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poliscritture

Fortini, la Cina di Mao e Solženicyn

di Ennio Abate

Replico   ad un commento di Roberto Buffagni apparso sotto  l’articolo “Migrazioni: punti di vista in contrasto” (qui). Lo riporto per comodità  all’inizio del post. [E. A.] 

GULAGRoberto Buffagni 17 agosto 2017 alle 13:57

Caro Ennio,
in breve:

1) Cina, Cambogia, Manifesto, Fortini. Non ho voglia di fare ricerche in biblioteca per documentare gli abbagli della “sinistra critica” sul compagno Mao e il compagno Pol Pot, ci sono e chi ha la nostra età se li ricorda. Fortini, che era una persona intelligente, di Pol Pot non si innamorò mai, della Cina di Mao sì, come attesta “Asia maggiore”, 1956, un diario di viaggio in Cina in cui Fortini, oltre a scrivere delle belle pagine impressionistiche su paesaggio della Cina e contadini cinesi, fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager (il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima, NON ci è cascato, probabilmente uno dei motivi per cui è diventato fascista è proprio quel viaggio). In quegli anni Cinquanta, uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra. Fortini non è il solo a sorvolare, c’è un interessante scambio di lettere tra Piero Calamandrei e suo figlio, allora giornalista dell’Unità che si occupava dell’Oriente, in cui Piero chiede notizia degli sterminati, se sia vero o no, o aggiunge che se fosse confermata la notizia sarebbe grave PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso (Calamandrei non era neanche comunista, ma azionista). Se serve ho anche il riferimento bibliografico. Con questo non voglio dire tutti cretini o fanatici i sinistri, voglio dire che sarebbe ora di lasciar perdere questa storia della superiorità morale della sinistra (specifica tu quale che mi va bene) in quanto essa sinistra cià la supergiustificazione etica di volere il riscatto dell’umanità eccetera. Il campo avverso al tuo di porcate non ne ha fatte meno, non mi metto a fare la conta dei morti. Però veramente basta con questo fine superiore e umano che dà il sigillo di garanzia a tutto, perfavore, ci vuole l’apocalissi nucleare per farvela smettere? Parlare a nome dell’umanità evidentemente dà alla testa, un po’ di modestia mai?

[…]

3) il problema di fondo di questa supergiustificazione etica della sinistra garantita dal fine superiore e umano che essa persegue è questo: a) giustifica ogni porcata e giustifica anche il patetico e postumo “scusa, ci siamo sbagliati, faremo meglio la prossima volta”, il “ritenta, sarai più fortunato” del grattaevinci cosmico b) cosa più grave, porta chi ci crede a implementare linee politiche e culturali che funzionerebbero solo se tutti fossimo buoni. Siccome poi non è vero che siamo tutti buoni, le suddette linee provocano disastri tremendi, e i loro autori, invece di dirsi “non abbiamo capito niente”, danno la colpa alla società che non li sta a sentire e che impedisce all’universale bontà potenziale degli uomini di attualizzarsi.

4) Mi viene in mente adesso, a difesa di Fortini, che in una sua recensione a Solgenitsin (digressione: meritorio che lo recensisse, mi disse una sera a cena Domenico Porzio, allora alto dirigente di Mondadori, che per il lancio di “Arcipelago Gulag” non trovava nessuno che lo recensisse); in una sua recensione a S., Fortini dice: “il discorso di S. è tutto neocristiano. Se ha ragione lui abbiamo sbagliato tutto”. E in effetti, è proprio così: lui e in generale i comunisti, ortodossi e no, hanno sbagliato tutto. Non nel senso che tutto ciò che hanno fatto è merda, ma nel senso che il celeberrimo fine superiore di riscatto dell’umanità eccetera, E’ SBAGLIATO, ripeto sbagliato. Mi dispiace, ma è andata così. E’ capitato altre volte ad altri, nella storia, farsene una ragione mai? Rivedere almeno le linee strategiche di fondo, no? Conservare i principi e le intenzioni, sì, ricascare negli stessi errori, per favore, no. Si possono anche fare sbagli diversi, santo Dio, un po’ di novità…

* * * *

Ennio Abate

1.

Gli abbagli (che non sono solo quelli della sinistra o della “sinistra critica”) ci sono sempre stati, ma è bene confrontare abbagli e abbagli.  «Asia maggiore» è un diario di viaggio del lontano 1956. (Per la precisione dell’aprile ’56, cioè prima dell’invio dei carri armati sovietici a Budapest, avvenimento che fece poi da spartiacque sia nella biografia di Fortini, il quale uscì dal PSI, che di molti altri intellettuali). Affermare, come fai, che Fortini  «fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager» è ingiusto e scorretto. Ricorri pigramente ad un clichè propagandistico (”di destra”). Tanto più che, come esempio positivo, gli contrapponi « il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima». Io preferisco la ricerca della verità storica all’«uso pubblico della storia» dei mass media. Perché non è quasi mai liquidatoria né si permette giudizi definitivi. E spesso sa mettere in luce non solo gli orrori ma anche quel tanto di più vero e più giusto che i politici, la gente comune e gli intellettuali riescono a pensare e a fare nei loro anni di vita pubblica attiva.

2.

Fortini non fu un credulone. Fu uno dei pochi intellettuali che, assieme a Carlo Cassola, Curzio Malaparte, Carlo Bernari, Goffredo Parise, Giorgio Manganelli, Alberto Arbasino, Luigi Malerba, Alberto Moravia, prese sul serio la Cina maoista, quando essa era ancora ignorata e snobbata da quasi tutti. E al suo sguardo critico su quel Paese e su quella antica civiltà contribuì potentemente la sua amicizia e collaborazione con Edoarda Masi. Che, saggista e conoscitrice della Cina e della lingua cinese oggi del tutto dimenticata,  seppe in «Per la Cina» riassumere in modi niente affatto apologetici la sua lunga esperienza delle cose cinesi, tenendo conto anche della svolta avvenuta tra la morte di Mao e la caduta della “Banda dei Quattro”.

3.

Certo, Fortini sperò molto sulla Cina e ne parlò come di un “paese allegorico” o la pensò come l’«altra faccia della luna» o, ancora,  come un “paese del possibile” e vide «nei contadini cinesi non il passato, ma il futuro della liberazione degli uomini» (D. Santarone, Introduzione alla riedizione di «Asia maggiore», p. 13, manifestolibri, Roma 2007). Ma i suoi abbagli in parte  erano inevitabili , non dovuti cioè solo all’ideologia o all’immaginario di partenza che sempre s’infiltrano anche nelle menti più lucide. Edoarda Masi, nella postfazione alla medesima riedizione di «Asia Maggiore», ricorda che, quando Fortini partecipò assieme a politici ed intellettuali vari (Calamadrei, Bobbio, Cassola, Trombadori, Musatti, Treccani, Antonicelli) a quel primo viaggio in Cina, organizzato dal Centro studi per le relazioni con la Cina di Ferruccio Parri : «il dopoguerra si era concluso da poco – i viaggi intercontinentali non erano frequenti per i comuni cittadini, specie verso l’Asia orientale (già muoversi per l’Europa aveva un carattere di esplorazione che i giovani d’oggi non saprebbero comprendere)». E poi opportunamente aggiunge: «Nel corso di viaggi brevi in paesi poco conosciuti esiste per tutti una difficoltà nella ricerca di un rapporto con le persone, che è inevitabilmente per gran parte immaginario. Il viaggiatore non sperimenta una convivenza ma solo incontri occasionali, dove ciascuno non è se stesso ma il ruolo che riveste. Allora al posto degli esseri viventi appaiono i tipi, i concetti o le figure – senza garanzia alcuna di corrispondenza col “reale” (se reale è – come io penso – unicamente il rapporto che intercorre fra l’uno e l’altro)» (p. 261 «Asia Maggiore»). Per cui alle «tentazioni dell’esotismo» (p. 262)  fu soggetto anche Fortini e  questo suo primo libro sulla Cina «riflette le condizioni e anche i limiti del tempo in cui è stato scritto: si trattava dei primissimi approcci con l’immenso paese e con la sua rivoluzione, non erano ancora emerse le differenze profonde dal socialismo dell’Unione Sovietica né le strategie divergenti all’interno del partito comunista» (p. 262).

4.

Troppo facile è oggi sbeffeggiare quel suo atteggiamento, che era di «simpatia vigile e critica» (p. 262). Bisognerebbe, invece, riconoscergli una grande capacità «a confrontarsi, a guardarsi dentro, a chiedersi chi si sia» in rapporto a quella realtà in gran parte tuttora ignota. C’erano nel suo sguardo due cose fondamentali: un’attenzione ammirevole all’umano nella sua concretezza e «l’opposizione al cinismo da classe dirigente che guarda dall’alto» (p. 263). Fortini sbagliò a cogliere  «la grandezza di un comunismo nella gente ”tutta nata nuova”(come aveva scritto della Milano operaia del nostro dopoguerra)» che oggi pare del tutto fantasticato? Ma, nota sempre la Masi, in lui «allegoria non significa mancanza di attenzione ai fenomeni reali». Sono continui, infatti, «la cura e il tormento» per capire che cosa accadeva». Si rileggano, infatti, i saggi intitolati «Paesi allegorici» in «Questioni di frontiera», Einaudi, Torino 1977 e si noterà che, nel nuovo viaggio in Cina che fece nel 1973,  partendo dalla consapevolezza che quanto avveniva in Cina allora riguardava « direttamente il resto del mondo, anche per quello che è della elaborazione teorica e della sperimentazione politico-sociale» (p. 265), aveva «capito perfettamente che la rivoluzione culturale era conclusa». Ebbe, cioè, «la dolorosa consapevolezza della trasformazione che era già in atto» e che «mirava a distruggere e a capovolgere quella immagine e quella realtà; non solo di un socialismo possibile, ma anche di una grande cultura ereditata dal passato e incompatibile con la mercificazione globale» (p. 265).

5.

È possibile – anzi oggi è diventata  quasi di norma –  rifiutare «la scelta primaria [di Fortini] di riconoscersi negli oppressi» in base alla sua convinzione etica e politica che « non si dà esistenza se non nella comunanza fra gli uomini». E questa sua opzione antindividualistica e antianarchica già allora era rifiutata da tanti. Ad esempio da uno stesso di quei  primi viaggiatori in Cina, Carlo Cassola, che la Masi descrive come «renitente ad ogni seduzione» in nome del « diritto alla propria individualità separata». Ma scrivere come fa Buffagni: «uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra» significa ancorare il proprio giudizio esclusivamente ad un’ottica da «Libro nero del comunismo».  Lo si può fare. Lo si fa. E tuttavia a quanti in quest’ottica si pongono ripeterei  queste parole della Masi:

«A costoro va detto che non eravamo cretini né delinquenti, si conoscevano i mali del “socialismo reale” e li si denunciavano; e tuttavia dalle menti più alte del secolo, a cominciare da Lukács e da Brecht, avevamo imparato che non esiste una verità che non sia di parte. Nonostante i suoi mali, e combattendoli, non abbandonavamo la nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male e dove avrebbero portato il mondo, una volta lasciati a e stessi. Non sono scomparsi con la sconfitta di Hitler, come oggi si può constatare, nel nostro paese e per l’intero pianeta» (p. 264)

6.

Siamo storicamente determinati, non ci liberiamo del tutto dall’ideologia. E pertanto Fortini e gli altri scrittori che di Cina si occuparono non potevano neppure reagire come reagiamo noi adesso. O parlare, come possiamo fare  noi adesso, che Stalin  e l’Urss non ci sono più. Lo stesso Céline, che Buffagni preferisce a Fortini, non è affatto un esempio di scrittore antideologico o aideologico che fuoriesce da quel tempo: se poteva permetterci di dire cose che  altri non dicevano era  perché – ovviamente appellandosi al proprio libero pensiero –  già si muoveva nell’alone dell’ideologia nazista, siano o no documentate le accuse che lo vogliono agente nazista in servizio (qui). Del resto, se uscissero adesso notizie negative su Putin o su Trump, i loro attuali simpatizzanti o seguaci o ammiratori come reagirebbero? Non avrebbero timori «PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso»? L’altra posizione possibile, rispetto a chi sceglie una parte, è non schierarsi: allora né con gli Usa né con l’Urss, oggi né con Trump né con Putin o con la Cina o altro. Con conseguenze che, in tutti i  casi,  andranno sempre pesate e non potranno mai  essere  giudicate innocenti  rispetto a chi sceglie.

7.

Dunque, la posizione di Fortini sulla Cina, se sfuggiamo all’aritmetica del numero dei morti a cui una certa pubblicistica ha ridotto il discorso storico e ci ha negli ultimi tempi abituati, se non ci fermiamo all’aprile 1956 di «Asia maggiore», è, come detto, molto più mossa e articolata di come la presenta Buffagni. Tra i miei stralci di giornali ho conservato un  articolo  di Fortini.  Era apparso su L’ESPRESSO del 31 agosto 1986 e s’intitolava Risposta a un ragazzo di oggi sugli anni del maoismo e sulla loro eredità.  Fortini, ripercorrendo la propria biografia, vi sottolineava questi punti essenziali del suo giudizio: 1. «Mao divenne l’anti-Stalin anche quando recitava il rispetto alla memoria del georgiano»; 2. I maoisti italiani «più che da Mao erano stati sedotti dagli aspetti tra terrificanti ed incomprensibili della Rivoluzione Culturale»; 3. «il cosiddetto maoismo è teoria e pratica politica che si sviluppa lungo trent’anni di lotta e guerra, dal leninismo degli anni Venti alla costruzione del socialismo negli anni Cinquanta; e non soltanto nel decennio della rivoluzione Culturale e di un Mao ultrasettantenne». Su queste valutazioni bisognerebbe discutere e approfondire. Le sue, insomma, non erano posizioni da liquidare con un sorrisino di scherno. Specie se queste cose venivano dette e scritte in quel 1977, in cui ancora il PCI sembrava per  moltissimi avviato a “farsi Stato”.

8.

Quanto a Solženicyn, ha fatto benissimo Buffagni a tirar fuori questo nome e ad associarlo a Fortini. Ma davvero è troppo sbrigativo sbandierarlo  come una prova che « lui [Fortini] e in generale i comunisti, ortodossi e no, hanno sbagliato tutto». . Effettivamente, come ricorda Buffagni,  Fortini scriveva:

«il messaggio che egli [Solženicyn] ci comunica è quello che più percettibile ci giunge e cioè di “opporre un “eternamente umano” alla disumanizzazione storica [che può dire qualcosa anche a questa nostra discussione, no?] ed una “libertà segreta” ossia etica o etico-religiosa (quella “libertà segreta” di cui parla tutta una tradizione slava, sulla scorta, credo, di Puškin; se l’ordine di valori che sembra essere il suo fosse quello della parte cosciente dei sovietici bisognerebbe concluderne che la rivoluzione socialista è fallita, fino ad oggi almeno, nel proposito di fondare rapporti tra gli uomini diversi e superiori a quelli della società capitalistica. Se per reagire alla menzogna sociale generalizzata che si fonda sulle parole marxiste è necessario proporre l’etica della sopportazione della storia [ e oggi della politica di Minniti, aggiungo] e della solidarietà generica («Una giornata di Ivan Denisovič ») e quella del «giusto» che salva il villaggio ( «La casa di Matrjona»), allora non era mestieri [1]  un mezzo secolo di strage: e la nostra vita è stata inutile» (p.156).

Ma in questo saggio Fortini diceva anche altro ( e anche questo va benissimo per la nostra discussione) :

«Sempre più si viene estendendo una pratica, interessantissima nella sua ambiguità: quella di dimostrare che spesso, se non sempre, le posizioni conservatrici, negatrici della capacità dell’uomo di rendersi padrone o meno servo del proprio destino, celebratrici della sconfitta e della morte, dell’oscurità o della disperazione si rivelano sulla distanza più “progressive”, più “rivoluzionarie”, insomma più “vere” di quelle che progressive, rivoluzionarie e vere sembrano senza esserlo. Leopardi la vince sulle magnifiche sorti dei democratici, Cavour ha ragione contro Mazzini, Manzoni ha ragione su De Sanctis, e così via. Tutto questo, così espresso è insensato; ma ha almeno il grande vantaggio di far capire che uno sciocco, se dice le stesse cose d’una persona intelligente, non è per questo meno sciocco. E che nessun piccolo conservatore ha diritto di coprirsi coi panni di Leopardi; che nessun piccolo pessimista cattolico ha diritto di piangere sulla spalla di Alessandro Manzoni, che nessun Solženicyn ha ragione perché Dostoevskij aveva avuto ragione» («Question di frontiera, pag.157)

9.

E chi volesse avere la prova di quanto sia inconsistente la « supergiustificazione etica della sinistra garantita dal fine superiore e umano che essa persegue» (Buffagni) che giustificherebbe  «ogni porcata» ( La Rivoluzione russa,  la Resistenza, fu una «porcata»?)sia completamente assente  in Fortini e in quanti hanno apprezzato il suo marxismo critico o il suo tentativo di essere comunista speciale è pregato di fare uno sforzo   e leggere l’intero saggio su Solženicyn, che ho scannerizzato alla meglio e qui pubblico, non essendo accessibile sul Web.


Note
[1] necessario: e poscia morto, dir non è mestieri (DANTE Inf. XXXIII, 16-18)]

APPENDICE

Clicca per il testo di Fortini

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