziasse ad influenzare negativamente i livelli occupazionali, la crescita del ‘delinquency rate’ e delle ‘foreclosures’ è stata alimentata quasi esclusivamente dai ‘prime borrowers’. Tra questi ultimi vi sono oggi più del 50% dei prenditori in ritardo sui pagamenti, percentuale in crescita e ben più elevata di quella dei prenditori “sub-prime”, oggi invece in calo. Analogo è il dato relativo all’andamento delle vendite all’incanto. Cfr., in merito, Sidel (2009).

20 Per un esame degli interventi effettuati a sostegno delle famiglie indebitate in relazione alla più generale azione di supporto delle istituzioni finanziarie, vedi Elmendorf (2009), in particolare alle pp.17-20.

21 Si noti come la questione della difesa dei fondamenti teorici dell’autonomia della Banca Centrale sia strettamente connessa all’idea secondo cui la crisi finanziaria sia da attribuire, in ultima analisi, agli errori nella conduzione della politica monetaria. Se infatti la crisi fosse stata realmente causata da un’applicazione errata di regole a priori, gli eventi correnti non comprometterebbero in alcun modo la giustificazione dell’autonomia della Banca Centrale basata sulla ‘non-discrezionalità’ delle sue scelte. Per una spiegazione della crisi incentrata prevalentemente su errori d’applicazione della ‘Taylor rule’ negli anni ad essa precedenti (un presunto ritardo di due anni nel rialzo dei tassi effettivamente avviato nella seconda metà del 2004), cfr. Taylor (2008) e Taylor (2009).

22 Per un analisi dei nuovi compiti di tutela della stabilità finanziaria da attribuire al Banchiere Centrale, cfr. Crockett, 2009, pp.140-144. Per un diverso concetto di stabilità finanziaria, da sempre incluso tra gli obiettivi della Banca Centrale e connesso con la funzione classica di prestatore di ultima istanza - che non include né la stabilizzazione dei prezzi delle attività reali e finanziarie né il sostegno di istituzioni troppo grandi per fallire - cfr. Capie e Wood, 2008, pp.11-24; vedi anche Fratianni, 2008, pp.187-91.

23 Merita osservare che sulla questione vi è un’importante differenza tra Europa e Stati Uniti. Mentre in Europa l’indipendenza politica della Banca Centrale non appare oggi in alcun modo in discussione, negli Stati Untiti si è aperto sulla questione un intenso dibattito centrato sull’idea che la già più limitata indipendenza della Federal Reserve debba essere ulteriormente ristretta (vedi, ad esempio, Paletta e Hilsenrath, 2009 e Andrews, 2009). Chiaramente schierato a difesa di ‘autonomia cum discrezionalità’ resta ad ogni modo il governatore della Fed, secondo il quale, per la migliore conduzione possibile di una politica monetaria in grado di preservare la stabilità finanziaria dalle minacce di questa nuova era di turbolenza ed incertezza, “mantaining flexibility and an open mind will be essential” (Bernanke, 2010, p.22).

24 Una svalutazione sufficientemente forte del dollaro potrebbe costringere i paesi creditori a ‘risparmiare meno’. Ma date le condizioni distributive interne dei paesi creditori, l’esito pressoché certo di questo mezzo di ricomposizione degli squilibri internazionali sarebbe la contrazione dei loro livelli di attività. Per una convinta difesa della svalutazione del dollaro come strada maestra per ricomporre gli squilibri globali, vedi Feldstein (2008).

 

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