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ospite ingrato

Il gesto dell’intellettuale, da Zola a oggi

di Pierluigi Pellini

2022.5.9. PELLINIEsce in questi giorni per il Saggiatore E. Zola, J’Accuse…!, a cura di Pierluigi Pellini, con un saggio di Daniele Giglioli. Il volume offre una traduzione finalmente attendibile della celebre lettera di Zola (e della Dichiarazione alla Corte pronunciata dallo scrittore alla fine del processo che lo ha visto imputato per diffamazione); e comprende due saggi: uno di Pellini, che precisa la specificità storica del gesto di Zola nella longue durée (da Voltaire a oggi) dei rapporti fra uomini di cultura e potere; e uno di Daniele Giglioli, che prende spunto da un romanzo di Philip Roth, La macchia umana, per impostare una genealogia e una critica dell’accusa nella nostra contemporaneità. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo qui un estratto dei paragrafi centrali dello scritto di Pierluigi Pellini.

* * * *

L’intellettuale moderno denuncia e accusa in nome di un gruppo (gli altri intellettuali, i repubblicani) e soprattutto in nome di valori universali condivisi: giustizia, verità, diritti dell’uomo. In questo senso, l’intellettuale moderno non parla mai in nome dell’io: come invece fanno, oggi, quasi tutti i fabbricanti seriali di j’accuse più o meno interessati o pretestuosi.

La realtà storica sfugge quasi sempre alle semplificazioni: anche a quelle di segno opposto, tentate da intellettuali importanti come Alain Badiou. S’è visto, ed è innegabile, che l’affaire Dreyfus è anche “guerra civile”: lo è in figura e a tratti rischia di diventarlo anche realmente. Altrettanto innegabile è che la polarizzazione fra progresso e reazione, fra democrazia repubblicana e nazionalismo del sangue e della terra, rimarrà attiva, sottotraccia, nella società francese, e tornerà a manifestarsi con furibonde recrudescenze.

E tuttavia la spericolata genealogia proposta da Badiou, che fa discendere dalla reazione antidreyfusarda gli oscuri ripiegamenti identitari che a intermittenze s’impongono nella storia di Francia (dal regime di Vichy alla presidenza di Nicolas Sarkozy),1 non solo mescola progetti politici lontani e perfino diametralmente opposti (l’aggressivo neoliberismo di Sarkozy esclude le nostalgie clerico-rurali di tanta tradizione nazionalista); deriva anche da una ricostruzione giusta nella sostanza, ma parziale e schematica, degli schieramenti che concretamente si fronteggiano ai tempi dei processi a Dreyfus e a Zola.

In realtà, Badiou non fa altro che portare alle estreme conseguenze un atteggiamento manicheo che ha sempre caratterizzato buona parte della storiografia sull’affaire: il fatto di essersi schierati a favore della revisione del processo e in difesa dell’autore di J’Accuse…! ha spesso garantito agli intellettuali una patente di correttezza politica, come se tutti i dreyfusardi fossero progressisti, repubblicani, universalisti (e magari anche realisti e naturalisti in letteratura), al pari di Zola. Non è così. Lo sapeva Hannah Arendt, che dedica all’affaire il capitolo IV della parte I delle Origini del totalitarismo:2 pagine certo datate (e perciò costellate di imprecisioni storiche), a tratti fuori fuoco (sopravvalutano il ruolo di Clemenceau, idealizzano Picquart), ma a sprazzi ancora acute e suggestive. Pur inserendo l’affaire in un più ampio «preludio del nazismo», di portata europea, Arendt riconosce nei dreyfusardi una «minoranza eterogenea», «un miscuglio di elementi disparati»; e quasi altrettanto eteroclito è lo schieramento opposto.

Svariati scrittori realisti e naturalisti sono antidreyfusardi e antisemiti: a cominciare da Daudet e Céard. I simbolisti – da Mallarmé ai giovani riuniti intorno alla rivista «La Plume» – sono invece in larghissima maggioranza solidali con il peraltro generalmente poco amato Zola. Una delle voci più autorevoli fra i giovani dreyfusardi, Charles Péguy, al tempo dell’affaire vicino al socialismo, pochi anni dopo convertito al cattolicesimo, non rinnegherà mai il suo impegno a favore di Dreyfus e il suo rigetto dell’antisemitismo, nemmeno quando elaborerà un’ideologia antimoderna che ha potuto essere accostata (con qualche forzatura) alla destra nazionalista e bellicista. Che l’esito della battaglia dreyfusarda sia stato una vittoria del laicismo anticlericale, dell’universalismo illuminista, della modernizzazione anti-rurale (e dell’opportunismo dei politicanti radicali), per Péguy è un tradimento dello spirito con cui molti giovani della sua generazione hanno vissuto i mesi drammatici del 1898 e del 1899. La sua è una posizione minoritaria, certo; ma non isolata e anzi molto significativa: non può essere derubricata, come non di rado si fa, a stranezza di uno scrittore “inclassificabile”.

Allo stesso modo, non può essere liquidata come una bizzarria della Storia – fra i molti che si potrebbero evocare, faccio solo un altro esempio, pochissimo noto e a mio parere particolarmente significativo – la vicenda di un protagonista non secondario dell’affaire, oggi completamente dimenticato: diciamo pure censurato. Quando si parla de «L’Aurore», il giornale che non solo ha pubblicato J’Accuse…!, ma che a tutti gli effetti, per tre anni, è stato il principale organo militante dei dreyfusardi, si ricorda sempre l’intelligentissimo e spregiudicato redattore, Georges Clemenceau, destinato a una fulgida carriera politica. A volte se ne cita anche il direttore, Ernest Vaughan, generoso giornalista da sempre impegnato nelle battaglie radicali e socialiste. Si dimentica quasi sempre, invece, di precisare che i due hanno fondato «L’Aurore», nell’ottobre del 1897, insieme a Urbain Gohier (1862-1951); e insieme a lui l’hanno gestita nei momenti più difficili dell’affaire.

Uomo segnato, ai nostri occhi, da innumerevoli contraddizioni, ma impegnato in prima linea nella richiesta di revisione del processo Dreyfus, Gohier non è repubblicano: è monarchico (per la precisione, orléanista), e al tempo stesso socialista; è ferocemente antimilitarista, e per questo dreyfusardo; ma è da sempre, e sempre rimarrà, non meno ferocemente antisemita. In vecchiaia, sarà collaborazionista: naturalmente, essendo razzista? o paradossalmente, essendo stato un dreyfusardo della prima ora? Come che sia, in quanto servo di Vichy e amico dei nazisti, è stato rimosso dalla narrazione ufficiale dell’affaire Dreyfus.

E invece merita di essere citato per rendere evidente, oltre ogni ragionevole dubbio, come negli anni a cavallo del 1900 la frattura fra la Francia del progresso e la Francia della reazione non sia affatto netta, univoca e coerente come può sembrare a posteriori. Proprio un articolo di Gohier, pubblicato in prima pagina il 15 dicembre del 1899, L’Effort et le salaire (Lo sforzo e la ricompensa), provoca le dimissioni di Clemenceau da redattore de «L’Aurore»: l’autore sostiene di essere stato l’unico – fin dall’autunno del 1897 – a comprendere la vera natura dell’affaire, denunciando le malefatte dello Stato Maggiore indipendentemente dalla persona di Dreyfus; e attribuisce il merito della revisione non a Clemenceau o a Zola, e tantomeno alla famiglia Dreyfus e ai suoi amici (ebrei), ma alla scelta di campo del socialista Jaurès. Insomma, l’antisemita Gohier si schiera contro le gerarchie dell’esercito per antimilitarismo; pur essendo monarchico e razzista, si trova a combattere dalla parte dei repubblicani difensori dei diritti universali dell’uomo.

L’uomo non è esente da una certa megalomania, che può diventare perfino mitomania; ma senza alcun dubbio svolge nell’affaire un ruolo importante, in alcuni momenti decisivo. È vero, per esempio, che all’interno de «L’Aurore», nell’autunno del 1897, si schiera per la revisione del processo prima di Clemenceau, e con convinzione più ferma e autentica di quella (agli inizi alquanto oscillante) mostrata dal suo cinico e opportunista collega. Gohier ha svolto un ruolo di rilievo, che gli storici hanno spesso sottovalutato, a volte volutamente e a volte quasi in modo irriflesso, perché appare strano – agli occhi manichei della posterità – celebrare come eroe dell’affaire Dreyfus un ambiguo personaggio che sulla questione ebraica condivide da sempre, su per giù, le idee di un Drumont; e che finirà, ultraottantenne ma ancora carico di giovanile veemenza, come redattore dell’ignobile foglio filo-nazista «Au Pilori», su cui scriveva, con veemenza se possibile anche maggiore, uno come Céline.

Quello di Gohier è un caso estremo, ma non isolato.3 Col senno di poi, è facilissimo tacciarlo di confusione ideologica, o perfino rilasciargli una patente di follia (ma in anni recenti non si sono forse visti percorsi ideologici perfino più sorprendenti?). Una ricostruzione attenta alle ragioni puntuali delle sue scelte – o, a maggior regione, delle scelte di Péguy – mostrerebbe probabilmente una coerenza soggettiva inquietante, o perfino urticante, per le nostre certezze. Di sicuro, mostrerebbe come la narrazione egemone (ulteriormente irrigidita da Badiou), quella che vede una Francia divisa in due da una demarcazione netta e invalicabile – da un lato il nazionalismo militaresco, clericale, antisemita, da ogni punto di vista reazionario; dall’altro la République, con i suoi valori illuministi, laici, universalisti di libertà, uguaglianza e fraternità –, ha certamente qualcosa di vero; anzi, ha moltissimo di vero:4 come del resto spesso capita ai luoghi comuni; ma è appunto la semplificazione di una realtà storica più sfrangiata e complessa.

Come ci sono alcuni antisemiti, alcuni monarchici, alcuni cattolici fra i dreyfusardi, così ci sono non pochi (diciamo pure: molti) repubblicani radicali nel campo avverso: per fare un solo esempio, il generale Billot, ministro della guerra dal 1896 al 1898 e responsabile dell’insabbiamento delle denunce di Picquart, è un esponente della sinistra democratica; e il direttore di uno dei giornali più accesamente colpevolisti, «L’Éclair», è un ex comunardo e deputato radical-socialista, Alphonse Humbert, a suo tempo deportato in Nuova Caledonia (e poi graziato nel 1879).

Se ne può cavare una verità banale; e non varrebbe nemmeno la pena di enunciarla, se oggi troppo spesso non fosse negata de facto dal manicheismo politicamente corretto che (più o meno esplicitamente) domina il discorso pubblico occidentale del secolo XXI: coltivare saldi principi repubblicani non necessariamente preserva da scelte oggettivamente reazionarie; soprattutto, non basta lanciare, o condividere, un j’accuse, per trovarsi automaticamente e per sempre dalla parte giusta della storia. Ma il punto è un altro: il ruolo fondamentale di Zola, nell’affaire Dreyfus e nella sua posterità, non è solo quello di aver smosso le coscienze e suscitato lo scandalo, scrivendo la lettera al Presidente Faure; è anche quello di avere interpretato la vicenda come uno scontro decisivo fra opposte visioni del mondo. Zola non ha avuto soltanto il coraggio di denunciare; ha anche avuto la lucidità di interpretare, la forza di dare un senso politico complessivo alla vicenda. Questo fa (faceva) l’intellettuale moderno.

Invece, nel passaggio da J’Accuse…! a j’accuse, nella trasformazione del gesto di Zola in nome comune, in atto seriale, stinge sul sostantivo – per parafrasare un celebre assioma di Balzac (ne La vieille fille, La zitella) – il colore delle epoche che attraversa.5 Soprattutto in Italia (ma non solo), auspice il mito di Pasolini, si associa oggi volentieri alla parola accusatoria dell’intellettuale la capacità rabdomantica di rivelare verità oscure, trame nascoste, retroscena complicati e addirittura incredibili.

Se nel nuovo millennio va di moda lanciare j’accuse, è anche perché il nostro sentire collettivo si nutre più che mai di un immaginario complottista. Centrali nella cultura postmoderna,6 le teorie del complotto, in un processo ormai di lunga durata, e recentemente intensificato in misura esponenziale dalla pandemia, offrono una facile scorciatoia cognitiva, restituiscono le certezze perdute – consentono, per dirla brutalmente, ai più stupidi e ignoranti di sentirsi intelligenti, più intelligenti degli altri.7

Ecco: nulla di tutto questo in Zola. Se dal punto di vista storico altri sono i nuclei significativi fondamentali di J’Accuse…! (di alcuni s’è detto nelle pagine precedenti), nel contesto di un libro come il nostro, che prova a sottoporre a critica l’immaginario letterario, il fondamento filosofico (e anche il movente antropologico) dell’atto pubblico di accusa, questo è un elemento decisivo.

È vero che Zola, nella lettera a Loubet, parla del «doppio complotto del clericalismo e del militarismo, che agivano in nome di tutte le forze reazionarie del passato». Si tratta però di una lettura a posteriori; è il momento – s’è già detto – in cui Zola, sul punto di abbandonare la scena pubblica dell’affaire, entra con più decisione in un dibattito prettamente politico. Il «complotto» cui allude è appunto di natura politica: mira a abbattere la Repubblica, a restaurare manu militari un potere monarchico e clericale. Dietro l’errore giudiziario, invece, lo scrittore rifiuta sempre di vedere un deliberato disegno eversivo, una trama diabolicamente preordinata.

Al contrario, J’Accuse…! lo dice in modo chiarissimo, si è trattato per Zola di un banale «errore»: «Vorrei far toccare con mano come sia stato possibile l’errore giudiziario, come sia nato dalle macchinazioni del maggiore du Paty de Clam, come il generale Mercier, i generali de Boisdeffre e Gonse abbiano potuto lasciarsi invischiare, assumendosi a poco a poco la responsabilità di un errore, fino al punto di sentirsi in dovere di imporre quell’errore come se fosse la sacrosanta verità, una verità che non può essere messa in discussione. All’inizio, da parte di costoro, non c’è dunque nient’altro che negligenza e mancanza di perspicacia. Tutt’al più, si ha l’impressione che si siano fatti influenzare dal fanatismo religioso e dai pregiudizi del loro ambiente. Hanno lasciato carta bianca alla stupidità». Stupidità e negligenza (non calcolo mefistofelico): queste le colpe di ministri e generali.

Non è del tutto vero, in realtà. Il fantasioso e bislacco du Paty de Clam ci ha messo del suo, certamente, ma gli ordini gli sono venuti dall’alto: non è lui il motore dell’affaire, come pensa Zola. Quando scrive J’Accuse…!, lo scrittore non soltanto ignora il ruolo fondamentale del principale falsario, il maggiore Hubert-Joseph Henry; sottostima anche le responsabilità pesantissime che fin dal principio si assumono consapevolmente il potere politico e le gerarchie militari. Sono, da parte dello scrittore naturalista, incomprensioni in parte scusabili, perché le informazioni di cui disponeva erano limitate e frammentarie. Ma sono anche incomprensioni significative.

Zola non crede che in principio ci siano le trame oscure dello Stato Maggiore. Non pensa che il potere politico e militare abbia volutamente incastrato Dreyfus per coprire un ufficiale amico, Esterhazy, e soprattutto per offrire all’opinione pubblica un capro espiatorio perfetto, nella persona del capitano ebreo. Il fatto è che l’autore dei Rougon-Macquart è esattamente l’opposto di quel che oggi si definirebbe un “complottista”. Nei suoi saggi letterari, come nei suoi interventi politici e militanti, non si stanca mai di ribadire (anche prima dell’affaire) che la vita è più semplice di come la dipinge uno Stendhal, che la realtà è meno contorta di come appare all’immaginazione sfrenata di un du Paty de Clam. Può essere un accostamento sorprendente, ma è almeno in parte esatto: prima di Hannah Arendt, l’autore di J’Accuse…! intuisce «la banalità del male».8

È esatto solo in parte, questo accostamento, perché in J’Accuse…! c’è innanzitutto l’idea (molto zoliana) che il male sia banale in quanto meschino, mediocre, privo della sinistra grandezza satanica attribuita ai personaggi negativi, e alle loro opere malvage, dalla tradizione romantica. Un male nato per caso e gestito in modo cialtronesco. Ma c’è anche l’idea che una crudeltà inaudita possa albergare nell’animo, e esplicarsi nelle azioni, di uomini perfettamente ordinari: un Ministro tonto e opportunista (ma di sinistra!) come Mercier, un nobile baciapile incartapecorito come Boisdeffre, un militare di lunghissimo corso, un po’ valoroso e un po’ gloriosus, certo un po’ cinico ma da molti considerato un brav’uomo, come Gonse. Sotto questo aspetto (solo sotto questo aspetto), non siamo poi tanto lontani da Eichmann.

Può anche darsi che Zola abbia strategicamente ridimensionato le colpe originarie del Ministro e dei capi dello Stato Maggiore per rendere meno dirompente l’impatto istituzionale dell’eventuale revisione del processo Dreyfus. Ma lo ha fatto soprattutto per convinzione, perché ha individuato in du Paty de Clam il vero avversario: un avversario diretto, e precisamente sul terreno che gli è più congeniale, quello della letteratura, del racconto. Per ben tre volte, nella lettera di Zola al Presidente Faure, l’intero impianto accusatorio accolto dalla Corte Marziale è sprezzantemente derubricato a cattivo roman-feuilleton, partorito da una mente fumosa: «quel romanzo d’appendice così stravagante» è l’«opera» dello scombinato maggiore – come i romanzi naturalisti e realisti dei Rougon-Macquart sono l’opera di Zola. L’«impudente complotto», di cui pure parla J’Accuse…!, e che tornerà (s’è visto) nella lettera al Presidente Loubet, viene dopo, serve a «imporre l’errore», a coprire i crimini commessi. Secondo Zola, è una macchinazione necessaria, inevitabile, subìta più che cercata dalle gerarchie militari.

Gli storici ancora discutono sulla genesi dell’affaire; e tutto sommato la tesi più plausibile resta quella dell’errore almeno in parte involontario – anche se è certo che il generale Mercier ha precocemente, e cinicamente, sfruttato la condanna dell’ufficiale ebreo per ingraziarsi la stampa di destra, da cui era stato duramente attaccato nei mesi precedenti. Lo stesso Zola, nella lettera a Loubet del 22 dicembre 1900, riconosce di aver sottostimato, in J’Accuse…!, le colpe del Ministro della Guerra. Non è certo questa la sede per stabilire una verità storica destinata probabilmente a rimanere in parte nell’ombra.

Di certo, però, è interessante segnalare come un intellettuale dei nostri giorni, Roberto Saviano, introducendo un’edizione italiana di J’Accuse…!, dia per scontato – in modo del tutto scorretto – l’esistenza del complotto: «risulta evidente che l’affaire non è stato un errore giudiziario ma una macchinazione».9 Ecco: fedele interprete dello spirito dei tempi, e poco incline a documentarsi seriamente, Saviano considera ovvio che la denuncia dell’intellettuale riveli le oscure trame del potere. Invece Zola proclama una verità semplice (Dreyfus è innocente: punto) e smentisce tutte quelle che oggi si chiamerebbero dietrologie: le strampalate invenzioni del maggiore du Paty de Clam, la fantomatica esistenza di documenti in grado di far scoppiare un conflitto europeo, le presunte pressioni della lobby ebraica, e così via.

Fedele al razionalismo illuminista, per questo aspetto (ancor più che per altri) erede diretto di Voltaire, l’autore di J’Accuse…! ha una forma mentis, e una postura intellettuale, molto lontana da quella di un Pasolini, che denunciava torbidi complotti di palazzo, con la forza di una certezza morale, ma senza le pezze d’appoggio di una dimostrazione fattuale (il celeberrimo «Io so, ma non ho le prove», che ho già evocato e su cui mi capiterà di tornare). Non a caso, raccogliendo nel 1975, negli Scritti corsari, il suo più celebre intervento militante (uscito su «Il Corriere della sera», con il titolo Che cos’è questo golpe?), Pasolini lo ribattezza Il romanzo delle stragi.

Zola fa esattamente il contrario. Pur dichiarando a più riprese che l’affaire Dreyfus offre materia straordinariamente interessante al racconto, pur affermando addirittura che la realtà supera l’immaginazione, evita nel modo più rigoroso ogni trasposizione narrativa: non trasforma i protagonisti in personaggi, non ne indaga la psicologia; al contrario, li considera come «entità impersonali», refrattarie a ogni diretta trasposizione letteraria (quando si ispirerà, molto alla lontana, all’affaire, per il suo ultimo romanzo compiuto, Verità, Zola avrà cura di spostare la vicenda in un ambiente del tutto diverso, quello della scuola). Per lo scrittore naturalista, l’errore giudiziario non è frutto di un complotto romanzesco, ma di banale trascuratezza, di stupida inerzia.

Anche a Zola, tuttavia, mancano le prove; e anzi dichiara esplicitamente che non è compito suo cercarle. È un elemento decisivo, che consente di recuperare una parziale, ma significativa, comunanza con Pasolini. J’Accuse…! non solo non è frutto di un’inchiesta giornalistica (le ricerche documentarie sono state condotte in gran parte dal generoso Bernard Lazare), ma segna anche una distanza netta fra l’intervento dell’intellettuale e il giornalismo d’inchiesta: «non sta a me dire tutto: si facciano ricerche, verrà fuori altro».

È un passo rivelatore: sia perché ribadisce implicitamente la fiducia di Zola nella divisione positivistica del lavoro – non sta a me, romanziere, fare il giudice istruttore, né il detective privato; sia soprattutto perché definisce e delimita lo spazio di intervento dell’intellettuale: che è chiamato a mettere in gioco tutto il suo prestigio di scrittore per additare all’opinione pubblica una flagrante ingiustizia e per costringere le istituzioni a tornare su una decisione iniqua. Ma il lavoro riparatorio – la nuova inchiesta, il nuovo giudizio, le riforme necessarie – spetta a altri: inquirenti, giudici, politici. L’intellettuale non si sostituisce ai poteri repubblicani; nemmeno li affianca. Li sprona e corregge solo in caso di emergenza.

È questo un punto fondamentale su cui vorrei richiamare l’attenzione, un luogo comune sull’intellettuale moderno che vorrei contribuire a mettere in discussione.

Dopo J’Accuse…!, la frattura fra gli intellettuali appartenenti ai due opposti schieramenti diventa profondissima e insanabile. Implode la plurisecolare République des Lettres, dove regna per la prima volta la guerra civile. Emblematicamente, gli uomini di cultura schierati sul fronte antidreyfusardo rifiutano ormai di essere definiti “intellettuali”: Barrès, che pure l’aveva usato più volte fin dall’inizio degli anni Novanta, definisce il termine «cattivo francese».10

Da questo momento in poi s’impone, nel discorso dominante dell’Europa del Novecento, lo stereotipo – falso quant’altri mai – dell’intellettuale e dell’ideologo per sua natura schierati a sinistra: uno stereotipo di cui la presunta “egemonia culturale della sinistra” in Italia è vieto e resistente cascame.

La divisione del campo intellettuale è dunque, lungo tutto il “secolo breve”, irreversibile.11 Ma Zola, al contrario dei militanti nazionalisti come Barrès, che identificano scrittura e impegno politico, dopo aver portato a termine il compito che s’è prefissato – dopo il rientro dall’esilio inglese alla vigilia del processo di Rennes, dopo la nuova, grottesca condanna di Dreyfus, e dopo la grazia concessa da Loubet,12 seguìta dalla legge di amnistia generale – lascia la scena pubblica e torna alla letteratura.

Lo fa poco meno di tre anni dopo J’Accuse…!, il 22 dicembre del 1900, quando pubblica su «L’Aurore» la più volte citata lettera aperta al Presidente Loubet: è un attacco violentissimo contro l’amnistia, «legge scellerata» che manda prosciolti sia gli innocenti Dreyfus, Picquart e Zola, sia i colpevoli Mercier, Boisdeffre, Gonse, ecc. L’autore di J’Accuse…! si toglie lo sfizio di ribadire punto per punto, e in alcuni casi di rincarare, le affermazioni contenute nella lettera del 13 gennaio 1898: in teoria, essendo il suo intervento posteriore all’amnistia, i generali “diffamati” potrebbero querelarlo di nuovo. Se ne guardano bene.

Ma la lettera a Loubet è innanzitutto un modo per congedarsi dall’impegno attivo; e si conclude così: «Ho svolto il mio compito nel modo più onesto che ho potuto, e rientro definitivamente nel silenzio». Ottenuto un risultato (sia pure parziale: la piena riabilitazione per Dreyfus arriverà solo nel 1906), Zola interrompe l’impegno civile: che non può farsi mestiere, precisamente perché il capitale simbolico speso nell’arena pubblica a favore dell’innocente condannato è stato accumulato in quella dimensione autonoma che è la scrittura romanzesca.

La funzione intellettuale dello scrittore può sussistere solo in quanto saltuaria, intermittente, sollecitata dall’urgenza di una situazione estrema. Se si trasformasse in ordinaria amministrazione, negherebbe la sua stessa ragion d’essere. Non deve perciò stupire che Zola sia identificato da Julien Benda come modello positivo di «chierico puro», capace di intervenire nella vita civile senza scendere a compromessi con i disvalori “temporali” – compromessi accettati invece, secondo Benda, sia dai nazionalisti da un lato, sia dagli intellettuali organici della Terza Internazionale dall’altro.13

Nell’azione dello scrittore durante l’affaire Dreyfus, l’autore del Tradimento dei chierici ritrova il suo ideale di universalismo razionalista; e di certo lo Zola di Benda è più fedele al vero dello «Zola ‘impegnato’, ‘edificante’, quasi ‘missionario’, inventato di sana pianta dalla tradizione militante»,14 osannato da quegli stessi intellettuali dell’”impegno” che liquidano il pamphlet di Benda come astrattamente umanistico (se non decisamente “di destra”),15 mentre cercano di appropriarsi retrospettivamente dell’eroe di J’Accuse…!.


Note
1 Cfr. in particolare A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome?, Cronopio, Napoli 2008.
2 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo [1951 e 1966], Einaudi, Torino 2009, da cui sono tratte le successive citazioni.
3 Diversa, ma forse meno di quanto possa sembrare, la posizione di quello che numerose riscritture letterarie e cinematografiche hanno presentato come il vero eroe dell’affaire, il tenente-colonnello Georges-Picquart: anche lui antisemita, come è noto (un suo ritratto in chiaroscuro si legge in Ph. Oriol, Le faux ami du capitaine Dreyfus: Picquart, l’Affaire et ses mythes, Grasset, Paris 2019). Solo che l’immaginario romanzesco facilmente può esaltare il militare che denuncia l’errore giudiziario per amore della verità e dell’onore – contro il suo interesse e contro le sue stesse convinzioni ideologiche. Mentre difficilmente può redimere un giornalista che chiede la revisione con veemente convinzione, con più coerenza di moltissimi altri dreyfusardi (a cominciare da Clemenceau), ma lo fa per ragioni storicamente sbagliate, finendo poi per compromettersi, quarant’anni più tardi, con la barbarie nazista.
4 Per convincersene, basterà rileggere uno dei libri più belli, e in ogni senso più veri, scritti sulla storia di Francia del Novecento, L’Étrange défaite di Marc Bloch (uscito postumo nel 1946): dove la genealogia che da certo anti-dreyfusismo porta al nazionalismo anti-repubblicano, di fatto connivente con il nemico nazista, è argomentata in modo al tempo stesso inoppugnabile e attento alle sfumature (cfr. M. Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, Einaudi, Torino 1997).
5 «Le epoche stingono sugli uomini che le attraversano»: H. de Balzac, La signorina Cormon, a cura di P. Pellini, Sellerio, Palermo 2015, p. 55.
6 In proposito, in una bibliografia molto vasta, mi limito a citare, in italiano, un interessante volume collettivo: Cospirazioni, trame, a cura di S. Micali, «Quaderni di Synapsis», II, Le Monnier, Firenze 2003.
7 Si potrebbe aggiungere che – per una logica immanente, che nemmeno ha bisogno di regie occulte – proprio la moltiplicazione degli atti d’accusa, paradossalmente, è oggi funzionale al rafforzamento del potere (politico e soprattutto economico) dominante: perché la moltiplicazione pulviscolare degli obiettivi polemici (vaccini, treni veloci, gasdotti, scienziati cinesi, e via dicendo) disperde il conflitto sociale su obiettivi irrazionali e inessenziali, offuscando nelle nebbie del web i concreti rapporti di forza, la vera posta in gioco.
8 Il riferimento è ovviamente a H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964 e 2012.
9 R. Saviano, Prefazione, in É. Zola, L’affaire Dreyfus. La verità in cammino, a cura di M. Sestili, Giuntina, Firenze 2011, p. X.
10 In un articolo del 20 dicembre 1898: cfr. M. Winock, Le Siècle des intellectuels [1997], nuova ed. rivista e ampliata, Seuil, Paris 1999, p. 58.
11 Su questa frattura, cfr. le lucide considerazioni di Winock, ivi, pp. 41-77.
12 Grazia concessa, certo (come prevedeva la legge) dietro richiesta dell’interessato; ma nella lettera al Presidente, va da sé, Dreyfus non riconosceva affatto di essere un traditore, come sostiene Saviano: «Scrisse una lettera al presidente della Repubblica Loubet in cui ammetteva la propria colpevolezza» (Saviano, Prefazione cit., p. XI).
13 Cfr. J. Benda, Il tradimento dei chierici [1927], a cura di S. Teroni, Einaudi, Torino 1976, p. 100.
14 P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario [1992 e 1998], il Saggiatore, Milano 2005, p. 197.
15 Basti citare il giudizio di Antonio Gramsci: «il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, vol. I, Einaudi, Torino 1975, p. 285). Per una rivisitazione e valorizzazione da sinistra delle posizioni di Benda, Croce, Rolland, ecc., cfr. invece A. d’Orsi, Gli intellettuali e l’etica della responsabilità, in Id., Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001, pp. 3-36. Per una posizione in un certo senso intermedia, cfr. E.W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere [1994], Feltrinelli, Milano 2014.

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