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poliscritture

Noi, Negri e dintorni

di Giulio Toffoli

Un movimento del ’68-’69, studentesco ed operaio, antiautoritario, innovativo, sano; strumentalizzato prima da presunte avanguardie e poi rovinato dalla «scelta di scendere sul terreno dello scontro violento» istillata da “cattivi maestri” (in particolare dal pifferaio magico in passamontagna Tony Negri)? Questa seconda e lunghissima lettera del Tonto – ma la memoria, anche su questo evento controversa e non condivisa, forse lo richiede – polemizza direttamente con un mio scritto (qui) e si collega alla riflessione a tre sul ’68 appena iniziata con Rabissi e Romanò (qui). [E. A.]

pifferaio magico“Carissimo

mi fai sapere quasi allarmato – scrive il Tonto in un’altra delle sue lettere – che la mia ipotesi che sia praticabile una terza via fra quelle che si presentano oggi di fronte a noi, e che è certo una scelta di ripiego, ma contemporaneamente fa i conti con la «realtà effettuale», ha incontrato innumerevoli critiche.

Non preoccuparti non si tratta che di una reazione naturale in una situazione davvero caotica, come poche fra quelle che abbiamo vissuto, se ci pensi bene tutte abbastanza convulse.

Pensa che mentre ti scrivevo quelle righe avevo aperto un dialogo molto interessante con i frati che mi ospitano e anche qui, a dispetto del silenzio e della ritualità che governa i momenti della vita quotidiana, è esploso un inedito conflitto fra quelli che sono preoccupati di veder intaccato uno status quo a cui sono adusi ed altri che invece credono sia necessario, almeno per quel che riguarda le cose di questo mondo, una qualche forma di rinnovamento … Qualche giorno fa due fratelli stavano per lanciarsi in una singolar tenzone usando le candele come fioretti, quasi fossero diventati tutto d’un colpo rampolli di Dumas.

Tu mi dici che, di fronte alla mia affermazione: che un nuovo governo, non costituito dalle forze che hanno governato in questi ultimi tre decenni, «è pur qualche cosa», sono stato accusato di far mia una linea sostanzialmente socialdemocratica e di aver abbandonato nei fatti ogni ipotesi di una radicale alternativa, insomma un progetto rivoluzionario, ormai rinviato sine die.

Risponderei a questi mie critici che la socialdemocrazia, per il poco che mi è dato di sapere, è stata una cosa seria nella fase che ha segnato il passaggio dal XIX al XX secolo, insomma quella classica fallita di fronte alla prova del 1914. Parlare di socialdemocrazia dopo il 1945 è un poco come parlare di un pupazzo manipolato, in modo diversificato da paese a paese, dai poteri forti. Non mi si parli della socialdemocrazia tedesca come qualcosa di granché diverso da un partito di centro, tutto impegnato a difendere gli interessi nazionali, e lo stesso discorso vale per il caso del socialismo francese. La socialdemocrazia italiana è poi stata sempre una stampella della Democrazia Cristiana.

No, non ho nulla a che fare con la socialdemocrazia che si è nei fatti delegittimata da sé.

Più seria potrebbe essere l’accusa di aver abbandonato, dal mio scenario mentale, ogni prospettiva rivoluzionaria. Non so che dirti se non che con il passare degli anni mi sono sempre più convinto che le parole importanti, quelle a cui più si tiene, debbano essere usate con grande parsimonia. Nella seconda metà del XX secolo non c’è stato fenomeno economico, sociale o culturale, anche il più banale e transeunte, che non sia stato etichettato, da una pubblicistica spesso ridotta a puro scendiletto del potere, come rivoluzionario.

Non solo, c’è stato indubbiamente un processo di trasformazione dell’economia, quello sì rivoluzionario, con cui non abbiamo probabilmente fatto ancora i conti in modo adeguato.

Ed è proprio nell’intreccio fra rivoluzione dell’economia e prospettive della politica, come si sono venute sviluppando negli ultimi trent’anni che bisogna tornare a ragionare.

Insomma se, come qualcuno ha scritto forse non a torto, il XX secolo è stato «il secolo degli estremi» nello scontro fra «l’uomo della moneta», incarnato dal liberismo radicale alla Reagan e soci, e il «politico rivoluzionario», che si è proposto come artefice di una rivoluzione proletaria destinata a cambiare il volto del mondo, è il primo che è risultato indiscutibilmente vincitore.

Si tratta di un tema troppo ampio per affrontarlo qui ma un punto fermo va certo posto. Il successo della nuova fase della rivoluzione industriale che ha puntano sulla informatizzazione, sulla automazione/robotizzazione del lavoro e sulla finanziarizzazione dell’economia ha modificato il volto del capitale. Credo si possa dire che se ciò che è avvenuto negli ultimi trent’anni non ha mutato complessivamente le leggi di sviluppo del capitale, che ne costituiscono la trama profonda, certamente ha realizzato tali e tante trasformazioni che impongono una complessiva messa in discussione delle nostre idee, non ultima l’idea stessa di rivoluzione.

Se si vorrà avremo tempo di parlarne, piuttosto mi sembra più semplice in questo spazio cercare di affrontare un tema che ha costituito, nel bene come nel male, argomento di lunghe discussioni fra di noi nei decenni passati e che, se devo proprio essere franco, mi pare oggi del tutto consegnato alla storia: quello della funzione dell’Autonomia e di Antonio Negri.

Nonostante il Negri continui, con inesorabile pertinacia, a produrre centinaia di pagine nel tentativo di conservare una sua qualche presenza sulla scena della cultura politica, fra accademismo e faticosa rincorsa di un qualche spazio sulla scena mediatica, la sua è ormai una figura del passato.

Perché dico che è consegnato a una storia ormai del tutto conclusa?

Molto semplicemente perché, al di là di un affannoso tentativo di porsi, di volta in volta, come esegeta della geopolitica e portavoce di un «necessario impero globale» o piuttosto di pifferaio di «moltitudini» in rivolta, di cui peraltro non si vede l’ombra, la sua parabola più creativa, se così si può dire, si è articolata essenzialmente fra gli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta del secolo passato.

Ennio [Abate], in un suo intervento, ci chiede se da parte nostra esista una preconcetta forma di ostilità nei suoi confronti e un tentativo di scaricare sulle sue spalle quella che è stata una crisi storica del movimento nato alla fine degli anni sessanta ed esauritosi, in una tragica scia di sangue, negli anni ottanta.

Più in particolare ci chiede se l’affermazione “le spinte in quegli anni ad usare la violenza nella ricerca di una soluzione erano endogene” è o no corretta e quali altre proposte sono state allora fatte o si sarebbero potute fare che non fossero la semplice contrapposizione frontale che vide uniti il Partito Comunista e gli organi dello Stato, Magistratura e forze dell’ordine nella loro opera di repressione.

Ciò che mi ha colpito di questa formulazione è l’uso di quello che chiamerei un linguaggio impersonale, oggettivo, quasi di stile scientifico. Ci si è trovati egli afferma, dopo la metà degli anni settanta, di fronte a spinte endogene, si trattava di trovare soluzioni.

Credo che per valutare in modo obiettivo questa impostazione ci si chieda un gesto di responsabilità intellettuale che implica un giudizio su quel decennio. A mio vedere ciò che ha caratterizzato l’esplosione del movimento del ’68, nel suo aspetto di rivolta studentesca e di protesta operaia, è stato in particolare il concetto di rifiuto della delega e contemporaneamente il rifiuto di essere, come sempre in una lunga storia di subordinazione, materiale per una politica gestita da altri, allora si diceva di essere manipolati o strumentalizzati dai partiti o dal potere, nella più varia accezione di questo termine.

Proprio questo risveglio della coscienza del soggetto, di un soggetto plurale come non mai largo e per molti tratti perfino inedito, ha costituito davvero l’originale scoperta di quegli anni. In sé una vera e propria rivoluzione culturale.

Mi sembra davvero inutile sottolineare che quel processo di critica strutturale della società, partito dalla scuola, come critica a una cultura che si proponeva come oggettiva e priva di qualsiasi valenza se non la sua indiscutibile verità, dove mai a memoria d’uomo si era verificato qualche cosa di paragonabile, si è allagato a tutte le istituzioni globali intaccandole e mettendo in discussione ruoli e funzioni di impiegati, burocrati, liberi professionisti, tecnici e scienziati e sostanzialmente coinvolgendo l’intera società.

Ovviamente anche la classe operaia, soprattutto quella più giovane, ha vissuto l’onda lunga di questo processo scoprendosi non più solo res e strumento di disegni di un qualche ceto politico, autonominatosi espressione di una coscienza esterna, ma soggettività capace di interagire, di dialogare, di definire una propria condizione di sfruttati ma anche di alienati e di manipolati, troppo spesso strattonati per la giacca da chi in nome della ideologia della protesta e della rivolta si faceva loro interprete strumentalizzando la libera espressione della coscienza del mondo del lavoro. Guarda caso non mi è mai capitato di sentire un operaio, se non ideologizzato e trasformato in una specie di replicante, che abbia accusato i suoi compagni di tradunionismo. Si è trattato da sempre di un pratica intellettualistica di chi si erge a superiore interprete di coloro che, naturalmente immaturi, non hanno la capacità di giungere all’età della ragione, la capacità di comprendere i loro «veri» interessi. Credo invece che si debba affermare che i lavoratori hanno sempre ben soppesato i proprio bisogni, i propri desideri, le proprie possibilità cercando realisticamente di rendere meno oppressiva la loro condizione. Di qui l’acquisizione non solo di un inedito astratto diritto alla parola, ottenuto in quei mesi caldi del ’69, ma anche della capacità di parlare, superando quelle infinite paure che costituiscono una naturale remora ad esprimere liberamente il proprio sentire. Si è trattato di un incredibile successo che non poteva essere lasciato libero di crescere e di articolarsi nei tempi necessari perché mettesse radici, infatti se si fosse ben consolidato avrebbe messo pericolosamente in discussione non solo il potere padronale ma anche la funzione di guida esterna portatrice del verbo di partiti, sindacati, intellettuali e movimenti vari.

Aveva perfettamente ragione Ernesto Balducci quando affermava: “gli oppressi vanno addestrati all’esercizio della coscienza, e della parola che esprime questa coscienza, che sia esigenza di libertà e di autonomia. Quando il potere perde le coscienze ha perso tutto. Io conosco degli uomini che sono scesi in mezzo agli oppressi per creare in loro questa coscienza dell’iniquità del mondo e del potere e per abituarli a vivere con dignità e libertà. Essi non fanno propriamente politica, preparano il domani l’altro della storia … se non prepariamo il domani l’altro cioè l’immagine di una società senza violenza, se non lo prepariamo nella nostra vita, la politica perde il suo orizzonte ultimo, perde cioè, la finalità morale che la deve animare”.

E’ proprio quell’orizzonte ultimo che fra infinite contraddizioni sembrava stesse aprendosi di fronte a noi. Un orizzonte dove al primato di thanatos, dello sfruttamento, della violenza e in fin dei conti della morte, si stava opponendo una lettura della realtà basata su una più attenta valutazione del valore della vita e un processo di superamento dei meccanismi profondi di alienazione che governano il nostro intero esistere.

Pensiamo solo alla messa in discussione dell’autorità del padre, del padrone, del marito, del docente, del funzionario, del politico e dello stesso scienziato. Nella richiesta di poter ragionare, valutare, giudicare funzioni e finalità era presente in nuce una critica radicale della nostra società. Si trattava davvero di un’immensa rivendicazione di libertà, una sfida come mai era stata lanciata prima alle strutture profonde che governano i nostri gesti quotidiani, quella meccanica della vita a cui siamo assoggettati spesso senza rendercene conto.

Quella che avevamo di fronte era certamente una strada lunga e tutt’altro che agevole da percorrere, davvero una “lunga marcia attraverso le istituzioni” nel senso più profondo della parola, ma solo il mantenimento di uno spirito di critica radicale che intaccasse le norme del vivere basato sul principio di prestazione poteva davvero dischiuderci una prospettiva rivoluzionaria che incidesse a fondo non solo sulle forme dell’accumulazione capitalistica ma anche sugli stilemi di un modello di vita reificato cui eravamo e siamo soggetti senza i quali lo stesso sistema di accumulazione viene vanificato.

Vedere gli operai lottare non più da soli ma avendo accanto a sé un più ampio fronte di tecnici, impiegati e studenti e vedere le donne uscire dalla loro condizione di sfruttate e vedere artisti e scienziati mettere in discussione il proprio ruolo era un segnale davvero prezioso e che andava coltivato.

Rappresentava davvero un nuovo modo di intendere un processo rivoluzionario da parte di una società, ricordiamolo, come quella italiana, che era uscita da un’infinita storia di penuria e di subordinazione e stava conoscendo un crescente benessere e le nuove contraddizioni del neocapitalismo.

Certo si potrebbe anche affermare che innumerevoli erano le ambiguità insite in quella esperienza. Il capitale con la sue ingegnosità aveva già messo le sue zeppe innestando una logica consumistica ed edonistica basata su forme di fuga individualistica rappresentate dall’universale spettacolarizzazione, dal mito del ritorno alla natura, dalla fuga in scorciatoie come l’uso della droga e altre forme similari di estraniazione. Si potrebbe anche aggiungere che le masse che affollavano le strade nel ’68 erano pur sempre espressione di minoranze e che la nuova cultura, la cultura che si cercava di costruire, era non priva di debolezze fragilità ed elementi di immaturità.

Si potrebbe ancora di più aggiungere che «lì c’era tutto e il contrario di tutto. Gli sviluppi lo hanno dimostrato: coloro che lo hanno inteso (e vissuto) come una scorciatoia per il potere si sono presto adattati a fare i maggiordomi dei potenti … coloro che hanno posto il problema di un sapere e di un saper fare responsabili hanno per lo più continuato a farlo, assumendosi il compito di andare controcorrente e pagando di persona»[1].

Insomma molto si potrebbe aggiungere per sottolineare le contraddizioni insite in quella esperienza ma tutti qui limiti e quegli errori non inficiano il paradigma di base: il capitale si trovava a fare i conti con un tumultuoso processo di presa di coscienza che metteva in discussione la struttura di fondo de “l’uomo della moneta”, di quello spirito dell’accumulazione per l’accumulazione che costituisce a conti fatti l’essenza del capitale. Quale potesse essere l’esito di quel processo è oggi impossibile dire. Un dato però è certo: la strada che fu percorsa, quella di una radicalizzazione attraverso la creazione di partiti e partitini e di un recupero di molti elementi della tradizione della sinistra comunista, tarparono rapidamente le ali a quel tentativo rimettendo in auge tutti quei meccanismi di identità politica e tutti quei pregiudizi che erano stati parte fondante di una tradizione che aveva mostrato tutta la sua inadeguatezza storica.

Solo facendo propria questa prospettiva, che ovviamente qui è solo abbozzata, possiamo capire perché il modello proposto mi appare davvero consegnato a una storia ormai conclusa e forse perfino da dimenticare. Sarebbe accettabile usare un linguaggio similare se ci si trovasse di fronte a un fenomeno fisico, l’ineluttabilità di una eruzione vulcanica e se non fosse che le spinte di cui si parla riguardavano uomini e donne che avrebbero dovuto essere muniti di una forte e salda coscienza; che avrebbero dovuto ben sapere che se “l’obbedienza non è più una virtù” non è per niente ovvio che gli altri, quelli stessi vicini a te spesso partecipi di una sensibilità simile alla tua, possono non essere propensi a diventare pura materia bruta di uno scontro che alcuni decidono di lanciare.

Similmente la società non è un giocattolo facilmente manipolabile e per cui si possa trovare una qualche facile soluzione nel tentativo di risolvere le contraddizioni che la innervano. La coscienza della complessità della posta in gioco avrebbe dovuto far comprendere che la soluzione non si trovava più nel gesto esemplare o nella conquista di un qualche inesistente “palazzo d’inverno”. L’esperienza sovietica e anche quella cinese erano già lì a dimostrare in modo inoppugnabile quanto tortuosa sia la via di una rivoluzione che riesca a favorire e non deprimere lo sviluppo della società umana.

Per sostenere la sua argomentazione Ennio fa un parallelo fra due epoche storiche: il Risorgimento e il decennio degli anni settanta.

La prima cosa che mi ha colpito è la scelta. Come mai un parallelo fra due età così profondamente estranee e non ad esempio, come forse sarebbe stato più semplice e ovvio, con la Resistenza e il breve periodo successivo di stabilizzazione. Forse in questo caso le suggestioni sarebbero state più facili da trovare e più pregnanti.

Infatti il tentativo di realizzare un parallelo con la fase storica che va da 1830 circa al 1860 si scontra con infinite difficoltà non solo di tipo soggettivo, come paragonare uno fra gli attori degli anni settanta del XX secolo a un Garibaldi o un Pisacane e soprattutto dove trovare un Cavour. Ciò che non consente un qualsiasi parallelo è però la situazione oggettiva europea che era radicalmente diversa da quella degli anni ’70 del XX secolo. Il processo che trova il suo esito nel 1861, con l’unità della penisola, si iscrive pienamente all’interno del ciclo delle rivoluzioni borghesi, per usare la formula di Hobsbawm, esito di un processo storico, che giunge al suo sbocco finale un decennio dopo con l’unificazione tedesca, sostenuto e fin voluto dai grandi centri del potere e della finanza dell’epoca. Se si trattava di un azzardo, come nel caso dei Mille, era un azzardo che si inseriva all’interno di una logica di nuovi poteri statali che si stavano coagulando. Proprio la tragica parabola dei Mille, ricostruita da una cultura borghese e sabauda secondo un modello mitizzante e falsificante, avrebbe dovuto costituire un campanello di allarme.

Le poche istanze di una coscienza soggettiva alternativa che si fecero sentire in quei decenni erano non solo del tutto immature ma destinate ad essere sacrificate per una naturale mancanza di mezzi e di riferimenti sociali. Inutile aggiungere che dopo essere state violate e calpestate senza pietà sono state poi riesumate dalla storiografia borghese nel tentativo di dare un volto romantico e popolare all’intero processo unitario che nella sostanza invece era stato un processo espansivo gestito manu militari dal Regno di Sardegna, con una tinta chiaramente conservatrice ed anzi da molti punti di vista fin reazionaria.

Negli anni settanta del XX secolo invece la situazione era radicalmente diversa, caratterizzata da un solido primato dell’imperialismo americano e da una conclamata fragilità del movimento rivoluzionario a livello mondiale anche se a suo modo resa meno evidente dall’eroica lotta del popolo vietnamita e dall’esistenza di qualche movimento guerrigliero in sud America. Inutile sottolineare l’evidente e crescente debolezza del modello sovietico incapace di confrontarsi dal punto di vista economico con l’Occidente e la palese fragilità degli altri episodi rivoluzionari, tutti fra l’altro segnati da una forte istanza nazionalistica e ripiegati su se stessi nel tentativo di sopravvivere all’aggressività dell’imperialismo occidentale.

Nessuno vuol negare che era chiaramente presente anche una crescente incapacità del modello capitalistico-borghese di rispondere alle nuove domande di libertà, di partecipazione e di benessere che si stavano affacciando in Occidente. Un’ottusa borghesia, pensiamo proprio a quella italiana, era impegnata in una lotta per la difesa dei propri tradizionali privilegi e di istituzioni che spesso costituivano delle remore allo stesso sviluppo dell’accumulazione capitalistica. Si trattava di fragilità che però erano ben lungi da potersi trasformare in una crisi strutturale del sistema come ben evidenziava fin dall’origine del movimento del ‘68 l’esito del Maggio francese, chiusosi come una fiammata nel giro di poche settimane e risoltosi sostanzialmente in una stabilizzazione del regime democratico liberale con una chiara sterzata conservatrice. Insomma non c’erano in Europa i presupposti oggettivi per il ripetersi di fenomeni rivoluzionari come quelli che avevano interessato il XIX secolo. Proprio l’involuzione dell’esperienza sovietica e ancora di più il colpo di stato dei colonnelli nella Grecia del 1967 piuttosto che l’esito della cosiddetta primavera di Praga avrebbero dovuto costituire un campanello di allarme contro il tentativo di individuare facili scorciatoie verso non adeguatamente meditati «assalti al quartier generale».

Solo partendo da questi presupposti e muovendosi in questa prospettiva «è possibile ragionare su quel luttuoso e nichilistico patratac, che travolse in una valanga crescente l’avanguardia che volle spiccare il folle volo contro la montagna bruna».

La prima cosa che bisogna fare è liberarsi da ogni facile suggestione di stampo romantico-letteraria.

Si può parlare di folle volo nel senso corretto della parola solo se ci si rende conto che coloro che teorizzavano «la necessità di una forza di avanguardia, militante, capace di approfondire in maniera violenta e continua la crisi e di rintuzzare, in misura eguale, la violenza dei padroni»[2] nei fatti compivano un gesto di puro avventurismo, allontanandosi dalle più larghe masse, da quel noi collettivo, di cui affermavano essere espressione, e portavano con il loro agire alla definitiva disgregazione di quel movimento che era nato nel ’68 e che dopo aver subito ogni sorta di attacco da parte del potere si veniva a trovare nei fatti privo di ogni forma di agibilità, schiacciato fra chi brandiva il manganello e chi, credendo di incarnare chissà qual forma di superuomo, brandiva una pistola.

Ricordo come fosse ieri una concitata discussione, che ebbi in quel torno di tempo, con una amico inserito nel movimento ma non privo di dubbi e che verteva proprio su questo tema: quale senso poteva aver partecipare a una manifestazione se poi ci si trovava improvvisamente ridotti non solo a bersaglio della violenza delle forze di repressione dello Stato ma anche di chi, strumentalizzando il nostro agire, ci usava per realizzare un disegno che non aveva alcuna possibilità di concretizzarsi. Ed anzi in questo modo fornivano allo Stato e a quelle forze revisioniste, che tanto contestavamo, gli strumenti per dimostrare che un intero processo di crescita politica, la conquista del diritto alla parola e al rifiuto della delega, altro non erano se non il paravento di una avventura senza senso.

Ha proprio ragione chi ha affermato che la teorizzazione del folle volo ha avuto come unico esito la «repressione di parti di un movimento assai plurale» anzi giungerei ad affermare che in questo modo veniva messa in mora l’idea stessa che si potesse manifestare ed entrare in conflitto con il potere senza che ciò si dovesse necessariamente trasformare in uno scontro armato, basato sulla logica della forza, dove solo dei folli potevano credere che vi fosse qualche chance di successo. Ben più evidente era l’altra possibilità ovvero che la gente che si era avvicinata al movimento fosse sempre più dissuasa dal partecipare a ogni tipo di manifestazione facendo propria l’idea che si trattava solo di una violenza senza scopo.

Penso che sia profondamente sbagliato affermare che: «I colpi assestati all’Autonomia nel ‘77 ebbero poi una qualità ben diversa da quelli che colpirono Valpreda e gli anarchici nel ’69». Si tratta di parole che evidenziano una qual forma di cecità. Né si tratta di discettare se l’attività dei fascisti, ampiamente eterodiretta dallo Stato, fosse più o meno grave di quella svolta dallo Stato con il sostegno del PCI nel 1977[3]. Altro è il problema e mi chiedo come sia possibile che chiunque abbia vissuto a Milano quei lugubri giorni che seguirono il 12 dicembre se ne sia dimenticato. Ciò che avvenne quel giorno fu un tremendo segnale, che avrebbe costituito una lezione indelebile almeno per una generazione. Lezione ribadita poi negli anni successivi da altri e simili eventi criminali. Lo Stato era disponibile a utilizzare ogni strumento, giungendo a colpire dei cittadini inermi e facendo propria una strategia terroristica preventiva, per disciplinare una società che non era disposta a piegarsi facilmente al comando del capitale.

Negli anni seguenti il movimento sorto dal biennio 1968-69, che era miracolosamente sopravvissuto a una violenza fisica, politica, mediatica che non aveva paragoni nell’età repubblicana, fu costretto a fare i conti con questa dura lezione.

La scelta di scendere sul terreno dello scontro violento fu fin dall’inizio scellerata e sostanzialmente suicida e ne è esempio calzante l’uccisione del commissario Calabresi. Cosa fornì in più al movimento tale gesto se non la falsa illusione di avere una forza che nei fatti non c’era e di aver eliminato un nemico che nei fatti altro non era se non una pedina di una macchina che faceva facilmente a meno di un uomo diventato nel frattempo scomodo. Con la sua uccisione la casta dei politicanti trovava l’occasione propizia per accreditare a proprio favore la figura di un martire di cui non si aveva certo bisogno.

No, l’intera fase della lotta armata, sia nella sua forma radicale sia nella cosiddetta forma «diffusa», non ha presentato «alcun contenuto di verità» proprio perché si basava sull’uso di una scorciatoia per affrontare problemi che non si potevano risolvere con il semplice «attacco al cuore del potere delle multinazionali» o formulette del genere.

Aveva perfettamente ragione S. Timpanaro quando, ripensando alla sua collaborazione con G. Ciabatti, diceva che già allora chiunque riflettesse non per schemi ma leggendo la complessità della realtà di classe non poteva che avere la chiara: «convinzione che lo spontaneismo, il goliardismo, la fiducia nella rivoluzione facile e imminente fossero illusioni e che dopo i guasti della sempre crescente subordinazione del PCI – PSI, si doveva ricostruire tra le masse una coscienza antagonista al capitalismo, senza boria professorale, ma senza sperare in inesistenti scorciatoie»[4].

Che Fortini, come ricorda Ennio, chiosasse, dopo i fatti del ’77: «che il PCI in quello scontro, in effetti interno alla tradizione delle sinistre comuniste, aveva vinto ma non aveva affatto convinto» altro non era che un’addenda a ciò che, fra l’altro rifacendosi al suo magistero, si era ripetuto mille e mille volte dopo il ’68 ovvero che quel partito altro non era se non espressione di infinite contraddizioni che ne avevano segnato la rinascita durante la Resistenza e che l’idea stessa di un mutamento radicale della società non aveva nulla a che fare con la sua strategia di fondo.

Ciò che risultava colpito al cuore dalla dialettica delle armi fra Stato e estremismo armato altro non era se non la possibilità di una radicalizzazione della protesta, di una crescita della coscienza che la società non aveva gli strumenti per fornire risposte ai bisogni individuali e collettivi di una società democratica matura. L’esito della violenza diffusa non poteva che essere una perdita d fiducia, da parte di molti che avevano fatto proprie le speranze del ’68, una radicale disillusione. Sintomo ultimo della fine di una fase furono nel 1980 la strage di Bologna, dove l’intreccio fra servizi segreti e cosiddetti fascisti trovava una sua nuova espressione, e la marcia dei 40.000 a Torino che segnavano la campana a morto per un’intera pagina di storia. La fragile anomalia che si era insinuata nella società italiana in quegli anni fin nelle fibre più profonde, con un caso unico in Europa, era definitivamente riassorbita in una sconfitta storica di cui probabilmente non abbiamo ancora compreso a pieno gli esiti.

Ennio afferma che il disagio che molti di noi provano leggendo le cose di Negri sia spesso dovuto a una qualche forma pregiudizio. Che l’accademico patavino non abbia mai mostrato una particolare amabilità è un dato di fatto ma non è certo questo il punto. Ciò che ci interessa è la funzione di leader e teorico svolta in quegli anni.

Leggo questa nota, se non erro, di Fagan e le successive parole di Ennio: «C’è più responsabilità sua [di Negri] e di altri in quel fallimento [ovviamente della sinistra radicale di allora (nota mia)] di quanta lui ne veda nella repressione e criminalizzazione che certi comportamenti -da lui stesso ampiamente teorizzati – hanno attirato». Per me è come dire che, se non ci fossero stati loro (Negri e gli autonomi) a predicare e ad avallare certi comportamenti, quella violenza da “assalto ai forni” (“gli espropri proletari”) non ci sarebbe stata o non si sarebbe espressa in quei modi; e forse “noi” avremmo potuto fare grandi cose».

Non so se si potessero fare grandi cose ma certo forse era possibile non finire «nel pantano in cui siamo scivolati»[5].

D’altronde che le idee di Negri e soci fossero molte, anzi troppe, e confuse non è arduo da dimostrare, basta compulsare uno dei suoi scritti di quel periodo e credo proprio che lì sia possibile, senza eccessiva difficoltà, rendersi conto di come quello «scrivere cose sovversive» fosse più un esercizio di stile che qualche cosa di minimamente ragionevole.

Per verificarlo proviamo a leggere ancora qualche passo di Proletari e Stato.

A chi si rivolgeva l’analisi, se così possiamo chiamarla, di Negri in quel libello: a un soggetto preciso, forse alla classe operaia? No, mostrando una capacità di giocare con le parole che non gli è mai venuto meno, e facendo il verso all’hegelismo, il nostro invita il lettore a rivolgere la sua attenzione alla: «linea rossa dell’estrazione del lavoro (che) si realizza sempre di più. Dopo che il proletario si è fatto operaio ora il processo è inverso l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario …»[6].

Come non notare questa dimensione prometeica del farsi e disfarsi del proletario che realizza se stesso in una serie di figure che giungono a compiersi in una perfetta circolarità, una specie di eterno ritorno del sempre uguale. Viene spontaneo domandarsi se era questo il soggetto del movimento di quegli anni, quello che aveva fatto dell’autunno caldo una pagine memorabile della storia di questo paese.

Ci sia consentito dubitarlo.

Cosa è destinato a fare questo proletario dai molti volti? Negri ha dalla sua una infinita sicurezza:

«Lo Stato contemporaneo non conosce lotta di classe operaia che non sia lotta contro lo Stato. Contro lo Stato come padrone, in quanto esso ha dovuto comprendere in sé la totalità dei modi dello sviluppo. E della crisi alla stessa stregua. La lotta di classe si trasferisce dentro lo Stato»[7].

Questa lotta dentro lo Stato sembra essere una necessità immanente ai vari passaggi della condizione del proletario e sbocca necessariamente nella ribellione i cui esiti sono così descritti:

«Passaggio dalla composizione dell’operaio massa alla composizione dell’operaio sociale … significa piuttosto che qui, quando la dialettica della composizione si esaurisce in una totalità di subordinazione al capitale, la ribellione proletaria investe l’intero tessuto della composizione e del sistema dei bisogni. Contro il valore di scambio appare l’opposto il lavoro come creatività, come liberazione, contro il sistema dei bisogni si definisce, su questa polarità liberata, la polarità di un sistema di lotte».

Perfino Negri si rende conto che sta parlando un linguaggio cifrato quando non di una immaginifica inconsistenza tanto che ci tiene ad aggiungere: «Intendiamoci non stiamo facendo della metafisica!»[8] Ovviamente non tutti possono convenire con questa sua certezza.

In ogni caso in questo contesto di rivolte che tutto, almeno nella mente di Negri, stavano mutando, si giunge a una scoperta decisiva, quella della legge, si noti legge, della transizione al comunismo. Eccola:

«Qui la fondamentale legge della transizione al comunismo viene chiarendosi: la transizione è possibile quando la classe operaia anziché essere mossa dal capitale, muove essa stessa e subordina ai suoi propri comportamenti il capitale. Questa dittatura, materiale ed oggettiva della classe sul capitale è il primo fondamentale passaggio della transizione: quando ovviamente il rapporto non si conclude nella mediazione del capitalistica dello sviluppo bensì in quella operaia della crisi del capitale …»[9].

La classe che muove se stessa e ha la forza di imporre addirittura una dittatura sul capitale nei tardi anni ’70 in Italia? Come potesse sorgere una simile fantasia, per altro in una mente certamente fervida, mi parve allora e mi pare oggi ancora incomprensibile.

Cosa è destinato a fare questo ente che muove se stesso e tutto gira intorno a lui grazie alla sua forza? Negri è come al solito assertivo, senza la minima ombra di dubbio: «riduzione drastica del tempo di lavoro, salario sociale uguale per tutti, fine della divisione del lavoro e obbligo al lavoro produttivo, liberazione della forza invenzione: questi sono gli obiettivi operai e proletari che crescono nelle lotte quotidiane e continue …»[10].

Inutile far notare l’astrattezza delle proposte (si pensi a quell’«obbligo al lavoro produttivo» che per essere proposto da un accademico è tutto un poema), ma come non fermare l’attenzione sull’ultimo di questi punti del programma negriano: la «liberazione della forza invenzione». Come non sorridere; è Inutile far notare che nulla viene ulteriormente chiarito di tale «forza», che appare anche in questo caso parto di una focosa fantasia.

Ma Negri stesso sembra non essere soddisfatto né degli obiettivi che ha proposto per gli operai, né del suo «proletariato circolare perfetto» e allora ecco che riesce a far emergere dal suo crogiuolo sociale un nuovo ente, con nuovi bisogni e nuove finalità che rappresenta, egli ci assicura, il vero soggetto segreto della rivoluzione: «Nell’emarginazione proletaria emergono nuovi bisogni che non sono riducibili a richiesta di lavoro salariato. L’analisi deve cogliere questa potenza dell’emarginazione come estremo limite – e forza radicale – del rifiuto del lavoro. I Lumpen fissano oggi, nel movimento, per il movimento, un’ansia di liberazione politica nella quale la lotta proletaria cerca di inverarsi: essi sono i veri portatori di quei “valori umani” di cui il socialismo e il revisionismo si riempiono la bocca … qui riconquistiamo il senso umano della lotta di classe, sul limite dell’emarginazione della sua estrema negazione: riscoprirlo significa lottare con la più estrema radicalità»[11].

Insomma il proletario che si è fatto classe e poi si è fatto in infinite altre forme non è sufficiente ed ecco allora la forza del Lumpenproletariat, il vero soggetto politico che esce dal cappello negriano e invera l’intero processo.

Questo il quadro proposto dal Negri nel 1976. Questa la medicina che indicava a «quelle spinte nella realtà sociale che erano violente (e che) se non venivano calamitate in un progetto di lotta razionale erano destinate ad esplodere per conto loro». Può anche darsi che: «ci saranno sempre spinte estremistiche nei movimenti» ma il loro destino muta a seconda del contesto in cui si vengono a trovare. Il problema è che Negri e i suoi amici, se si esclude la facondia della parola e l’impeto da poligrafi, che li portava e li porta a riempire intere biblioteche di loro scritti, mentre legittimavano ogni forma di protesta, anche quelle più velleitarie, nulla di veramente razionale avevano da fornire a coloro che leggevano le loro parole d’ordine. Ciò che restava era solo un infinito calembour, un disegno ampiamente autodistruttivo e socialmente distruttivo, completamente distaccato dalla realtà e con cui, diciamolo per inciso, era davvero arduo cercare di dialogare perché era come avere da fare con degli «entusiasti» che avevano dalla loro ogni certezza e una inestinguibile volontà di potenza. Il cui linguaggio era pieno di passione, di determinazione, di fermezza, di ostinazione, di fede …

Quello che è seguito a quegli anni è stato un deserto su cui il potere e le destre, quelle destre che hanno ampiamente eterodiretto il gioco a livello locale italiano e a livello globale, hanno poi costruito la loro trama. La sinistra divisa fra la rincorsa al potere, visto come unica ragion d’essere, o una opposizione sempre più sterile, nell’attesa di improbabili ondate di rivolta che riprendessero i fasti di quegli anni ormai lontani, ha perso completamente il rapporto con la gente, con le masse, con il mondo del lavoro e più in generale con una società che ha conosciuto una trasformazione difficile da immaginare in quel lontano ’68.

Quali le novità? Cerchiamo in poche parole di indicarne la ratio profonda.

Per dirle con una formula «l’uomo della moneta» ha affermato il suo primato sul «politico-rivoluzionario».

«Nella società del capitale del XXI secolo vigono delle regole che danno a “l’uomo della moneta” le basi del proprio esistere per il fare e per l’avere … L’uomo non aveva ancora dato alla moneta il valore centrale nella sua esistenza. Quella centralità incide sulle relazioni fra gli uomini come mai prima, riduce al minimo la differenza nella percezione del mondo … l’immigrato clandestino (ha) le stesse convinzioni dei fratelli Koch sulla libertà di iniziativa individuale, e svolge un lavoro da clandestino come fase di passaggio al suo futuro che sta nell’avere moneta per esistere. Si fa (si lavora) per avere e allorché si ha, allora si esiste ed è un’esistenza creata dalla propria capacità, e in tal senso è una rappresentazione di sé come forza e potere … è la moneta che governa l’uomo nelle sue azioni, nei suoi pensieri …»[12].

Queste mutazioni antropologiche hanno realizzato un nuovo milieu sociale e politico che ha trasformato il cittadino in consumatore e lo ha portato nei fatti ad «accettare lo stato di cose così come sono … la scelta dell’accettazione è la novità che rompe con l’esperienza europea, persino troppo ricca di rifiuti dello status quo … accettare l’uomo così come la natura lo ha fatto, significa accettare l’immutabilità del suo essere e dunque l’esistenza di uomini forti e deboli, ricchi e poveri, dominatori e dominati. Significa che i forti, i ricchi i dominatori agiscono in piena legittimità nel difendere il proprio status quo … chi è vinto è persuaso che infine a vincere è stato l’uomo per come l’uomo è».

Insomma nel nuovo quadro culturale: «è nelle relazioni tra gli uomini che l’uomo scopre sé stesso capace di fare e avere oppure no, e difatti in natura vi sono i forti e i deboli e nelle relazioni sociali dell’uomo della moneta valgono le leggi della natura».

Si tratta di una vecchia e nuova logica che rende del tutto desueto quel che abbiamo vissuto nell’ultimo scorcio del secolo scorso. La logica liberista che si è innervata nella nostra società fin nelle fibre più profonde: «è così inclusiva che non consente “eresie”».

E’ facendo i conti con tale esito storico che diventa ancora più evidente non solo quanto fosse senza senso il voler «spiccare il folle volo contro la montagna bruna» senza avere un progetto chiaro, ragionevole, fondato su una lettura rigorosa della «realtà effettuale» ma ci fa comprendere quale insensata distruzione di un’intera tradizione tale follia ha portato con sé, a causa dell’uso di una retorica politica tanto ridondante quanto nella sostanza priva di aderenza alla realtà e come si siano perduti quegli anticorpi culturali che la tradizione del pensiero socialista e libertario in qualche modo offriva.

Siamo di fronte a un nuovo mondo che richiede di elaborare un linguaggio che non si riduca alla semplice riproposizione di una teoria del conflitto ma che sappia farsi portatore di nuovi valori e se si vuole più in generale di un progetto umano per il quale valga la pena mettersi in gioco, lontano mille miglia da quello che si è mostrato al mondo a Pietrogrado nel 1917, a Běijīng nel 1949 e nelle altre realtà dove nel XX secolo si è cercato di avviare un grande processo di cambiamento. Un progetto che risponda alle esigenze di una società industriale pienamente matura e globalizzata che deve far i conti con una tecnologia invadente e un fenomeno di informatizzazione della società e della vita che hanno già avuto la forza di mutare l’essenza stessa dell’essere umano come lo conoscevamo nel XX secolo, e di cui è difficile prevedere gli esiti ulteriori.

Solo guardando intorno a noi e con l’occhio rivolto al futuro potremo rispondere a queste domande, altrimenti corriamo davvero il rischio che il passato pesi su di noi come un macigno, invece di liberare il nostro pensiero e la nostra immaginazione ci incateni in modo indissolubile a un mondo ormai morto. Il mondo in cui la fantasia di Negri ha trovato lo spazio per articolarsi e seguaci incapaci di distinguere fra “impazienza rivoluzionaria” e “avventurismo suicida”.

L’«angelo della storia» ci deve aiutare a individuare una strada verso il futuro, senza che si corra il rischio di essere risucchiati dal passato. Un futuro che deve nascere nella coscienza di ciascuno di noi e crescere nel dialogo e nella libertà fino ad avere la forza di affrancarci da quelle strutture che tengono prigioniera la nostra esistenza a un passato ormai chiuso nelle teche della storia.


Note
[1] Intervista a G. Consonni in Vivalascuola. Il ’68 unì l’Italia, il post-68 l’ha divisa, 28 maggio 2018 su www.lapoesiaelo spirito.wordpress.com
[2] A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione sull’autonomia operaia e il compromesso storico, Feltrinelli, 1976, pag. 52. Negri in quest’ultimo scorcio di tempo ha scritto due volumi autobiografici proponendo una ricostruzione della sua carriera e della sua esperienza di quegli anni. Avrei potuto far riferimento a quei testi se non fosse che le ricostruzioni post non mi convincono mentre mi sembra più interessante quando è possibile andare direttamente alla fonte. Lo scritto del 1976 è proprio contemporaneo alla fase di radicalizzazione di cui stiamo parlando, fra il 1975 e il 1978.
[3] Non mi sembra il caso qui di entrare in una analisi più raffinata ovvero di chiedersi se si trattasse dello Stato o di uno “Stato nello Stato”, i cosiddetti servizi segreti deviati come propone Giorgio Galli (cfr. Giorgio Galli, Piombo Rosso, Baldini Castoldi Dalai, 2007). Dal nostro punto di vista di allora, che certamente poteva peccare di ingenuità, fra i due livelli non v’era gran differenza.
[4] S. Timpanaro, prefazione a G. Ciabatti, Abici dell’anteguerra, La città del sole, 1997.
[5] La citazione si rifà a una nota di Lenin che, ormai nell’ultimo scorcio della vita, si rendeva desolatamente conto delle immense contraddizioni che la presa del potere aveva generato e che apparivano sempre più ardue da superare senza mediazioni e compromessi (cfr. R. Dutschke, Lenin rimesso in piedi, La Nuova Italia, 1979, pag.285 e segg.). Nel nostro caso indubbiamente la presenza di un grande partito di massa che si dichiarava, almeno a parole, comunista rappresentava un vincolo immenso al cambiamento e il suo progetto di compromesso storico un ambiguo disegno di stabilizzazione moderata. Il problema è però sempre quello: l’uso di una scorciatoia armata, al di là della soddisfazione del narcisismo individuale, poteva risolvere qualche cosa? Aveva la possibilità di spostare anche di poco la società verso livelli più avanzati di democrazia? Io credo fermamente di no. All’opposto forniva ai settori più reazionari dello Stato ottimi strumenti per mantenere in Italia una situazione di eccezione e in prospettiva riprendere l’egemonia, erodendo una dopo l’altra, nel mondo del lavoro, nella scuola, nella sanità ecc. i diritti che si erano a gran prezzo conquistati.
Forse sbaglio ma la poesia-dialogo di Ennio Abate Prof Samizdat-Guerriero, con qualche accento diverso, mi sembra riprenda questo concetto:
Prof Samizdat: Come oscenamente divino e affascinante era il tuo sguardo! Quando riconobbi i tuoi occhi sotto il passamontagna, morte morte ti trascinava. Ti trattenni mi buttasti a terra, poi spari, spari tanti e una lastra di sangue sull’asfalto. Oh, in quale olimpo geometrico - in alto tu, in basso noi, passanti che dovevamo sciamare nei flussi di cristallo da te approntati - hai progettato la tua e la nostra fine! Non quasi signore contro antichi signori ti pensavo, ma tenace, ancora a noi accanto, nel solco di comuni speranze a costruire nei riquadri d’ombra. E tu, invece, a squarciarli, ad accecarci con lampi distruggitori mostrando osceni brandelli di un comunismo già da tempo, in silenzio e senza brividi, squartato in menti da camposanto. Guerriero: Per un attimo sentii che t’afferrasti, ma al mio fantasma giustiziere e terribile, non al mio corpo materiale e combattente. Tu rinnegandomi, non potevi fermarci. A stento, assieme, nelle città di allora, concentrammo pulviscoli d’esistenze nuove; e intessemmo i rapporti possibili, un disegno operaio di rivoluzione. Furono attimi e decidemmo solo in parte, e come, e dove lottare. Perciò ci separammo. Di quel progetto luciferino, ora inerte, non accusare solo noi, i demoni; né vantare la tua innocente cecità contro la nostra superbia. Inzuppate di sangue abbiamo le care, ma già stracciate, carte di libertà; e dato, con fragili armi e in pochi, assalti nei cieli alla morte, non per pochi soltanto predisposta ma per classi intere nel mondo. Perciò del corpo a corpo che ci ha fuso coi nemici non chiedere resoconti a noi soltanto. Se avessi fissato davvero i loro occhi, invece di abbassarli, presto turbato, lo sguardo mio a confronto lo troveresti delicato e pieno di riguardi.
[6] A. Negri, cit., pag. 9.
[7] A. Negri, cit., pag. 25.
[8] A. Negri, cit., pag. 38.
[9] A. Negri, cit., pag. 50.
[10] A. Negri, cit., pag. 51. Al di là dell’astrattezza almeno Negri proponeva dei riferimenti ideali per la sua Autonomia operaia. Certo se li confrontiamo, ma sia chiaro lo faccio con infinite riserve, con quelli di Lenin: “Tutto il potere ai soviet, la terra ai contadini” ci rendiamo conto della differenza fra un programma che può diventare catalizzatore di una forza rivoluzionaria, in una condizione data come era quella del 1917 in Russia, e uno che è solo un susseguirsi di rivendicazioni più o meno sfuocate. Ma sia chiaro sempre meglio di quello che ha affermato Renato Curcio che di fronte alla domanda quale fosse lo sbocco dell’azione politica delle Brigate Rosse ha risposto: “Non ho mai pensato che lo sbocco vittorioso della lotta armata dovesse significare la conquista materiale del potere. Questa prospettiva non apparteneva al mio scenario mentale. Sintetizzando le cose con una formula elementare, posso dire che quella società in cui vivevamo non mi andava assolutamente bene, non volevo a nessun costo accettarla, lottavo per cambiarla. La parola “vittoria” significava la speranza di riuscire a modificare, almeno in parte, lo stato delle cose” (R. Curcio, A viso aperto, intervista di M. Scialoja, Mondadori, 1993, pag. 125-126.). Insomma una tragica scia di sangue, che ha segnato la storia italiana dal 1970 in poi, sarebbe dovuta servire “per modificare, almeno in parte, le cose”? Di fronte a queste parole non resta che il silenzio.
[11] A. Negri, cit., pag. 58-59.
[12] Questa citazione e le successive riprendono in estrema sintesi il discorso di Rita di Leo presente nel suo più recente lavoro, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino, 2018. Un testo particolarmente stimolante e su cui sarà necessario tornare.
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