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eticaeconomia

Federico Caffè. Sono passati 35 anni

di Maurizio Franzini

Federico Caffè“La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza”

Pier Paolo Pasolini

La mattina del 15 aprile di 35 anni fa il telefono fisso di casa mia squillò molto presto, mentre ancora dormivo. Alzai la cornetta e a parlarmi era il mio amico e un po’ più anziano collega Giorgio Gagliani, che purtroppo ci ha lasciato da molti anni. Con voce calma mi chiese se fossi sveglio e prima ancora che potessi dirgli ‘fino a un minuto fa, no’ mi resi conto che nella calma della sua voce c’era qualcosa di strano. ‘Senti, Caffè è scomparso’ ‘Scomparso? Mi stai dicendo che è morto’ ‘No, non è morto è scomparso, sparito non sappiamo dove sia andato’. Giorgio credo sia stato l’ultimo di noi a vederlo, il giorno prima della scomparsa, ma questo di certo non gli fu d’aiuto per fare ipotesi su dove potesse essere. Poco dopo, tutti noi, suoi ‘allievi’, eravamo lì, a casa di Caffè in via Cadlolo, alla ricerca di idee sul da farsi. Quella che prevalse fu di cercarlo sulla collina di Monte Mario nella angosciosa speranza che fosse finito lì sospinto da un momento di cedimento alla sensazione che la vita gli stesse sfuggendo di mano. Non fu una buona idea, come tutte quelle che le fecero seguito. La sequenza presto si esaurì e abbandonare la speranza di recuperarlo al nostro affetto e alla nostra gratitudine non fu facile. Certo fu impossibile – io credo, per ognuno di noi – smettere di interrogarsi sulle ragioni ultime e sul significato di quel suo gesto smisurato.

Sapevamo della sua sofferenza per il venir meno di essenziali affetti, sospettavamo che fosse stato se non raggiunto almeno lambito dal social despair per il percorso che il mondo aveva imboccato e sapevamo – dovrei dire meglio: credevamo di sapere – quanti intralci alla sua vitalità creava quella stagione della vita in cui gioie e soddisfazioni quasi dimenticano di germogliare.

Ma forse c’è stato anche qualcos’altro, annidato nella sua vita di intellettuale ed economista che ha serpeggiato per qualche anno. Qualcosa che non consiste propriamente nella ‘solitudine del riformista’ che è stata frequentemente invocata per spiegare la sua scomparsa, facendo riferimento al titolo di uno dei suoi più celebri saggi giornalistici. Mosso dal dubbio che potesse esservi qualcos’altro nel suo malessere di intellettuale ed economista ho provato a rileggere con occhi il più possibile sgombri i suoi ultimi scritti e a integrarli con qualche ricordo personale. Il dubbio si è rafforzato, e provo a darne conto.

Parto proprio dalla Solitudine del riformista, pubblicata sul Manifesto del 29 gennaio 1982. Va anzitutto ricordato che la parola ‘solitudine’ compare soltanto nel titolo del saggio. Caffè parla di riformista deriso, e si può immaginare che il titolista abbia ben ponderato che La derisione del riformista non fosse un titolo così attraente. La questione ha qualche importanza perché a me pare che Caffè non esprima i sentimenti che normalmente vengono associati alla solitudine come stato di sofferenza: debolezza, ripiegamento e magari anche rimpianto. Al contrario. L’articolo è pieno di orgoglio, di affermazioni che mostrano l’intenzione di non arretrare di un centimetro di fronte alle critiche. Anzitutto quelle di coloro che pensano che il sistema non sia da riformare ma occorra solo fuoriuscirne. Proprio rispetto a queste critiche la reazione di Caffè sembra più veemente: si “prospettano future palingenesi vaghe e che si riassumono in formule che non si sa bene cosa vogliano dire”. Ma anche quelle di chi propone – “ever-always-the same” potrebbe dirsi – l’eterno ritorno al mercato immerso nel ‘retoricume neoliberista’ e intende le riforme solo come annullamento di tutto ciò che frenerebbe le mirabilanti potenzialità del mercato. Di queste riforme ne abbiamo viste tante nei decenni successivi con esiti (e forse anche intenti) che non è il caso qui di approfondire.

Dunque, Caffè si sente deriso ma non deraglia, non retrocede e non si preoccupa. I suoi fari sono altri e quello principale lo enuncia proprio nella conclusione, con le parole del suo amato Keynes. I fari sono le nuove idee, le nuove teorie che occorre produrre oggi per sperare che vengano adottate in un futuro, che potrebbe essere non prossimo.

Integrando con miei liberi pensieri queste affermazioni di Caffè mi avventuro a mettergli in bocca queste parole: “non posso seguire chi vuole tornare al passato o chi promette un futuro confuso e immerso in dense nebbie. Oggi dobbiamo applicare al meglio ciò che sappiamo sui modi per limitare i ‘danni sociali’ che il mercato produce. E per questo sono riformista. Ma soprattutto dobbiamo impegnarci a produrre nuove idee e nuove teorie. In qualche modo è la storia che ce lo impone”. Parole di orgoglio e di speranza difficilmente pronunciabili sotto il peso della solitudine.

Ma provo a spiegarmi meglio. E’ ben noto che il mondo è cambiato con l’inizio degli anni ’80. Si usa dire che è cambiato con l’avvento di Thatcher e Reagan. Quest’ultimo, appena eletto, proprio nel 1980, aveva due compiti da assolvere: liberare gli ostaggi americani detenuti in Iraq – e la liberazione avvenne nel giorno stesso del suo giuramento – ; dare soluzione al problema della stagflazione. Ovviamente in questo secondo caso la soluzione non fu immediata, ma immediata fu l’indicazione del senso di marcia. Il primo intervento economico fu l’Economic Recovery Tax Act che prevedeva tagli drastici alle imposte in applicazione dei principi dell’anti-keynesiana supply side economics.

Si trattava di un cambiamento radicale, di riformismo in senso sbagliato ma il problema era che anche il mondo in qualche modo era cambiato. Caffè, da tempo, aveva riflettuto su quei cambiamenti e sulle sfide che ne derivavano. Quella principale credo che possa essere così sintetizzata: i tempi cambiano e il fondamentale messaggio keynesiano, che resta valido indipendentemente dalle politiche, può richiedere nuove politiche. Queste ultime non possono essere codificate una volta per tutte. L’idea che l’intervento pubblico debba correggere il mercato per raggiungere fini alti, quella sì può essere codificata una volta per tutte. Vediamo qualche affermazione di Caffè tratta dai suoi scritti di quegli anni:

“L’azione governativa non può gingillarsi al margine con politiche monetarie e fiscali ma può alterare la struttura dell’economia e i vincoli che ne condizionano l’operare”. Occorre un “complesso di politiche selettive, mirate, rivolte al conseguimento di specifici intenti: l’eliminazione, appunto, o l’attenuazione delle carenze che si sperimentano dal lato dell’offerta nei tempi attuali e nel prevedibile futuro”. Ed è disdicevole che non sia ancora emerso “un disegno di politica economica alternativa in grado di assicurare all’economia soluzioni ‘meno punitive’ degli sconfortanti livelli di disoccupazione oggi prevalenti, anche in presenza di riduzioni sensibili dei tassi di inflazione”.

Il bisogno di una rinnovata politica economica che guardi specialmente al lato dell’offerta emerge con chiarezza e sufficiente continuità. Per Caffè, lo si è già detto, questo voleva dire adattare il messaggio di Keynes ai tempi non abbandonarlo ammettendo che le politiche di domanda non bastano.

L’idea che occorresse occuparsi da keynesiani anche del lato dell’offerta si rafforzò in lui dopo la pubblicazione da parte di un autorevole keynesiano, Lawrence Klein, nel 1983 di un un libro, The Economics of Supply and Demand, che affrontava proprio il problema del “lato dell’offerta” nei modelli keynesiani e suggeriva un’integrazione tra la macroeconomia keynesiana e l’approccio input-output di Leontieff.

Caffè ben conosceva Klein e aveva già espresso apprezzamento nei suoi confronti. Ad esempio nel 1977 dalle colonne del Messaggero riportando con consenso la sua proposta, in cui riviveva lo spirito di Bretton Woods, di mettere il riequilibrio dei flussi commerciali anche a carico dei paesi in surplus. In particolare Klein chiedeva alla Germania di rivalutare il marco del 10%. Una questione che i decenni successivi non hanno reso meno attuale.

Caffè decise di curare l’edizione italiana del libro di Klein, uscita nel 1986, e le sue note introduttive presentano diversi motivi di interesse. Anzitutto, con un giudizio tagliente e in evidente polemica con la supply side economics, chiarisce che “l’economia del lato dell’offerta non deve essere intesa in un grezzo significato populista”. Piuttosto “significa tener conto, strutturalmente, di problemi come quelli di carattere demografico, della produttività, dell’energia, della regolamentazione, dell’ambiente, dell’alimentazione”. Questi problemi non potrebbero essere mai risolti “in modo specifico, o tempestivamente, da una manovra che poggiasse esclusivamente dal lato della domanda.”

Sembra, in realtà, che per Caffè la vera sfida fosse quella di riflettere su come creare nuove istituzioni (potrei dire nuove ‘regole del gioco’) in grado di aggredire i problemi laddove essi rischiano di manifestarsi e per molti di essi il dove è il lato dell’offerta. L’apprezzamento di Caffè nei confronti degli economisti neo-istituzionalisti, formulato in più di una occasione, mi pare coerente con questa visione.

Ma, ecco il punto, quella riflessione langue. In pochi ma densi passaggi Caffè esprime il suo disagio nei confronti di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi compagni di strada. Economisti educati al messaggio di Keynes che però di quel messaggio non valorizzavano la parte principale. Come essere all’altezza dei tempi. E’ riferendosi ad essi che afferma di vedere troppi economisti che si richiamano a Keynes – tra cui anche alcuni dei suoi più accreditati discepoli – perdersi in poco utili dispute dottrinarie. “La conflittualità dottrinale ha fatto perdere di vista che è preferibile sforzarsi di accendere un lume, anziché inveire contro le forze oscure del male” . E più esplicitamente: ‘Il quadro desolante dei nostri tempi (….) nella misura in cui comporti responsabilità degli economisti si deve, a mio avviso, non alle loro ambizioni sbagliate nella sfera dell’interventismo pubblico, ma a un loro asettico non coinvolgimento, sul piano dello studio, documentato e storicamente circoscritto, dei necessari adattamenti istituzionali”. Se c’è uno spazio in cui si è manifestata la solitudine intellettuale forse è proprio questo.

E qui affiora il ricordo personale. Proprio in quegli anni Caffè infilò la carta nel rullo della sua verde Olivetti e iniziò a battere sui tasti. Il titolo era: “I problemi contemporanei dell’azione pubblica nell’economia”. Il contenuto: la proposta, abbastanza inusuale, di una ricerca da svolgere in Dipartimento con tutti i ricercatori giovani e meno giovani che ne facevano parte. Nelle prime righe si leggevano parole che forse oggi interpreterei come di speranza e di timore di delusione: “Il presente abbozzo di ricerca di gruppo potrà formare oggetto di utile discussione soltanto se non vi saranno inibizioni di sorta nel criticarlo ed eventualmente respingerlo; nell’integrarlo o sottoporlo a potatura”. Seguiva un elenco di 15 punti. Ne ricordo qualcuno: “Le insufficienze delle politiche di domanda; politiche alternative di creazione di posti di lavoro; politiche alternative di controllo del settore pubblico dell’economia; il controllo sociale dell’economia a livello di settori”. Questioni di economia e di istituzioni. Molti di noi accolsero con entusiasmo quella proposta ma all’entusiasmo iniziale non seguì nulla. Un fallimento del coordinamento, mi verrebbe da dire, dovuto anche al fatto che Caffè non se la sentiva di insistere più di tanto, forse per non correre il rischio di una delusione.

Ecco, ora mi viene da pensare che non abbiamo dato il peso che meritava al suo cruccio – che è anche un potente messaggio – per la mancanza di un adeguamento della riflessione genuinamente keynesiana alla complessità dei tempi. E non abbiamo fatto quello che potevamo per alleggerirlo e dargli le energie che derivano dal sentirsi ancora parte di un progetto che conta, un progetto che forse corrisponde al completamento della propria vita intellettuale. Ora a 35 anni di distanza quell’episodio acquista ai miei occhi – e chissà se sbaglio – un significato che non gli avevo mai attribuito. Per questo vorrei sapere dove si nasconde quella magica caffetteria di cui racconta Toshikazu Kawaguchi nel suo bellissimo romanzo dal titolo (guarda caso) Basta un caffè per essere felici. In quella caffetteria bevendo una tazza di caffè e per la durata della consumazione si può tornare al passato e incontrare chi si desidera. Si può fare questo alla condizione, però, di non cambiare il presente. Ma in quel caffè vorrei andarci lo stesso nella speranza di sentirmi dire da Caffè che mi sbaglio.

Comments

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Donatella
Thursday, 05 May 2022 01:23
Splendido articolo commemorativo, denso di considerazioni nostalgiche e profonde, con una magnifica conclusione ad hoc (non ho letto il romanzo, ma ho visto il film)
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AlsOb
Monday, 25 April 2022 20:58
La scomparsa di F. Caffè, come quella, tra gli altri, di John Lennon finiscono per assumere una notevole valenza simbolica, a marcare la potente reazione della classe dominante contro il capitalismo democratico e il passaggio al capitalismo neoliberale fascista e al nuovo paradigma antropologico, per il quale le classi inferiori servono solo all'estrazione di plusvalore e vanno limitate per il resto.
Nel caso di Caffè è evidente la sua incompatibilità con il capitalismo neoliberale fascista fondato su principi fideistici contrari al progresso scientifico del dopoguerra nella comprensione del capitalismo.
Infine le sue ultime preoccupazioni erano istituzionali, ma nella misura in cui rappresentassero la costruzione o rimodulazione dell'accumulazione capitalistica nazionale in vista della difesa della piena occupazione e dell'elevato reddito raggiunto, così da consolidarli e renderli meno esposti al rischio del vincolo delle partite correnti. Tutto ciò era altrettanto incompatibile con la cattura dei partiti di sinistra da parte della classe dominante e la loro conversione a organi promotori dell'agenda neoliberale e dell'internazionalismo terzomondista.
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